Archivio per la categoria ‘Giustizia’

IL PROCESSO (INFINITO) ALLO STATO, di Paolo Mieli

Pubblicato il 25 aprile, 2018 in Costume, Giustizia, Politica | No Comments »

Illustrazione di Fabio Sironi

Oggi, 25 Aprile, festa della Liberazione, è il giorno giusto per fermarci a riflettere sulla salute dello Stato italiano. Che non è buona per colpa dei molti che da decenni attentano con noncuranza al suo buon nome o alla sua stessa integrità e per il fatto che sono pochi, troppo pochi, quelli che danno prova — non a chiacchiere — di averne a cuore le sorti. Ma c’è poi anche una questione che attiene alla reputazione dello Stato medesimo. Reputazione danneggiata dal progressivo formarsi di un senso comune genericamente ad esso ostile al quale rischiano di contribuire talvolta anche coloro che se ne ergono a difensori. Di cosa parliamo? Prendiamo il caso della sentenza del processo sulla «trattativa Stato-mafia» nel cui merito qui non entriamo in attesa del secondo e terzo grado di giudizio (oltreché di poterla leggere per esteso). Già adesso, però, non possono sfuggirci le ripercussioni che in tema di Stato tale sentenza avrà nel discorso pubblico e sui libri di storia. In che senso? Ecco in che termini ne ha riferito un giornale che — oltreché del direttore Gian Maria Vian e dei suoi giornalisti — è la voce, per così dire, di papa Francesco, L’Osservatore Romano: la sentenza della Corte d’assise di Palermo avrebbe «stabilito in primo grado che la trattativa tra l’organizzazione mafiosa Cosa Nostra e gli uomini delle istituzioni non solo c’è stata ma ha anche toccato i massimi vertici dello Stato italiano».

Proprio così, secondo il quotidiano della Santa Sede (o meglio: secondo la sentenza), «i massimi vertici dello Stato» avrebbero interloquito con l’organizzazione criminale, per giunta «proprio mentre venivano assassinati i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e le loro scorte, nonché cittadini inermi, vigili del fuoco e agenti di polizia, nelle stragi di Firenze e Milano e venivano fatte esplodere bombe nel cuore di Roma». Più o meno quello che, con maggiore o minore enfasi, hanno riportato quasi tutti gli organi di stampa. Ed è questa, ad ogni evidenza, una percezione destinata a restare. Anche se, come qualcuno ha notato, nella sentenza compaiono sì i nomi dei capi mafiosi e degli ufficiali del Ros responsabili di aver «avvicinato» i boss, ma neanche uno di un qualche appartenente ai suddetti «massimi vertici dello Stato italiano». L’unico, Nicola Mancino – per il quale Nino Di Matteo e gli altri pm avevano chiesto una condanna (sia pure per un reato minore: falsa testimonianza) – è stato assolto. Per il resto, niente nomi né cognomi.

Non è una storia nuova. L’anno prossimo, il 12 dicembre, saranno cinquant’anni dalla bomba di piazza Fontana. E saranno poco meno di cinquant’anni da quando, per spiegare l’accaduto, la casa editrice Samonà e Savelli diede alle stampe un libro, «La strage di Stato», il cui titolo è rimasto a definire quell’orribile fatto di sangue. Strage o stragi «di Stato». Sempre, dal ’69 in poi, si è creduto di individuare lo zampino dello «Stato» dietro qualche colpa di questo o quel funzionario o appartenente alle forze dell’ordine. Ma nomi riconducibili ai «massimi vertici» non ne sono venuti fuori. Mai. Nonostante ciò, «lo Stato» a poco a poco, nei nostri manuali di storia (non tutti, per fortuna), è andato prendendo le forme del possibile mandante di questa o quell’impresa delittuosa. Sempre beninteso come un’entità impersonale (e in qualche caso, nelle ricostruzioni, assumeva proprio la denominazione di «entità»). Nemmeno una volta che si sia riusciti ad arrivare all’identificazione di qualcuno che ben più di più di un ufficiale infedele ci avvicinasse a quei «massimi vertici». Eppure si moltiplicavano pentiti, dissociati, imputati che vuotavano il sacco e raccontavano, raccontavano. Ma al momento di indicare nominativamente qualche appartenente alle vette statuali di cui ha correttamente riferito L’Osservatore Romano, niente. E anche in questa occasione…

Qualcuno ha provato a individuarli quei nomi. Marco Travaglio, persona più di qualsiasi altra capace di decrittare quel che scrivono i giudici, ha riassunto sul Fatto ciò che si potrebbe desumere dal dispositivo dell’attuale sentenza: «i tre carabinieri (Mori, Subranni e De Donno) sono stati condannati insieme a Bagarella e Cinà per avere trasmesso ai governi Amato e Ciampi il messaggio ricattatorio di Cosa Nostra (il “papello” con le richieste di Riina in cambio della fine delle stragi) perché lo Stato si piegasse ai mafiosi». E lo Stato, ha scritto ancora il direttore del Fatto, «si piegò». Se ne dovrebbe dedurre che la sentenza punta il dito accusatore contro Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi, i quali, appunto, «si piegarono». O contro qualche innominato di pari livello che lo fece al posto loro. Innominato a cui sarebbe riconducibile anche la «rimozione degli uomini della linea dura» (il ministro Enzo Scotti e il direttore del Dap Niccolò Amato) «per rimpiazzarli con quelli della linea molle» (il Guardasigilli Giovanni Conso, il nuovo capo del Dap Capriotti) che nel ’93 «revocarono il 41 bis a ben 330 mafiosi detenuti». «Fu quello», ha scritto ancora Travaglio continuando a riassumere il dispositivo della sentenza, «il primo di una lunga serie di regali a Cosa Nostra, proseguiti per vent’anni sotto i governi di centrodestra e centrosinistra, ma purtroppo non punibili penalmente». E così anche Silvio Berlusconi (esplicitamente chiamato in causa per via della condanna a Marcello dell’Utri) e Romano Prodi sono sistemati.

