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MENO TASSE. PIU’ CORAGGIO

Pubblicato il 11 giugno, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

Giulio Tremonti e Silvio Berlusconi Si sta preparando una riforma fiscale a due stadi, come i contendenti: Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti. Il primo stadio, da attuare quest’anno (ma dopo aver garantito al ministro dell’Economia la blindatura della manovra da 45 miliardi entro il 2014) è il segnale che il Cavaliere vuol lanciare subito agli elettori. Consisterebbe in un taglio di tre punti dell’aliquota Irpef più bassa, oggi al 23 per cento sui redditi fino a 15 mila euro. E di un micro-taglio dell’Irap di 0,5 punti che allevierebbe la parte di questa imposta scervellata che si paga in relazione alla manodopera, la famigerata tassa sul lavoro. Poiché siamo sul filo del rasoio con l’Europa, questi sgravi dovrebbero essere a costo zero, cioè trovando le risorse all’interno dello stesso sistema fiscale. E dunque in primo luogo aumentando di un punto l’Iva ordinaria (oggi al 20 per cento) e ridotta (oggi al 10). Poi iniziando a disboscare la giungla 476 deduzioni e detrazioni, spesso frutto del pluridecennale lavoro delle lobby. Infine, se servirà, innalzando l’imposta sugli interessi, oggi al 12,5 per cento. Risultato? Sui primi 15 mila euro di reddito imponibile si pagherebbero 450 euro di tasse in meno l’anno, 37,5 al mese. Non cambia la vita, ma per chi campa con quegli introiti è comunque qualcosa. Attenzione, però: parte del risparmio verrebbe restituita a causa di quel punticino in più di Iva. Un motorino da 3 mila euro ne costerebbe 30 in più. Duemila euro di bollette l’anno, altri 20. Mille euro di fatture mediche altri dieci. E così via. Un mobile, un cellulare, una vacanza, tutto costerebbe di più. Ne varrebbe la pena? In linea di principio sì: il trasferimento delle imposte dalle persone alle cose è in tutti i sistemi fiscali avanzati, ed è anche un impegno di questo governo. All’atto pratico, però, andrebbe raffrontato all’effettivo beneficio iniziale. Nel 2008 i contribuenti che hanno dichiarato fino a 15 mila euro di reddito sono stati circa 20 milioni su un totale di 41. Ma occorre tenere conto della fascia esente che nel lavoro dipendente riguarda i redditi fino a 8 mila euro, e per gli autonomi fino a 4.800. Oltre dieci milioni di persone, e proprio quelle a reddito più basso, non avrebbero quindi benefici, mentre pagherebbero l’Iva maggiorata.

L’alternativa allo studio è ridurre l’aliquota media del 27 per cento pagata sui redditi da 15 a 28 mila euro: riguarda in primo luogo 15 milioni di contribuenti, più tutti quelli che stanno sopra. Ma per finanziare il doppio sgravio – di tre punti più uno – non ci sono le risorse, e dunque si parla del calo di un punto delle due aliquote più basse, dal 23 al 22 e dal 27 al 26. Questa operazione farebbe risparmiare al contribuente medio italiano, con reddito di poco inferiore a 30 mila euro, 280 euro l’anno. Ne beneficerebbero più persone, 35 milioni di contribuenti, i tre quarti del totale, ma con un sollievo ancora minore. Infatti mentre il costo della prima operazione è di 13,7 miliardi, quello della seconda è più o meno la metà. Lo sgravio mignon consentirebbe di evitare l’aumento della tassa sui risparmi, operazione invisa al Cavaliere e ai suoi elettori; e forse di togliere qualcos’altro dall’Irap. Fin qui l’assaggio per il prossimo anno. Dopodiché Tremonti presenterebbe la riforma vera e propria attraverso una delega che produrrebbe benefici concreti entro il 2013, anno elettorale. Si sa già però che il ministro intende muoversi sugli stessi binari: riducendo le imposte dirette e aumentando le indirette, disboscando le agevolazioni, innalzando la tassa sugli interessi. Va benissimo, ma la domanda è un’altra: basterà per ridurre la pressione fiscale complessiva, che l’anno scorso è stata del 42,8 per cento del Pil, largamente al di sopra della media europea? Certamente no, se la delega verrà attuata spostando imposte da una parte all’altra. Altra domanda: è davvero questa la riforma di cui ha bisogno il Paese per rilanciarsi? Ecco: secondo noi bisognerebbe partire proprio da qui. Per avere una pressione fiscale di tipo europeo, cioè leggermente al di sotto del 40 per cento, e quindi pensare davvero di rilanciare la crescita, occorre finanziare i tagli con altre risorse. E siccome varrà sempre il principio per cui non si può farlo in deficit, bisogna potare altrove, al di fuori dell’area tributaria. Insomma, rispetto all’idea tremontiana della riforma a costo zero, si deve osare di più. Ma in che modo? Non siamo la Ragioneria dello Stato, ma qualche idea ci viene in mente. In attesa dei famosi tagli verticali, cioè nel merito, alla spesa pubblica. Per esempio: ricordate la più volte promessa abolizione delle province? Si è detto che non renderebbe nulla perché gli impiegati andrebbero ricollocati.

