La testimonianza di Maurizio Belpietro, direttore di Panorama
Approfittando della ricorrenza dei cent’anni dalla nascita, è cominciato un processo (laico) per la beatificazione di Indro Montanelli. Giornali e soprattutto tv hanno dato ampio spazio ai suoi diari pubblicati per l’occasione, soffermandosi in particolare sull’ultimo periodo di vita, quello cominciato il giorno in cui Indro, dopo 20 anni di direzione, lasciò Il Giornale, la sua creatura. Nella scelta c’è una buona dose di malizia, perché così si può mettere in luce esclusivamente il Montanelli antiberlusconiano. Anzi, si fa del grande giornalista il campione dell’opposizione al Cavaliere.
Intendiamoci, l’ex direttore del quotidiano di via Negri fu dal 1994 in poi un fiero avversario di Silvio Berlusconi. Ma ridurre la sua storia solo a quello è una manipolazione bella e buona. Così com’è manipolata la ricostruzione del suo abbandono del Giornale. A differenza di quel che si racconta, il fondatore non fu né licenziato né cacciato. Fu lui ad andarsene, scegliendo di non appoggiare il partito che il suo editore aveva deciso di lanciare. Secondo la vulgata che tenta di farlo passare per una vittima, Montanelli sarebbe stato obbligato ad andarsene dopo un discorso tenuto da Berlusconi davanti alla redazione del Giornale. Neppure questo corrisponde al vero. Indro non fu affatto costretto alle dimissioni, anche perché l’intervento del Cavaliere nell’assemblea non contiene le frasi che sono state spesso citate. Per averne prova basta rileggersi il resoconto stenografico che fu riportato nel libro di Mario Cervi e Gian Galeazzo Biazzi Vergani, due dei collaboratori più vicini a Indro.
Se non vi fu la cacciata, perché Montanelli se ne andò? La risposta è triplice.
Primo. Il Giornale da tempo perdeva soldi. Fin dalla sua fondazione il bilancio era in perdita per un eccesso di spese e proprio per questo i redattori, primi proprietari della testata, erano stati costretti a vendere le loro quote a Berlusconi. Ma, nonostante l’abitudine alle perdite, quelli del 1993 furono risultati molto negativi, tanto che il cda, di cui Montanelli faceva parte, decise di varare un doloroso piano di ristrutturazione: chiusura delle sedi estere, riduzione delle trasferte e contenimento di ogni spesa, pur di evitare il disavanzo di 14 miliardi attesi per il 1994. Indro, che a malincuore aveva approvato quel piano di lacrime e sangue e che in pubblico manifestava il suo disprezzo per i contabili, in segreto coltivava il desiderio di uscire da quella situazione fondando un giornale nuovo, più piccolo, con meno costi e meno problemi. E per questo, molto prima del discorso di Berlusconi al Giornale, si era rivolto a Victor Uckmar, noto commercialista genovese, che capeggiava una cordata di imprenditori intenzionati a fare un nuovo quotidiano.
Il secondo motivo dell’addio va ricercato nella voglia di non avere un editore, seppure di minoranza, che facesse politica. E per giunta un editore che egli non amava molto, anzi che probabilmente disprezzava. Montanelli, acerrimo avversario dei radical chic, era però un aristocratico, non con il blasone, ma sicuramente nelle maniere, e non amava la sudata fortuna di Berlusconi. Lo rivela lo stesso Marco Travaglio, quando racconta che Montanelli non appoggiò il Cavaliere “per motivi estetici, prima ancora che etici e morali”.
Terza ragione, la più importante: Indro si considerava l’unico, vero leader della destra in Italia. Pur non disponendo di un partito, Montanelli era l’indiscusso interprete di quelle idee, non a caso i politici, da Giovanni Spadolini a Ugo La Malfa, e perfino i capi dc, tenevano in grande considerazione le sue argomentazioni. Montanelli, quando Berlusconi decise di scendere in politica, si rese conto che il suo primato volgeva al termine. Non sarebbe più stato l’unico alfiere della destra e dell’anticomunismo, avrebbe dovuto condividere quel ruolo con l’imprenditore che ripianava i suoi deficit editoriali. Probabilmente capì che l’arrivo sulla scena politica del Cavaliere avrebbe archiviato per sempre la destra montanelliana, una destra quasi risorgimentale, sostituita da quella pragmatica di Berlusconi.
Ecco, il grande Indro non perdonò al Cavaliere di avergli strappato non Il Giornale, ma la patente di campione incontrastato di quella che un tempo fu definita la maggioranza silenziosa. Montanelli era sempre stato la voce di quella maggioranza d’italiani, ma nel 1994 alla sua voce si sostituì quella di Berlusconi. Per Indro fu un affronto insopportabile. Per questo s’inventò un’altra Voce. Per questo proprio lui, che era sempre stato di destra, si buttò a sinistra.