Davvero non si capisce perché i nomi degli esponenti dei «massimi vertici» del Paese al momento decisivo siano scomparsi dalle carte giudiziarie e al loro posto sia rimasto solo soletto «lo Stato». Abbiamo scritto che un tal modo di attribuire allo Stato ogni genere di male ebbe una data d’inizio ai tempi della strage di piazza Fontana (1969). In realtà – in termini meno espliciti e diretti – qualcuno aveva cominciato molto prima, nel 1947, in occasione dell’eccidio di Portella della Ginestra; successivamente avevamo avuto un obliquo rinvio al presidente della Repubblica Antonio Segni per il piano Solo (1964): sempre si alludeva a ordini «partiti dall’alto, da molto in alto», salvo poi sfumare il tutto al momento in cui sarebbe stato necessario circostanziare le accuse nelle aule di giustizia. Negli anni Settanta e Ottanta ci si accorse di questo inconveniente e dagli studiosi furono introdotte nuove categorie a giustificare il perché la mancata identificazione degli statisti responsabili di misfatti: «Stato nello Stato», «Stato parallelo», «Doppio Stato». Ma nomi e cognomi degli appartenenti ai «massimi vertici» dello Stato – parallelo o doppio che fosse – non furono mai identificati. Così – eccezion fatta per Giulio Andreotti e la mafia, con la stravagante condanna/assoluzione double face – i grandi accusati evaporavano nel nulla e nelle reti giudiziarie restavano impigliati imputati medi e piccoli che, diciamolo, sarebbe davvero ingiusto qualificare ancora come «lo Stato». Anche perché, così facendo, è accaduto che lo «Stato» abbia dovuto farsi carico di una serie mostruosa di capi di imputazione ed entrare, aggravato da questo non lieve fardello, in tv, manuali di storia, libri, film (e, per via subliminale, nella coscienza di moltissimi italiani) come «mandante occulto» di orribili delitti.

Restando in tema di mandanti, il 14 novembre del 1974 Pier Paolo Pasolini pubblicò su queste colonne un celeberrimo scritto in cui, parlando delle stragi di quegli anni, sosteneva di conoscere i nomi di chi le aveva commissionate, ma di non poterli mettere nero su bianco dal momento che non ne aveva le prove. Fu, quell’articolo, una scossa salutare. Ma forse non immaginava, Pasolini, che nei successivi quarantaquattro anni la magistratura italiana avrebbe annoverato una gran quantità di «pasoliniani» i quali, senza neanche disporre della sua ispirazione poetica, non avrebbero esitato a puntare l’indice contro non meglio identificati «alti vertici dello Stato», senza poi sentirsi in obbligo di circostanziare le accuse. Povero «Stato» che nella sua immaterialità, a differenza dei singoli individui, non può difendersi, né nei tribunali, né nei talk show, né nelle piazze. Dopo che per 50 o 70 anni lo si è indicato all’origine di più di un misfatto, non potrà certo essere «assolto» in appello. Né essere risarcito. Dovrà restarsene nei libri di storia sempre più afflitto nella reputazione a pagare per chi sa essere efficace nelle invettive ma non ritiene di doversi presentare all’appuntamento decisivo: quello dell’addebito delle colpe a un essere in carne e ossa. Eventualmente provvisto di identità. Paolo Mieli, Il Corriere della Sera, 25 aprile 2018

MIGRANTI, CALANO GLI SBARCHI, di Paolo Mieli

Pubblicato il 24 agosto, 2017 in Economia, Giustizia, Politica | No Comments »

Sarà anche a causa (oper merito) di qualche «ex capo mafioso» di Sabratha che ha smesso di aiutare gli scafisti e — per legittimarsi con il governo di Tripoli — adesso anzi li ostacola, ma quel che sta accadendo nei mari libici ha dell’incredibile: ad oggi
il numero dei migranti sbarcati nel mese di agosto sulle coste italiane è di 2.859 contro i 10.366 dell’anno scorso. Sono diminuiti di ben più del 72%. Davvero clamoroso. E pensare che le cose in primavera sembravano essersi messe al peggio: ad aprile gli arrivi erano cresciuti a 12.943 contro i 9.149 del 2016. A maggio erano aumentati ancora: 22.993 a fronte dei 19.957 dell’anno scorso. A giugno lo stesso: 23.526 contro 22.339. Infine quei due giorni maledetti, 27 e 28 giugno, nei quali di profughi ne giunsero diecimila. Diecimila che sbarcarono pressoché contemporaneamente da venticinque navi in altrettanti porti italiani. Poi un nuovo mega sbarco di oltre quattromila persone il 14 luglio.