Certo, ma a fine carriera non dovrebbero essere rimpiazzati. E comunque dai dati forniti dall’Unione province italiano salta fuori che non si tratterebbe di bruscolini: il costo complessivo delle 109 province, tra spese correnti e in conto capitale, è di 20 miliardi l’anno. Delle spese correnti, due terzi servono per il mantenimento della macchina burocratica. Dunque si potrebbero risparmiare in partenza 3-4 miliardi l’anno, che aumenterebbero con il decrescere dei dipendenti. Ma non solo. Ci sono gli stipendi dei presidenti (da 4 a 7 mila euro) e dei vice (da 3 a 4.500) ed i gettoni di assessori e consiglieri. I costi per le campagne elettorali. Vogliamo tenerci bassi e dire che in partenza si possono risparmiare 4-5 miliardi l’anno e a regime quei famosi venti? Andiamo avanti. Il governo aveva annunciato la riduzione del 20 per cento dei consiglieri comunali, che in città come Roma, Milano, Napoli, Torino erano ben 60 e con le ultime amministrative sono in effetti scesi a 48. Risparmio stimato, 213 milioni. Ma ci si può chiedere: perché a palazzo Marino, e naturalmente in Campidoglio, devono sedere 48 consiglieri mentre a Montecitorio ci sono 630 deputati ed a palazzo Madama 315 senatori? Dove stanno le proporzioni? Il congresso americano conta 435 deputati e 100 senatori: vogliamo ipotizzare che le decisioni che prende siano abbastanza rilevanti? Se riducessimo a 30 il numero dei consiglieri nelle città maggiori, ed a 20 in quelle minori, la nostra vita pubblica ne risentirebbe? Quei 213 milioni aumenterebbero ad ben oltre mezzo miliardo l’anno. A cui si aggiungerebbero i risparmi su auto blu, segreterie, cellulari, uffici, campagne elettorali. Proseguiamo. Roma, per fare un esempio a noi vicino, ha 20 municipi. Con relativi mini-sindaci, assessori e consiglieri. New York ha cinque distretti, o contee. Si potrebbe trovare una via di mezzo? O ancora: la Sicilia ha 90 deputati regionali, 14 più del senato australiano.

Ma anche Lombardia (80) e Lazio (70) non scherzano. Tirate le somme, noi contribuenti italiani manteniamo 120.490 consiglieri comunali, 3.246 consiglieri provinciali, 35.254 assessori comunali, 858 assessori provinciali, 1.117 consiglieri regionali. Circa 170 mila poltrone. Riducendole della metà arriveremmo a un altro miliardo di risparmi strutturali. Prendiamo il Cnel, Consiglio generale economia e lavoro. Costa 25 milioni l’anno, non molto direte, ma i suoi dirigenti viaggiano intorno a stipendi dai 300 ai 500 mila euro, ed i dipendenti intorno ai 100 mila. Il punto però è: a che serve? La Corte costituzionale e la Corte di Cassazione hanno rispettivamente 14 e 37 magistrati; la Corte suprema americana – che grosso modo riunisce le competenze di entrambe – ne ha nove. E così il Consiglio costituzionale francese. La Corte suprema inglese ha 12 giudici, quella tedesca 16, quella spagnola 12. Poi noi abbiamo il Consiglio di Stato (101 giudici) ed i Tar (392): un esercito di 493 magistrati amministrativi, ai quali si aggiunge qualche migliaio di dirigenti, direttivi, impiegati di concetto, esecutivi, dattilografi e ausiliari suddivisi in sei livelli di carriera e stipendi. E tralasciamo la giustizia penale e civile. Ci fermiamo qui per ora. Abbiamo fornito alcuni esempi di tagli per finanziare una riforma fiscale vera: tagli non solo possibili, ma doverosi. Per restituire ai contribuenti soldi veri, e per dimostrare che ridurre i costi della politica e delle poltrone si può. Un segnale – chiamiamo le cose per nome – etico. Marlowe, Il Tempo, 11 giugno 2011

L’ASSASSINO BATTISTI LIBERO. ITALIA VITTIMA DI CARLA’, SARKO’ E NAPOLITANO, di Maria Giovanna Maglie.

Pubblicato il 10 giugno, 2011 in Cronaca, Giustizia, Politica estera | No Comments »

Se Cesare Battisti, assassino, rapinatore, terrorista e delinquente comune, evaso, criminale incallito mai colto nemmeno da un secondo di ravvedimento, se ne sta già pancia all’aria su una spiaggia di Ipanema con garrotina, fidanzata giovanissima al seguito, attribuiamo le responsabilità a tutti coloro che insieme ai giudici brasiliani devono condividerle. È il Brasile, dove fa il presidente della Repubblica una ex terrorista mai pentita che ha seguito le orme del suo predecessore e grande ipocrita, Lula, il quale con Parigi a suo tempo si accordò proprio sullo sporco scambio. È la Francia che anche con questo presidente continua la vecchia applicazione della furbesca dottrina Mitterrand, non è vero madame Sarkozy, e lo fa sulla pelle degli italiani. È tutta l’Europa che non ha alzato un dito ancora una volta, ovvero ha confermato come se ne infischia dei diritti dell’Italia, dagli sbarchi di clandestini alla riconsegna di un criminale, provate a immaginarvi se fosse stato un tedesco, e come non capisce che la dottrina Mitterrand, ovvero un interessato rifugio ai terroristi dei Paesi alleati per strizzare l’occhio ai radical chic di casa ed evitarsi terroristi interni, è possibile anche oggi, e voglio vedere che succede se uno Stato democratico si mette a ospitare terroristi baschi o corsi o irlandesi e via così.
Infine, ma solo nell’ordine, è l’Italia stessa, con un governo che non ha saputo fare la voce grossa e farsi valere sul serio, e soprattutto un presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che si è speso malamente nella vicenda. Senza nulla togliere infatti a debolezze e carenze dell’esecutivo e della nostra diplomazia, è indubbio che il Colle negli ultimi mesi si sia candidato e comportato da guida forte di politica estera, con tanto di endorsement alle bombe “umanitarie” sulla Libia, di iniziative tra Israele e palestinesi, di rapporti diretti e amicali ostentati con la Casa Bianca. Bene, oggi giustamente Napolitano dichiara che la decisione del Tribunale supremo brasiliano «assume un significato gravemente lesivo del rispetto dovuto sia agli accordi sottoscritti in materia tra l’Italia e il Brasile sia alle ragioni della lotta contro il terrorismo condotta in Italia, in difesa delle libertà e istituzioni democratiche, nella rigorosa osservanza delle regole dello Stato di diritto». Ma qualche tempo fa diceva rassegnato addirittura che non eravamo stati in grado di far capire agli altri la verità sui nostri anni di piombo. Colpa degli italiani dunque, oppure un’antica consuetudine dell’ex partito comunista con le pratiche di accoglienza dei radical chic francesi? Questo è il bel risultato ed è inutile sostenere che la decisione della Corte Suprema brasiliana sia stata una sorpresa, al contrario tutto era preordinato da quando ai servizi francesi scappò di mano – ops… – il latitante Battisti, e certamente dall’ultimo giorno di presidenza di Lula.

Battisti infatti non arriva in Brasile per caso. Scappa dalla Francia grazie alla complicità dei servizi di sicurezza francesi, con il  sostegno importante di un nutrito gruppo di politici e intellettuali francesi e italiani di sinistra, con agganci pesanti nell’establishment politico e giudiziario brasiliano. Al potere c’è infatti un partito di sinistra erede della lotta alla dittatura, che contiene di tutto, dai cattolici agli estremisti rossi. Battisti viene così trasformato, in palese imitazione degli anni di Mitterrand a Parigi, in un martire degli anni di piombo italiani. Lula accontenta i suoi ministri estremisti, non interviene. Il responsabile della Giustizia, Tarso Genro, lo proclama addirittura rifugiato politico. Le sue sorti vengono seguite anche dalla coppia presidenziale francese Sarkozy-Bruni, Carlà è amica della scrittrice Fred Vargas, la principale sostenitrice di Battisti. Quanto alla politica del Brasile, certamente Lula e ora la molto più sprovveduta ma fedele Dilma contano sul fatto che liberando Battisti i rapporti con l’Italia non saranno compromessi e, certamente, l’Italia ha lasciato intendere loro con la scarsa determinazione mostrata che possono infischiarsene di principi e ideali di giustizia. Lula ha fatto il suo capolavoro,  passare per un’icona della sinistra mondiale no global pur stringendo accordi importanti con chiunque, da Cuba a Chavez all’America dei tempi di Bush.

Abbiamo avuto e abbiamo a che fare con dei banditi, che siano a Parigi o a Brasilia. Siamo ancora in tempo a sostenere che la dottrina Mitterrand è ipocrita e pericolosa, che pregiudica le relazioni tra Stati di diritto e democratici, che chi la applica ne deve pagare pesanti conseguenze, diplomatiche e commerciali? In tempo saremmo pure, dubito che ne abbiamo la volontà. di Maria Giovanna Maglie, Libero, 10 giugno 2011

L’IMBROGLIO REFERENDUM: E’ SOLO UN VOTO POLITICO. di Vittorio Feltri

Pubblicato il 10 giugno, 2011 in Politica | No Comments »

Nella speranza di dare un colpo al centrodestra, la si­nistra ha dissot­terrato l’ascia arruggini­t­a del referendum abroga­tivo. Il pretesto per usarla è cancellare alcune leggi ora sgradite dopo essere state graditissime un po’ a tutti. Nelle ultime setti­mane Il Giornale ha spie­gato come stanno le cose, e non ci sarebbe bisogno di ulteriori chiarimenti se non fosse che la propa­ganda dei referendari si è fatta martellante. Si an­drà alle urne – chi lo vor­rà, perché non è obbliga­torio – principalmente per mandare una secon­d­a volta in pensione il nu­cleare, che in Italia non ha mai potuto funziona­re.

Negli anni Ottanta co­struimmo (a costi abnor­mi) alcune centrali. Al momento di attivarle e go­derne i benefici, esplose un rottame sovietico a Cernobyl per colpa di tre elettrotecnici, uno dei quali ubriaco, che aveva­no scambiato il reattore per una semplice calda­ia. Sembrava la fine del mondo. Viceversa i Paesi civili, non soltanto occi­dentali, non fecero una piega e perfezionarono i loro impianti, altro che di­smetterli. Tutti tranne l’Italia. Che, presa dal pa­nico, corse a votare per bloccare ogni iniziativa atomica. E la bloccò per vent’anni durante i quali, però, consumò regolar­mente energia nucleare prodotta all’estero da centrali sorte a pochi chi­lometri dalle nostre fron­tiere. Doppia spesa e sol­di buttati, giacché in caso di incidenti il pericolo di contaminazione sarebbe stato comunque grave, per noi come per le confi­nanti nazioni esportatri­ci di energia. Vabbè. Sor­voliamo.

rriva Berlusconi e ci ri­prova. Parte la procedura necessaria a rivitalizzare l’ambaradan atomico e si attende l’inizio dei lavori, dopo aver identificato (fra mille grane con le Re­gioni) i luoghi dove realiz­zare gli impianti. E riecco­ci nel dramma. Nuovo in­cidente. Dal Giappone giungono notizie scon­volgenti e gonfiate dagli ambientalisti. I quali ne approfittano per lanciare un allarme apocalittico e così il secondo referen­dum sul nucleare decol­la: ovvio, la gente non dispone di informazioni scientifiche esatte e si abbandona alla paura. Il governo se ne rende conto e rinuncia al progetto con una legge denominata moratoria, anziché sospensiva, dato che il linguaggio incomprensibile è più chic.