Ci si aspettava un’estate davvero complicata. Tragica per i migranti, prima di tutto, dal momento che — con quei ritmi di fuga dall’Africa — sarebbe stato assai probabile che un’alta percentuale di uomini, donne, bambini avrebbe trovato la morte in mare. E assai impegnativa per il nostro Paese che avrebbe dovuto accoglierne in quantità alle quali non era preparato. È in quel momento che si è avuta la svolta.

Una svolta iniziata qualche giorno prima delle celeberrime disposizioni del ministro dell’Interno Marco Minniti che impegnavano le navi di soccorso delle Ong ad accogliere a bordo agenti inviati dall’autorità giudiziaria. Tant’è che già nel mese di luglio — nonostante i 4 mila del 14 — i migranti giunti nel nostro Paese erano scesi dai 23.552 del 2016 a 11.459. Cosa è successo? Alcuni personaggi equivoci, come quelli peraltro non identificati di Sabratha, hanno giudicato conveniente mollare i trafficanti al loro destino. Si poi è messa in moto la Guardia costiera libica alla quale l’Italia aveva riconsegnato quattro motovedette riammodernate assieme ad una cinquantina di agenti addestrati alla scuola della Guardia di finanza di Gaeta. E la famosa nave che (su richiesta del presidente Fajez Serraj) abbiamo mandato in acque libiche — invio a causa del quale il generale Haftar ci ha minacciato di ritorsioni armate — funge adesso da officina di riparazione delle motovedette di Tripoli. Un programma che va avanti: entro l’estate di motovedette ne consegneremo altre sei; così come continueremo ad addestrare altro personale della loro Guardia costiera. E la Guardia costiera, sia ricordato a sollievo di chi guarda all’intera vicenda ispirato da autentici principi umanitari, non solo ha reso molto meno facili le attività dei trafficanti di profughi ma ha sottratto ad un destino di sventura (e alcuni a «morte certa», parole che prendiamo da documenti delle Nazioni Unite) diecimila disperati in fuga dall’Africa.

La complessa operazione ha avuto un’altra insperata conseguenza. Invece di crescere a dismisura e di andarsi a stipare in dimensioni straripanti nei centri di accoglienza del nord libico, i migranti che quest’estate hanno raggiunto la costa settentrionale africana, sono diminuiti. La notizia che il trasbordo dalle imbarcazioni degli scafisti a quelle delle Ong era stato reso più complicato, ha avuto, ad ogni evidenza, un effetto deterrente. Anche perché, a seguito dell’incontro di Minniti con i «tredici sindaci» (capitribù ai quali è stata offerta una prospettiva economica alternativa al coinvolgimento nel traffico di esseri umani), hanno cominciato a funzionare alcune attività di frontiera a sud della Libia. Ad un tempo è aumentata — con effetti positivi — la sorveglianza dell’Onu (tramite Unchr) sui centri di accoglienza. E ben cinquemila profughi hanno accettato di tornarsene nei Paesi d’origine grazie anche ad un incentivo economico. Il tutto sotto la sorveglianza delle Nazioni Unite.

Ci si può fidare al cento per cento dell’Onu? Sottovalutiamo la disponibilità della milizia di Sabratha a cambiare nuovamente bandiera? Abbiamo risolto una volta per tutte — almeno per quel che ci riguarda — il problema delle migrazioni? Possiamo escludere che negli ultimi giorni di agosto o in settembre si abbia qualche brutta sorpresa? No. È evidente. Ripetiamo: no. È però accaduto che qualcuno si sia finalmente e provvidenzialmente mosso contro i signori del traffico migratorio. E che qualche risultato si cominci a vedere: gli sbarchi ridotti del 72%, la Guardia costiera libica che ha salvato diecimila persone, cinquemila profughi che accettano il «rimpatrio volontario assistito».

Molti dimenticano che l’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti fu preceduta da una vera e propria guerra cinquantennale della Royal Navy inglese contro gli «scafisti» di allora. Dopo che con lo Slave Trade Act (1807) fu reso illegale il commercio degli schiavi, le navi britanniche ingaggiarono nei mari una battaglia contro i trafficanti che si protrasse fino al 1865, l’anno in cui, con la vittoria del Nord abolizionista, si concluse in America la guerra di secessione. Oggi concordiamo sul fatto che senza quella spietata guerra ai negrieri, la strada per l’abolizione della schiavitù sarebbe stata molto più lunga. L’analogia con quella lontana offensiva contro i trafficanti di esseri umani è stata colta — prendiamone nota — da due personalità alle quali, quando si tornerà a parlare di questo agosto 2017, si dovranno riconoscere meriti particolari: Gualtieri Bassetti e Bernard Kouchner. Bassetti è da poco tempo il presidente dei vescovi italiani e nel momento in cui il mondo cattolico appariva incline a criticare in termini aspri la politica del governo sulle Ong, ha pronunciato — il giorno di San Lorenzo, a Perugia — un notevole discorso nel quale ha richiamato la comunità cristiana ad una guerra senza quartiere contro «la piaga aberrante della tratta di esseri umani» e alla pronuncia del «più netto rifiuto a ogni forma di schiavitù moderna». Riferimenti evidenti alla lunga battaglia della marina inglese di cui si è appena detto.

Ancora più esplicito è stato Kouchner l’uomo che nel 1971 fondò Medici senza frontiere, l’Organizzazione non governativa che adesso non ha firmato il Codice di condotta proposto da Minniti e ha ritirato le proprie navi dai mari antistanti la Libia. Kouchner, pur riconoscendo la liceità delle obiezioni di Msf, ha spiegato quanto sia fondamentale la lotta «inesorabile» ai trafficanti, ha definito senza mezze misure «sbagliata» la decisione di chi come Msf si è chiamato fuori dalle operazioni di soccorso, e ha riconosciuto all’Italia (ma anche alla Germania di Angela Merkel) di aver in questi frangenti «salvato l’onore dell’Europa». Dopodiché ha esortato le Nazioni Unite a farsi valere per impedire che i campi di accoglienza in Libia diventino (o continuino ad essere) dei lager. E a trasformare in qualcosa di più ambizioso il piano per la restituzione dei profughi ai Paesi di provenienza. L’Europa in questo piano ha già investito 90 milioni, l’Italia 20, la Germania 50. Altri soldi forse verranno ancora. Funzionerà? Quel che è certo è che nel Mediterraneo non si è avuta la catastrofe umanitaria da molti annunciata; anzi, sono diminuiti i morti oltreché, in proporzioni clamorose, gli sbarchi. C’è la possibilità che qualcuno, anche uno solo, di quelli che avevano trattato questo capitolo dell’attività governativa alla stregua di una riproposizione delle pratiche persecutorie del nazionalsocialismo, sia indotto da ciò che è poi accaduto, a riconsiderare le cose dette e scritte? Improbabile. Ma se qualcuno volesse dar prova di onestà intellettuale, questa sarebbe l’occasione giusta. Il Corriere della Sera, 24 agosto 2017, Paolo Mieli

…..Se anche Paolo Mieli riconosce che la linea MINNITI ha dato buoni risultati e che la diminuzione degli sbarchi di mifgranti sulle nostre coste (in agosto del 70% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso) è prova che qualcosa non andava per il verso giusto sino al varo della diretiva del nuovo ministro dell’Interno, vule dire che qualcosa di non corretto c’era. Ora tocca alle Procure fare luce in ogni luogo e in ogni dieezione per stanare i nuovi negrieri che hanno lucrato sull’immigrazione. g.

LA FRETTA E I DUBBI, di Michele Ainis

Pubblicato il 13 dicembre, 2014 in Cronaca, Giustizia, Politica | No Comments »

A ogni azione corrisponde una reazione. È la terza legge della dinamica, ma è anche la prima legge della politica. Che infatti s’emoziona solo quando un’onda emotiva turba l’opinione pubblica. Troppi detenuti nelle carceri? Depenalizziamo. Troppi corrotti nella municipalità capitolina? Penalizziamo. Sicché in Italia siamo giustizialisti o garantisti a giorni alterni. Basta consultare Google: 141 mila risultati per «aggravamento delle pene», 143 mila per «diminuzione delle pene».

Ma oggi è il giorno dell’inasprimento, del giro di vite e di manette. Il Consiglio dei ministri ha appena licenziato un testo urgente, benché non tanto urgente da confezionarlo in un decreto. E quel testo stabilisce la confisca dei beni del corrotto (meglio tardi che mai). Innalza i termini di prescrizione che altre leggi avevano abbassato. E per l’appunto aggrava la pena detentiva di due anni. Succede sempre, quando c’è un allarme sociale da placare. È già successo con le norme approvate dopo l’ultimo caso di pedofilia (settembre 2012) o dopo il penultimo disastro ambientale (febbraio 2014).

Funzionerà? Come dice il poeta, «un dubbio il cor m’assale». Perché chi ruba e chi intrallazza non pensa al codice penale, pensa di farla franca. E se ci pensa, non saranno dieci anni di galera anziché otto ad arrestare i suoi progetti. Perché inoltre il deterrente non risiede nella durezza della pena bensì nella sua certezza; ma alle nostre latitudini è sempre incerta la condanna non meno della pena. Perché l’ordinamento giuridico italiano ospita già 35 mila fattispecie di reato, che chiunque può commettere senza nemmeno sospettarne l’esistenza. Rendendo così insicuro il cammino degli onesti, mentre rimane lesto il passo dei disonesti. E perché infine quell’ordinamento è volubile e sbilenco come i politici che l’hanno generato. Per dirne una, la legge di depenalizzazione del 1981 inasprisce le sanzioni per chi divulghi le delibere segrete delle Camere.

Eppure una via d’uscita ci sarebbe: passare dalla (finta) repressione alla (vera) prevenzione. Come? Per esempio sforbiciando le 8 mila società partecipate dagli enti locali. O con misure efficaci contro il conflitto d’interessi, che tuttavia alla Camera rimbalzano dalla commissione all’Aula senza che i nostri deputati cavino mai un ragno dal buco. Con una legge sulle lobby: gli americani se ne dotarono nel 1946, gli italiani hanno visto 55 progetti di legge andare in fumo l’uno dopo l’altro. Con l’anagrafe pubblica degli eletti, che i Radicali propongono (invano) dal 2008. O quantomeno potremmo uscirne fuori rendendo obbligatorio per legge il provvedimento deciso dal sindaco Marino dopo la scoperta dei misfatti: rotazione dei dirigenti, degli incarichi, dei ruoli di comando. Una misura anticorruzione già emulata in lungo e in largo, dal Comune di Canicattì al Policlinico di Bologna. E già benedetta da Cantone il mese scorso, quando sempre Marino avviò la rotazione territoriale dei vigili urbani, dopo l’arresto per tangenti del loro comandante.