In sintesi. Domenica si va a votare per abrogare una legge già abrogata. Un’insensatezza? Mica tanto. Perché se vinceranno i referendari, la sinistra dirà che ha perso ancora Berlusconi. Se si tratta di destabilizzare, tutto è buono, anche una consultazione superata dai fatti. Questa è la logica delle opposizioni che, avendo conseguito un risultato positivo nella partita amministrativa, sono persuase di essersi già aggiudicate lo scudetto.

C’è dell’altro. Domenica è in ballo anche il referendum sull’acqua. Si sente puzza di imbroglio. Hanno detto e ripetuto che l’acqua è stata privatizzata nonostante sia un bene pubblico, cioè di tutti. Falso. È stata privatizzata, in minima parte, solamente la rete idrica (le tubazioni, per essere chiari) in quanto glienti pubblici l’hanno gestita talmente male che il 40 per cento dell’acqua non arriva al rubinetto, disperso in mille rivoli per mancanza di adeguata manutenzione.

Niente da fare. Ormai è passato il concetto (campato per aria) che l’acqua se la sono fregata i padroni. Una bischerata. Cui se ne aggiunge una terza, pure oggetto di plebiscito: il legittimo impedimento per ministri e premier, già stravolto se non azzerato dalla Consulta. Consiste nel permettere ai signori del governo, qualora abbiano un impegno istituzionale relativo al loro mandato, di rinviare un’eventuale udienza in tribunale. Dov’è lo scandalo? Inesistente. Eppure anche questa norma, secondo Di Pietro, va depennata. Mah!

Mi fermo qui augurandomi di non avervi tediato. Solo una considerazione. La nostra è una democrazia rappresentativa: eleggiamo al Parlamento i rappresentanti del popolo – potere legislativo – affinché facciano le leggi. Segno che ci fidiamo di loro, altrimenti non li eleggeremmo. Bene. Allora che senso ha il referendum abrogativo il cui effetto può essere – lo dice la parola stessa – quello di vanificare l’attività di coloro che abbiamo delegato a svolgerla? Mistero.

Capirei se introducessimo il referendum propositivo: servirebbe a integrare il lavoro dei deputati e dei senatori. Una consultazione di questo genere sarebbe una ricchezza per la democrazia e non una diminuzione. Poiché, invece, nella presente circostanza il ricorso alle urne è una gagliarda presa in giro dei cittadini, una faccenda di bassa bottega politica, personalmente non ci sto: non andrò a votare. E credo di interpretare il pensiero di parecchi lettori, oltre che la linea del Giornale. Vittorio FELTRI, Il Giornale, 10 giugno 2011

RIECCO IL VERO BERLUSCONI: OTTIMISMO E TASSE GIU’. NONOSTANTE L’ECONOMIST

Pubblicato il 10 giugno, 2011 in Politica | No Comments »

L’Economist , ex autorevole setti­manale economico inglese og­gi in balia delle lobby della sini­stra europea, getta ancora un po’ di fan­go sull’Italia e su Berlusconi. Un mix di articoli già letti su Repubblica e su il Fat­to, una foto, un titolo ad affetto quanto volgare (L’uomo che ha fottuto un inte­ro Paese), e la copertina è fatta. Pur ri­spettabile, rimane l’opinione di un si­gnore amico dei nemici del premier. È come se oggi noi titolassimo: Econo­mist, giornale di m… E chi può smenti­re? Oppure: la Regina Elisabetta ha rot­to i cogl… Certo, noi passeremmo per beceri e volgari infangatori al soldo del potente, quei rimbambiti dell’ Econo­mist invece oggi saranno dipinti come uomini liberi e raffinati analisti.

Ma tra un insulto e una balla qualche cosa si muove. Ieri Berlusconi ha an­nunciato che entro l’estate sarà varata la tanto attesa riforma fiscale. La do­manda che circola in queste ore è: sarà fatta con Tremonti o senza Tremonti? Quella che fino a ieri era una certezza (decide Tremonti), oggi non lo è più. Non è cosa da poco, vista la bravura del ministro a tenere i conti in ordine e il suo credito internazionale. Berlusconi smentisce tensioni con Tremonti, altri giurano il contrario e parlano di dimis­sioni imminenti. Ma non è questo il problema. La novità è che si sta tornan­do a un governo a guida Berlusconi, che fino a prova contraria è il premier eletto e quindi legittimato a decidere. Ora, non è che Berlusconi è pazzo e vuole mandarci in rovina allentando la morsa fiscale mentre Tremonti è il sag­gio che ha a cuore i nostri portafogli. La differenza è che il primo deve governa­re un Paese, il secondo la cassa. Le due cose spesso vanno in conflitto, che se diventa cronico può causare danni enormi.

Il premier è ottimista, pensa che sia arrivata l’oradi fare qualche concessio­ne sul fronte delle tasse sicuro che gli italiani sapranno compensare riducen­do in cambio evasione ed elusione. Il ministro delle Finanze invece non si fi­da, chiede tempo in attesa di un mira­colo che a bocce ferme non ci sarà. Ma il tempo è scaduto, i miracoli hanno bi­sogno anche di un aiutino. Né il gover­no né i nostri imprenditori possono più permettersi di essere cotti a fuoco lento sulla brace del superministro. Questa volta credo non ci saranno ri­pensamenti. Chi ci sta bene, chi non ci sta pazienza. Il Giornale, 10 giugno 2011

ATTENZIONE LA’ FUORI C’E’ ALTRO, di Mario Sechi

Pubblicato il 10 giugno, 2011 in Politica | No Comments »

Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ai giardini del Quirinale in una foto d'archivio Ha consigliato Alfano. Ha visto Scajola. Ha incontrato Angelucci. Ha ascoltato Micciché. Ha accolto Ligresti. Ha ricevuto il consigliere Rai Verro. Promette la riforma del fisco. Non ha letto i giornali. Non ha letto l’Economist. Arrestati 8 mafiosi al giorno. Pensa al successore di Draghi. Resta fino al 2013. Non va al referendum. Dice di non vivacchiare. Le giornate di Silvio Berlusconi sono scandite da titoli d’agenzia, slogan, parole chiave. Sono un mix di attività politica pubblica e incontri privati che mettono in luce la forza dell’uomo e della carica che ricopre: è una vera e propria calamita. Solo che intorno a quel potentissimo magnete da tempo si concentrano richieste, pressioni, appelli, sogni e realtà che rischiano di fargli perdere di vista il mondo reale. Berlusconi è il protagonista di un ciclo politico straordinario e lunghissimo: diciassette anni sono tanti. Nei momenti di difficoltà ha sempre tirato fuori dal cilindro il coniglione risolvi-problemi. Ieri come oggi il Cav è alla ricerca del colpaccio. In cuor suo pensa che le elezioni siano state perse a causa della ganascia fiscale, delle tasse pesanti, del tremontismo dalla borsa stretta.Ha ragione, ma solo in parte. Dietro la caduta c’è altro. Donne e giovani stanno votando a sinistra. E in passato non era così. Al Sud c’è un processo inarrestabile di «leghizzazione» del quadro politico. Al Nord la spinta propulsiva del berlusconismo sembra esaurita. Si va avanti così? Benissimo. Niente primarie? Peggio per tutti. Idee nuove? Aspettiamo Godot. Mancano due anni alla fine della legislatura e nel Pdl si accontentano del detto di Andreotti «meglio tirare a campare che tirare le cuoia». Buona fortuna. Là fuori c’è Altro. Mario Sechi, Il Tempo, 10 giugno 2011

BRASILE A MANO ARMATA: IL PLURIOMICIDA BATTISTI LIBERO. SCHIAFFO ALL’ITALIA

Pubblicato il 9 giugno, 2011 in Giustizia, Politica estera | No Comments »

Due schiaffi, uno dei quali durissimo, all’Italia. Prima per 6 voti a 3 il Supremo tribunale federale di Brasilia, dopo una discussione fiume, ha rigettato senza nemmeno analizzare nel merito il ricorso presentato dal governo italiano nei confornti della decisione dell’ex presidente Lula di non estradare il terrorista rosso Cesare Battisti. Secondo i giudici brasiliani, la decisione di Lula è internazionale, e come tale non può essere contestata da un governo differente da quello verdeoro. Poi la terribile, sanguinosa, beffa: Cesare Battisti è libero. Dopo la decisione sulla non-estradizione, la Corte ha dibattuto sul rispetto da parte di Lula del trattato di estradizione in vigore con l’Italia. Dalla decisione sarebbe dipesa la liberazione di Battisti, in carcere da quattro anni. Il tribunale ha deciso che non ci sono state violazioni: Battisti, poiché non considerato estradabile, può tornare in libertà, alla faccia dei quattro omicidi e dell’ergastolo che pende sulla sua testa. Durissime le reazioni in Italia. Il premier Silvio Berlusconi ha espresso il suo “vivo rammarico” per la decisione che è arrivata da Brasilia, e poi ha aggiunto che “l’Italia continuerà la sua azione e attiverà le opportune istanze giurisdizionali per assicurare il rispetto degli accordi internazionali che vincolano i due Paesi”. L’ultima strada che il nostro Paese può percorrere per assicurare Battisti alla giustizia, ora, è quella del ricorso presso la Corte internazionale dell’Aja. Per l’Unione Europea, ha spiegato la portavoce della commissaria alla Giustizia, Viviane Reding, “il rilascio e la mancata estradizione di Battisti restano una questione bilaterale tra Italia e Brasile”.

.……..Se il Brasile fosse la Libia o come la Libia,  ci aspetteremmo che il presidente Napolitano, indossando uno dei suoi eleganti doppiopetti, ordinasse all’Aereonautica italiana di andare a bombardare Brasilia dove stanotte si è commessa una grave ingiustizia ai danni dell’Italia, del suo Capo, del suo Gocverno, del suo Parlamento, sopratutto del suo Popolo. Ma non accadrà. E non accadrà nulla, salvo le dichiarazioni di rito, le deplorazioni di facciata, il dolore per i familiari dei morti innocentiassassinati da un teppista da quattro soldi che si è trasformato in  squallida icona della sinistra mondiale per sottrarsi alla pena inflittagli per gli omicidi compiuti.  Rimarrà sulla sedia a rotelle il povero Torreggiani, il figlio dell’orefice assassinato da Battisti a Milano, rimasto a sua volta ferito e costretto da allora ad un vita da paraplegico. Certo,  gli perverranno le solite dichiarazioni di solidarietà, ma fra qualche giorno rimarrà solo con il suo dolore e il suo tormento, con la sua rabbia e il suo disatteso diritto alla giusitizia, con la g minuscola, quella che si è presa gioco di lui e dei tanti come lui per i quali giustizia non ci sarà mai. A Brasilia, l’ex operaio Lula  brinderà con il suo protetto  che ha salvato dal carcere dove doveva marcire sino alla fine dei suoi giorni per espiare gli assassinii compiuti e un giorno o l’altro magari ritornarà pure  in Italia per essere ricevuto con tanto di corazzieri che gli presenteranno le armi. E gli italiani? e l’Italia? Rimarranno con le braghe in mano a fare la figura degli scemi. Perchè, naturalmente, si manterranno tutti i rapporti commeciali con il Brasile e chissà, in un prossimo futuro, anche quelli artistici, magari avendo di fronte a rappresentare il Brasile proprio Battisti.Che vergogna per l’Italia e gli italiani. p.

P.S. Per l’unione Europea la faccenda Battisti riguarda solo i rapporti Italia-Brasile. Proprio come per l’invasione degli immigrati. Insomma noi stiamo in Europa solo per farci contare i peli delle scope. Per il resto dobbiamo vedercela da soli. Che ci stiamo a fare im Europa?

O CAMBIA TUTTO O CAMBIANO LUI, di Mario Sechi

Pubblicato il 9 giugno, 2011 in Politica | No Comments »

Ecco il testo del discorso dal direttore de Il Tempo tenuto ieri al teatro Capranica all’adunata dei «Servi liberi e forti».
Giuliano Ferrara, Maurizio Belpietro e Mario Sechi alla Caro Giuliano, cari amici del Capranica, sono nato in un posto della Sardegna dove – che tu lo voglia o no – le primarie comincia a farle la natura: è una dura selezione in cui fin dai giochi dell’infanzia vince quello più abile, intelligente e forte. Non ci sono vertici, riunioni di palazzo o di corrente che possano fermare questo fatto: la competizione comincia fin da bambini. È naturale. Per questo fin da piccoli in tutte le case sarde dove circolano libri e idee – libri e idee, non soldi – padri e madri tirano su i figli con il menù che non smetteva mai di ricordare Francesco Cossiga: minestra e politica. Sono giorni in cui mi pare che il secondo ingrediente sia sparito dal menù. Eppure stanno apparecchiando un sacco di tavoli in questi giorni. Forse c’è la minestra, ma di politica neppure il lontano profumo. Nel Pdl si fanno le cosiddette riunioni di corrente. Ma senza averle mai fatte, le correnti. Nel Pdl si dice senza imbarazzo che bisogna rifare la Dc. Informiamo i ricostituenti che la Balena Bianca s’è spiaggiata ed è morta nel 1994, diciassette anni fa. E toh! Proprio diciassette anni fa accadeva qualcosa di cui stiamo parlando oggi. Un’onda lunga che non si è ancora spenta ma è vero che il vento ha cominciato a girare e a soffiare contro. E il barometro segna burrasca. I risultati elettorali di Milano e Napoli non sono un episodio. Sono il picco di una tendenza, sono la punta dell’iceberg.  E come ci ricorda la cronaca del naufragio, fu la parte sommersa dell’iceberg a sfondare la chiglia del Titanic. Anche in questa storia l’orchestrina continua a suonare sul ponte mentre la nave affonda. A questo fenomeno non si risponde con la nomina di un segretario politico e il downgrade di tre coordinatori. La gente non capisce queste cose, ha crisi di rigetto per questi cerotti che medicano ma non curano. Questa è roba che va bene se devi gestire la liquidazione di un non-partito, non per rinnovare e rilanciare una buona idea politica. Serve altro. Umiltà. Narrazione. Rivoluzione. L’umiltà di capire che si è perso, che la sconfitta è grave e pure seria. La narrazione e il racconto di una visione del mondo diversa da quella che ci propongono i sacerdoti del politicamente corretto e i teorizzatori della superiorità antropologica della sinistra di piazza e di salotto. La rivoluzione di mettersi tutti in gioco e aprire il centrodestra alla competizione, al popolo sovrano che ascolta, partecipa e decide. È finito il tempo delle tessere e della conta da congresso. È una cosa che sa di ferraglia, di Novecento, di passato che non può tornare. Svegliatevi. Fuori c’è altro. Il mondo della rete sta cominciando anche da noi a influenzare la politica. I social network non sono il passatempo di quattro giovani-adulti cresciuti con il Commodore 64, ma una piazza elettronica che fa tam tam e poi mobilita la massa. Fa opinione. E la trasforma in movimento e voti. Là fuori le primarie le stanno già facendo. La più importante comunità online di blogger del centrodestra, Tocqueville, ha lanciato dai blog di Daw e Right Nation una petizione online che sta facendo scintille. È il tam tam della foresta. Ascoltatelo. «Vogliamo scegliere noi per non far scegliere loro». «Vogliamo scegliere i nostri parlamentari, il nostro candidato premier, i nostri candidati alla guida di città, province, regioni. Vogliamo scegliere la classe dirigente del nostro partito, i coordinatori comunali, provinciali, regionali, il presidente nazionale. Vogliamo scegliere perché scegliere significa mettere in competizione, premiare il merito, preferire le idee buone a quelle cattive. Vogliamo scegliere perché sentiamo che questo centrodestra è davanti ad un bivio cruciale ed è chiamato ad assumere una decisione non più procrastinabile: o si cambia o si muore. O si imbocca la via della democrazia interna o si corre rapidi sul viale del tramonto». C’è tutta la sublime passione di chi chiede al centrodestra di mettersi in gioco, aprire la sala da bowling, mettersi in fila e farci vedere chi sa fare strike o no. Ah, sì, li vedo già gli sguardi accigliati di quelli che pensano si tratti di un fenomeno che prima o poi passa e tutto torna come prima. Mi ricordano la profezia di Darryl F. Zanuck, presidente della 20th Century Fox, che nel 1946 disse: «Entro sei mesi la gente si stancherà di stare a guardare quella scatola di legno chiamata Tv». Sappiamo com’è andata. La televisione si è fatta audience e l’audience s’è fatta elettore. Quelli che pensano alla successione a Berlusconi come al gioco del piccolo chimico non hanno capito niente. È una vecchia storia che nessuno vuole mandar giù perché è dura da digerire. La successione la decideranno gli elettori. E stavolta se non li ascoltate, decideranno contro di voi. Caro Berlusconi, o lei cambia tutto o gli elettori cambieranno lei e tutto il sistema, suoi avversari compresi. Non è una profezia. Sta succedendo. C’è tutto da perdere. Non c’è più tempo da perdere. Mario Sechi, Il Tempo, 9 giugno 2011