Dopotutto, è l’uovo di Colombo. Se non resti per secoli inchiodato alla poltrona, ti sarà più difficile poltrire, ti sarà impossibile ordire. E il corruttore avrà i suoi grattacapi, se il corruttibile cambierà faccia a ogni stagione come una maschera di Fregoli. Dice: ma così diminuirà la competenza, che cresce in virtù dell’esperienza. Vallo a raccontare agli italiani, alle vittime di un’amministrazione incompetente e per giunta inamovibile. Vallo a raccontare a chi ha dovuto specchiarsi per vent’anni nelle facce immarcescibili degli stessi politici, degli stessi alti burocrati. Qui e oggi, una ministra fresca di stampa come Boschi sta facendo meglio di tanti suoi stagionati predecessori. E comunque l’uovo non lo inventò Colombo: fu deposto nell’antica Grecia. In democrazia si governa e si viene governati a turno, diceva Aristotele. Sarebbe bello se l’Italia sapesse riparare la sua democrazia. Di più: sarebbe onesto. Michele Ainis, Il Corriere della Sra, 13 dicembre 2014

……Il prof. Ainis è entrato nel cuore del problema. Il fenomeno  della corruzione, che, va detto, è vecchio quanto il mondo,  non si combatte aumentando le pene ma scardiando all’origine tutto ciò che le fa da viatico, che la favorisce, la diffonde, cioè le occasioni che come si sa, o come dicevano saggiamente gli antichi, fa l’uomo ladro. Uno dei rimedi, oltre ad una legislazione estremamente garantista, è quello che suggerisce Ainis, cioè, nella pubblica amministraone, la rotazione negli incarichi.  E’ comprovato che quanto più si cancrenizzano le posizioni di comando, tanto più esse tendono a far da sè e qui il secondo rimedio,  cioè, nella pubblica amministrazione, evitare che uno solo abbia il potere di decidere perchè in questi casi la “solitudine2 è cattiva consigliera. E poi ciò che da sempre si auspica, cioè l’anagrafe degli eletti, e l’ablizione della cosiddetta privacy per quanti amministrano il pubblico danaro. Per loro non solo finestre aperte ma squarciate. g.


STATO-MAFIA: UN RETROGUSTO AMARO, di Michele Ainis

Pubblicato il 26 settembre, 2014 in Giustizia, Politica | No Comments »

C i hanno messo un anno (meglio tardi che mai),però alla fine i giudici di Palermo hanno sciolto la riserva: Napolitano sarà testimone coatto al processo sulla trattativa Stato-mafia. Anzi non coatto, volontario; e non è un dettaglio da poco. Perché il Codice di procedura penale (articolo 205) distingue la posizione del capo dello Stato da quella degli altri vertici delle nostre istituzioni.

Il presidente della Consulta o il premier, come d’altronde i due presidenti delle Camere, se rifiutano di deporre in un processo subiscono l’accompagnamento coattivo; lui no, il codice di rito lo esclude espressamente. Dunque la sua testimonianza è sempre spontanea, non obbligatoria. Ma evidentemente la Corte d’assise di Palermo non si cura dei dettagli. Non se ne cura nemmeno il presidente, dal momento che si è subito dichiarato disponibile. Potremmo rallegrarcene: dopotutto stiamo celebrando il trionfo del principio d’eguaglianza, con il primo cittadino trattato come tutti gli altri cittadini.

Ma invece no, c’è un retrogusto amaro in quest’ultima vicenda. C’è il sospetto che la ricerca della verità sia diventata ormai un pretesto, peraltro espresso nel peggior giuridichese. Nella sua lettera del 31 ottobre scorso, Napolitano aveva già messo nero su bianco ciò che aveva da dire; ma adesso i giudici vogliono ascoltarlo per acquisire quel «contenuto dichiarativo negativo», magari con l’aiuto d’un interprete. Come a dire che la sua testimonianza scritta ai loro occhi suona reticente, sicché vogliono sottoporla alla prova dell’orecchio. Non che la verità non ci stia a cuore.

Ne avremmo fame e sete, sulla strage di piazza Fontana, su quella di Bologna, su Ustica, sul delitto Moro, sulle troppe pagine stracciate della nostra storia nazionale. La magistratura italiana fin qui non ci ha saziato, però meglio il digiuno che un’abbuffata di bugie. E meglio l’apatia che una guerra permanente fra poteri pubblici e privati, se ciascuno usa la propria competenza per affermare la propria potenza. Succede spesso, ora impiegando lo schermo dell’art. 18 per regolare i conti con i sindacati, ora sventolando la privacy per ridurre al silenzio i giornalisti, ora con l’abuso dei decreti e dei voti di fiducia per addomesticare il Parlamento. Ma in Italia la vera rivoluzione sarebbe questa: che ciascuno torni a fare il suo mestiere, senza impadronirsi di quello altrui . Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 26 settembre 2014

……..Retrogusto amaro condiviso, non tanto per la persona quanto per la figura del Capo dello Stato della cui parola scritta si dubita, quasi fosse un qualsiasi “azzeccagarbugli”.

LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA: UN FIUME DI PAROLE VANE E POCHE COSE VALIDA, di Luigi Ferrarella

Pubblicato il 30 agosto, 2014 in Giustizia, Politica | No Comments »

A pensare di disboscare così l’arretrato della giustizia civile son buoni tutti, verrebbe da dire sesi cedesse alla tentazione di imitare il premier Renzi in talune sue sprezzature: con un decreto leggesi va dai cittadini impantanati in 5,2 milioni di cause pendenti e li si invita caldamente a portarle fuori dal circuito giudiziario Tribunale / Appello, ad affidarle (salvo che per i diritti indisponibili) ad arbitri privati presi da un elenco dell’Ordine degli Avvocati, e a pagarli per ottenere quella decisione che lo Stato tardava a dare. Un’idea di dubbia attrattiva e neppure tanto originale, marcata com’è dagli stessi virus che scorazzano già da tempo nell’organismo malato della giustizia: il subappalto ai privati come stabile puntello all’emergenza; la progressiva svalutazione delle garanzie di indipendenza e imparzialità connesse alla giurisdizione; il messaggio che, fuori dalle corsie preferenziali aperte per sorridere ai mercati internazionali (tipo il «Tribunale delle imprese»), giustizia ordinaria resti solo per chi se la può pagare; e l’equivoco di forme di risoluzione alternativa delle controversie non come opzione culturale per ridurre la propensione alla litigiosità, ma come espediente imposto per legge per dirottare su laghetti privati i fiumi di contenzioso civile che tracimino dagli acquedotti tribunalizi.

Eppure il resto della riforma contiene anche misure promettenti, altre che meritano di essere sperimentate, e altre ancora il cui successo o insuccesso dipenderà dalla capacità di abbandonare l’illusorio pensiero unico delle riforme «a costo zero» (e qui già depone male l’impegno di appena 150 assunzioni a fronte della carenza in organico di quasi 8.000 cancellieri).

Certo, per coglierle bisogna andare oltre i tweet con i quali Renzi si è già portato parecchio avanti: «Garantire un processo civile di primo grado in un anno invece di tre come oggi» è infatti un cinguettìo curioso, se a scriverlo è il capo di un governo sul cui sito online i dati Ue mostrano che in materia commerciale una causa civile di primo grado dura in media oggi poco meno di 600 giorni, dunque circa un anno e otto mesi, non tre.

Ma al netto del marketing politico, e della rivendita di misure già avviate da altri (il «Tribunale delle imprese» è stato introdotto nel 2012 per la nicchia di cause di proprietà intellettuale-conflitti societari-antitrust, e il Processo Civile Telematico sta entrando ora a regime ma è frutto di 15 anni di travagliata marcia), fa benissimo la riforma ad alzare il tasso di mora dall’attuale 1% all’8,15%, in modo da disincentivare la beffa di chi oggi, avendo torto marcio in una causa, usa i tempi lunghi del tribunale come scudo per resistere contro chi ha ragione, contando sul fatto che nel peggiore dei casi a distanza di anni gli tocchi pagare solo il dovuto più un interesse infinitamente meno caro di quello per prendere soldi in prestito.

Opportuno – a condizione che non si creda che il rito da solo sia tutto – asciugare i tempi morti dell’attuale procedura civile, spingendo le parti ad anticipare e concentrare il «botta e risposta» che oggi arriva a consumare anche 8/12 mesi prima di approdare alla trattazione vera e propria della causa, Anche la «negoziazione assistita» dagli avvocati dei litiganti, prima che le nuove cause arrivino in tribunale e anzi nel tentativo di non farcele proprio arrivare grazie alla condivisione di una «convenzione» con valore di sentenza, è un esperimento francese da provare. Di buonsenso é l’idea che marito e moglie per divorziare, se non hanno figli piccoli e sono d’accordo sulle condizioni economiche, possano non intasare i tribunali. E una gran cosa, se ben coordinata, sarebbe la fusione in un unico «Tribunale della famiglia e per i diritti della persona» delle oggi frammentate competenze di giudici ordinari, minorili e tutelari (più le richieste di asilo politico).