LA NUOVA GIUNTA DI NAPOLI DA’ RAGIONE A BERLUSCONI

Pubblicato il 9 giugno, 2011 in Politica | No Comments »

Il governo ieri è andato sotto un pa­io di volte al Senato. Votazioni non decisive per le sorti del Paese e del­la maggioranza, ma la cosa non do­vrebbe succedere, non ora, non in que­sto clima di fragilità psicologica del do­po elezioni. Lo scivolone, dovuto ai so­liti assenteisti, stride con i grandi lavo­ri in corso al vertice della coalizione e del governo per trovare la strada del rilancio. Una via che si è fatta stretta ma che è ancora percorribile. Anche perché sia da Milano sia da Napoli arri­vano segnali incoraggianti rispetto al­l’ipotesi che per l’opposizione si sia trattato di due vittorie di Pirro. A Napo­li, il nuovo che avanza si chiama Procu­ra della Repubblica. Della giunta del­l’ex pm De Magistris farà parte l’attua­le pm Giuseppe Narducci, quello che ha indagato per concorso esterno in as­sociazione mafiosa il coordinatore campano del Pdl Nicola Cosentino. Non so se è chiaro a sufficienza: un ma­gistrato indaga e sputtana il leader del centrodestra e poi, guarda la coinci­denza, diventa assessore dello schiera­mento opposto.

Questa è la prova evidente che Berlu­sconi non è matto né maniaco quando denuncia il complotto dei giudici. Ov­viamente da Csm e Associazione magi­strati non è arrivato un commento. Co­sì come a Milano tace il popolo arancio­ne che ha spinto alla vittoria Pisapia. Il quale, invece che chiamare a sé i ro­mantici sognatori che ha abbindolato in campagna elettorale, sta componen­do una squadra di governo fatta con i più feroci squali del potere finanziario e immobiliare milanese.

Insomma, non dovrà passare molto tempo prima che gli elettori di sinistra, smaltita la sbornia, prendano atto di essere stati fregati ancora una volta. E soprattutto sarà presto chiaro che quel­lo che è successo nelle urne di Napoli e Milano non ha alcuna possibilità di es­sere replicato a livello nazionale. An­che per questo gli uomini del centrode­stra devono velocemente uscire dalla sindrome depressiva nella quale sono caduti all’indomani del voto e tornare al lavoro. Con diversi distinguo questa è stata anche la ricetta uscita ieri dagli stati generali dei giornalisti pro Silvio convocati a Roma da Giuliano Ferrara. A Berlusconi saranno anche fischiate le orecchie, ma tutto sommato può sta­re tranquillo. Non c’è aria di fronda, nessuno ha intenzione di scendere dal­la nave in difficoltà. A patto che lui tor­ni a fare il Berlusconi a tempo pieno, con i suoi uomini e con gli elettori. La missione non è ancora compiuta e al­l’orizzonte non si vede nessun altro in grado di subentrare. Serve una mossa, subito e azzeccata. Poi la strada torne­rà in discesa. Il Giornale 9 giugno 2011

OGGI AL CAPRANICA, CONSIGLI DELLA SERVITU’, di Mario Sechi

Pubblicato il 8 giugno, 2011 in Politica | No Comments »

Il manifesto della Quando Ferrara mi ha telefonato qualche giorno fa proponendomi di aderire e partecipare all’adunata di stamattina al teatro Capranica a Roma non ho avuto un secondo di esitazione: «Sì Giuliano, conta su di me e Il Tempo». Era una risposta naturale a un’attenzione altrettanto naturale che l’Elefantino ha per questo giornale e il suo direttore. Il nostro quotidiano fa parte del mondo conservatore ben prima che la destra moderna italiana si formasse, è stato fin dalla sua fondazione nel 1944 una fucina di idee e un laboratorio politico-culturale straordinario. Questo giornale ha una biografia che comincia prima del berlusconismo e continuerà anche dopo – perché ha storia, tradizione, radici solide ancorate al simbolo di Roma Capitale e uno sguardo fresco e senza pregiudizi di sorta sul futuro del blocco sociale moderato. Per queste ragioni essere oggi alla manifestazione che provocatoriamente Giuliano ha chiamato «l’adunata dei servi liberi e forti» è importante: Il Tempo è una voce che non può mancare in un dibattito sul centrodestra e un leader, Silvio Berlusconi, che – piaccia o meno – ha segnato diciassette anni di storia italiana. La notizia della riunione della combriccola di pennivendoli ha destato subito la curiosità dei commentatori dei giornali e la diffidenza dei politici del Pdl. Benissimo. Eugenio Scalfari ci ha subito assestato un gancio destro nel suo pezzone domenicale su Repubblica: «Cari servi liberi, la vostra richiesta è la più eloquente testimonianza che 17 anni sono stati dissipati. La vostra libera servitù ha soltanto contribuito a creare una palude piena di miasmi nella quale avete impantanato un Paese che ora finalmente ha deciso di alzarsi e camminare senza di voi». Eugenio la pensa così e non ci sorprende, ciò che invece è notevole è il suo interesse per la riunione dell’allegra brigata di Foglio, Giornale, Libero e Tempo. Scalfari dimostra ancora una volta di essere il più intelligente e acuto di tutti. Ha capito che stamattina in realtà non faremo la festa al Cav., ha compreso che dal palco del Capranica verranno fuori idee, proposte e critiche, una visione del mondo, cose forse disordinate ma che in un congresso di partito del centrodestra non si vedono più da tempi remoti. Scalfari intuisce, da raffinato intellettuale qual è, che questo è pericoloso. Nitroglicerina. Perché se si rimettono in moto i neuroni, si ritorna a fare politica, cultura e allegra egemonia, la forza tranquilla che ha scelto di esser governata da Berlusconi si risveglia e pensa: «Sì, certo, siamo stati sconfitti, ma non siamo morti e forse è ancora presto per celebrare il funerale». Tutto questo per molti è incomprensibile, addirittura un’eresia. Per altri è un’autorete e per chi vede la vita come una continua partita doppia di opportunismi un errore che si paga a caro prezzo. L’altro ieri una persona cara che mi vuole bene mi ha scodellato questo ragionamento: «Perché lo fai? Perché partecipi a una kermesse berlusconiana? Non ti conviene».