È invece nel penale che il baldanzoso piglio del premier è evaporato nella stretta tra il quasi alleato di governo – Berlusconi – protagonista per anni di incostituzionali leggi ad personam , e l’alleato vero di governo – il ministro dell’Interno Alfano – che molte di quelle leggi incostituzionali fabbricò da Guardasigilli di Berlusconi. Il risultato del sandwich é un ripiegamento tattico su 5 titoli da «vorrei ma non posso», utili a far dire a tutti che tutti hanno vinto: chi sulla formulazione di falso in bilancio e autoriciclaggio, chi sull’ossessione di limiti alla pubblicabilità delle intercettazioni demandati a una legge delega «dopo confronto con i direttori dei giornali». In definitiva si compra tempo in attesa di tempi migliori, per contenuti sui quali il governo somiglia a un capofamiglia che, frastornato da commensali reclamanti ciascuno una pietanza diversa, affastella nel carrello della spesa ingredienti contraddittori, presi al supermarket delle tante commissioni ministeriali autrici di progetti che però almeno erano organici e coerenti. Tipica la scelta di non cancellare la berlusconiana legge ex Cirielli, ma di bloccare i termini di prescrizione dopo la condanna di primo grado, facendoli rivivere e ripartire dopo 2 anni se per allora non si sia celebrato l’appello (non è chiaro se anche nei processi già iniziati come per Berlusconi a Napoli o Formigoni a Milano, o solo per i nuovi rinvii a giudizio come sarebbe più logico). Ma così da un lato si ignora che di questi 2 anni già 8/10 mesi nella realtà si consumano prima che il processo arrivi fisicamente in appello, tra impugnazioni da attendere e formazione del fascicolo in cancellerie sotto organico. E dall’altro lato si lascia l’imputato esposto all’eventuale inerzia giudiziaria: sia perché lo scoccare del supplemento di tempo non determina l’estinzione dell’accusa (come invece suggeriva la commissione Canzio), sia perché il blocco della prescrizione non viene bilanciato da un meccanismo di controllo da parte del giudice sul trattamento tempistico da parte del pm della notizia di reato nelle indagini preliminari, fase dove le statistiche mostrano che ad esempio nel 2011 si sono concentrate 86.000 delle 120.000 prescrizioni dell’anno. Luigi Ferrarella, Il Corriere della Sera, 30 agosto 2014

LA COMPAGNA DI ENZO TORTORA AL SINDACO DI POMPEI: REVOCHI L’INCARICO DI ASSESSORE AL PM CHE ACCUSO’ TORTORA

Pubblicato il 3 luglio, 2014 in Giustizia | No Comments »

Il neo sindaco di Pompei ha nominato assessore alla legalità l’ex PM che accusò Tortora nel processo di primo grado che condannò il noto presentatore a dieci anni di carcere, per essere assolto in appello e  in cassazione con formula piena. La compagna di Tortora, Francesca Scopellit, con una lettera aperta pubblicata dal Mattino di Napoli ha chiesto al sindaco di revocare l’incarico. Pubblichiamo la lettera  per esprimere tutta la nostra solidarietà alla richiesta della signora Scopelliti e per rendere omaggio alla memoria di Enzo Tortora e di tutti colloro che sono vittime della malagiustizia. g.

Signor Sindaco di Pompei Nando Uliano, il 17 giugno segna l’anniversario dell’arresto di Enzo Tortora e l’inizio adel calvario che lo portò al linciaggio mediatico, al carcere, alla malattia e alla morte. Ma anche a farsi protagonista di una sacrosanta battaglia per la giustizia giusta. Di tutti, per tutti. Per il nostro Paese.
Poi è accaduto che quello stesso giorno, trentuno anni dopo (a volte la realtà è più fantasiosa dell’immaginazione), lei abbia pensato di nominare assessore alla legalità del comune di Pompei proprio quel Diego Marmo che, nei panni di pubblico ministero nel processo contro Tortora, ne fu l’accanito accusatore, con toni che non appartenevano al suo ruolo.
Quasi che, come scrisse Gian Domenico Pisapia, «il pm non fosse il rappresentante sereno e imparziale dello Stato che fa valere nel processo la sua pretesa punitiva, ma considerasse l’imputato come un nemico personale da combattere e da abbattere». Definì Tortora «cinico mercante di morte», sostenne in dibattimento che era stato eletto con i voti della camorra, magnifico l’istruttoria «divina» firmata da Di Persia e Di Pietro, come un «lavoro perfetto, inattaccabile e svolto in tempi molto brevi».
La Corte di primo grado lo seguì, forse perché, come ammoniva Marmo, «se cade la posizione di Enzo Tortora si scredita tutta l’istruttoria». Non era possibile dimostrare la colpevolezza dell’imputato più eccellente del maxiprocesso, ma era necessario sentenziarne la condanna. L’indagine e il verdetto di primo grado furono sgretolati da altri magistrati, in appello prima e m Cassazione dopo, fino all’assoluzione di Enzo con formula piena.
Non semplicemente un errore, come se ne fanno ovunque e quindi anche nei tribunali; o come la definì Giorgio Bocca una pagina vergognosa di «macelleria giudiziaria». Nondimeno Marmo, insieme ai suoi colleghi, ha fatto una bella carriera alla faccia di quel referendum sulla responsabilità dei magistrati del 1987, vinto con 1′85% di sì e tradito da una legge tanto inadeguata, quanto inapplicata.
Abbiamo visto e subito anche questo. Ma che adesso, dopo la carriera professionale, gli si dia anche un riconoscimento politico-istituzionale e lo si renda simbolo di legalità è davvero inaccettabile. Anzi, è offensivo. Sono certa che questo sia anche il pensiero di quei tanti magistrati seri, onesti e perbene. Perché premiare un magistrato che non ha semplicemente «sbagliato», ma che ha dimostrato un superficiale disprezzo dei propri doveri e degli altrui diritti, offende la buona reputazione della giustizia e dei giudici.
Una semplice domanda, sindaco Uliano: avrebbe mai dato la delega ai lavori pubblici ad un ingegnere che ha costruito un ponte crollato il giorno dopo dell’inaugurazione? Diego Marmo è un magistrato che – perseguendo un innocente e dando mostra di colpevole negligenza e di spaventosa protervia – ha fatto crollare la credibilità della giustizia, ha offeso il diritto, ha umiliato quella toga che invece dovrebbe, secondo il dettato costituzionale, essere una garanzia per i cittadini. Diego Marmo dovrebbe, per dignità, dimettersi, ma so che non lo farà. E allora chiedo a lei un atto di coraggio: ritiri quella delega. Dia a Pompei quella dignità che la storia le ha assegnato, quella sicurezza che il presente richiede con forza. Francesca Scopelliti