Ecco, quando ho sentito il «non ti conviene» ho capito che stavo facendo la cosa giusta. Non ho fatto carriera perché ho sposato un’idea politica o mi sono agganciato a un carro di partito, ma perché so fare i giornali. Non ho mai pranzato con Berlusconi, non frequento salotti di potenti, non organizzo camarille e quando ho un minimo di tempo per me stesso, provo ancora un immenso piacere a leggere e studiare. Scrivo quello che penso e credo che si debba fare a destra quel che fanno (spesso male) a sinistra: discutere in libertà, giocare con il paradosso, aprire la mente, respirare aria nuova e sostenere le buone idee del mondo liberale e conservatore. Non mi pare un’eresia, ma un modo civile e trasparente di condurre la fiera battaglia per conquistare il cuore e la mente di chi ti legge, vede e ascolta tutti i giorni. È una guerra culturale che comincia prima di Berlusconi, prosegue con Berlusconi, va oltre Berlusconi. È necessaria per alimentare il dibattito sociale di un Paese, costringere i propri amici a confrontarsi con gli errori fatti e le promesse mancate, dare ai nemici una visione del mondo che li mette di fronte al dramma di un manicheismo politico fine a se stesso, autodistruttivo. Tutto questo si scontra appunto con la logica dei guelfi e ghibellini, del moralismo un tanto al chilo, della presunta superiorità antropologica della sinistra, del politicamente corretto e della convenienza di piccolo cabotaggio. Per questo oggi al teatro Capranica dirò due o tre cose sul Pdl, Berlusconi e il centrodestra. Domani cari lettori le potrete leggere sul vostro giornale. Niente di «folle e perfido» come le «istruzioni alla servitù» di Jonathan Swift, ma consigli per un Cavaliere troppo solo. Mario Sechi, Il Tempo, 8 giugno 2011


LIBERI, SERVI E TESTIMONI DI SINISTRA

Pubblicato il 7 giugno, 2011 in Costume, Politica | No Comments »

Domani, dalle 10, al Teatro Capranica a Roma,  ci si rimette in gioco per amore del Cav., a due passi da Montecitorio. Partecipano Libero, il Tempo e il Giornale. Ogni proposta è benvenuta e l’ingresso è libero, anche per Berlusconi

Domani, al teatro Capranica, i servi liberi e forti del Cavalier Silvio Berlusconi si rimetteranno in gioco perché, sì, a Milano s’è perso, ma non si può accettare di avvizzire così. E mentre altrove si affilano coltelli e si ripassan motti legalitari – col dubbio che si finisca, alla prima occasione, in una baruffa fratricida – al Capranica, dalle 10 del mattino, la stagione concertistica lascerà spazio alla “Festa per il caro amico Silvio. Libera adunata dei servi del Cav.”. Ci sarà, come si conviene, anche il festeggiato, che farà capolino a mezzogiorno e dirà la sua.

Apriranno la discussione gli interventi di quelli che, con orgoglio e sprezzatura, rivendicano l’ossimoro di “libero servo” del berlusconismo. Inizierà Giuliano Ferrara, seguito dai direttori del Giornale, Alessandro Sallusti, del Tempo, Mario Sechi, e di Libero, Maurizio Belpietro e Vittorio Feltri. Si andrà avanti fino al primo pomeriggio con gli interventi. L’ingresso, ovviamente, è libero e il teatro è a due passi da Montecitorio.

Ma non sarà una seduta di psicoanalisi collettiva né un raduno per nostalgici che non si rassegnano alla fine dello spirito del ’94. Ci saranno testimonianze politiche di sinistra: Piero Sansonetti, direttore del settimanale gli Altri, Ritanna Armeni, columnist del Riformista, e la giornalista femminista Marina Terragni prenderanno la parola. “Dirò che non si può uscire dalla crisi di questa egemonia culturale guardando indietro, sarebbe come se la sinistra degli anni 90 avesse invocato un ritorno al ’75”, dice Ritanna Armeni, che parlerà “perché credo che chi mi ha invitato non si aspetti nessuna compiacenza e perché non sono abituata a rifiutare il dialogo”. “Ho una scarsissima speranza che Berlusconi possa andare avanti e trovo che discuterne sia molto utile”, dice Marina Terragni. “Il tentativo di andare oltre Berlusconi è una grande occasione per la sinistra, che ormai ha mutuato tutti gli aspetti del Cav., tranne il garantismo, che di per sé sarebbe tipicamente di sinistra”, dice Sansonetti.

Dalle colonne di questo giornale si sono proposte le primarie, si è chiesto al Cav. di vincere la riluttanza a essere se stesso, si è provato a indicare possibili sfidanti. Domani, con chi viene, si continua. Perché, come insegna Baldassarre Castiglione, anche il servo può rendere virtuoso il principe. Basta che, con i suoi consigli, si assicuri che “sempre sappia la verità d’ogni cosa, e s’opponga agli adulatori, ai malèdici ed a tutti coloro che machinassero di corromper l’animo di quello con disonesti piaceri” (“Il cortegiano”, IV, XLVI). Fonte: Foglio quotidiano, 7 giugno 2011