LA RAGNATELA DEGLI AFFARISTI, di Antonio Polito

Pubblicato il 10 maggio, 2014 in Giustizia, Politica | No Comments »

Puoi sciogliere il Pci, il Pds, i Ds, ma non puoi sciogliere Primo Greganti. Puoi sciogliere la Dc, ma non Gianstefano Frigerio. La lezione dell’inchiesta di Milano, anche se finisse con una raffica di assoluzioni, è che non basta abbattere i partiti o cambiargli nome per risanare la politica. Anzi: la malapolitica senza partiti può essere perfino peggio. I faccendieri, gli intrallazzatori e i tangentari esisteranno finché ce ne sarà richiesta sul mercato, cioè finché saranno necessari per fare incontrare «imprenditori a caccia di appalti e manager pubblici a caccia di carriere», come ha scritto ieri Luigi Ferrarella sul Corriere . E questo accadrà fin quando sarà la politica a distribuire appalti e carriere, gare e presidenze di enti.


Per moralismo, per non imitare gli americani, non abbiamo portato alla luce del sole il lavoro di lobbying , inevitabile quando più privati competono per ottenere commesse pubbliche. E dunque ci teniamo l’immoralità di scambi che avvengono al buio tra chi può e chi paga, intermediati da chi conosce. Non è cambiato infatti l’essenziale. Nascosta sotto una foresta di norme astruse e inefficaci che dovrebbero garantire la trasparenza, è rimasta intatta la discrezionalità del potere politico; il prezzo con cui ci si aggiudica una gara non conta niente perché tanto poi lo si può rialzare; imprese finte e imprese vere sono messe sullo stesso piano in un’economia di relazione dove conta non quello che sai fare, ma a chi sai arrivare.


C’è una differenza con vent’anni fa, ed è che allora i grandi partiti prendevano il 5%, e oggi al circolo Tommaso Moro di Milano, secondo l’accusa, bastava lo 0,80%. Ma attenzione a credere che Greganti e Frigerio siano due vecchi giapponesi rimasti a combattere da soli nella giungla di Tangentopoli: rappresentano tuttora la commistione tra affari e politica. Il Signor G, scrive il Gip, è ancora «persona legata al mondo delle società cooperative di area Pd», e nelle intercettazioni ne spuntano molte di coop rosse per cui si prodigava. E Frigerio poteva ancora promettere incontri ad Arcore e biglietti di raccomandazione a un ministro.


Per questo sembra un po’ semplicistico liquidare la questione, come ha fatto ieri Renzi, auspicando che «la politica non metta becco». Perché se la politica non cambia il modo in cui gestisce il denaro pubblico, a metterci il becco rimarrà di nuovo e soltanto l’opera di repressione dei magistrati, e tra vent’anni saremo ancora qui. C’è poi una seconda grande differenza con Tangentopoli: ed è che stavolta la Procura di Milano è divisa. Il coordinatore del pool per i reati contro la pubblica amministrazione, Alfredo Robledo, non ha firmato i provvedimenti. Il procuratore capo, Edmondo Bruti Liberati, ha spiegato che il suo collaboratore «non condivideva l’impostazione dell’inchiesta».

Questo vuol dire che era possibile un’altra impostazione? Che dietro lo scudo dell’obbligatorietà dell’azione penale esiste invece un margine cospicuo di discrezionalità, che si può scegliere un modo o un altro di esercitarla, e tempi diversi? E se sì, meglio affrettare gli arresti prima che sia troppo tardi per salvare l’Expo, o meglio evitare di farli in piena campagna elettorale? Questi dubbi sono oggi legittimi, e non giovano alla credibilità dell’azione dei magistrati. E anche di questo la politica non dovrebbe lavarsi le mani.Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 10 maggio 2014

….E’ vero la politica non dovrebbe lavarsi le mani e assumersi la responsabilità che ad essa compete nell’ambito degi indirizzi cui debbono uniformari i gestori del potere pubblico, ad ogni livello. Ma spesso, purtroppo, è proprio la politica che dietro le quinte protegge le ragnatele degli affaristi che senza la protezione della politica non potrebbro raggiungere i loro obietitivi, insomma è il classico caso del serpente che si morde la coda. Come uscirne? Ecco una domanda cui la politica dovrebbe dare risposta. g.

LE VIOLENZE A ROMA: IL SOLITO CAPRO ESPIATORIO

Pubblicato il 16 aprile, 2014 in Cronaca, Giustizia, Politica | No Comments »

Saranno contenti i giustizialisti un tanto al chilo, i perbenisti radical chic, i partigiani piagnucolosi del giornalismo a senso unico. Anche stavolta hanno trovato il colpevole per l’indecente guerriglia nel cuore di Roma culminata con il ricovero in ospedale di 20 poliziotti, acciaccati dalla testa ai piedi: il responsabile unico per gli assalti, per le molotov, le pietre, le vetrine infrante e le auto sfondate diventa un agente della questura ripreso in un video diffuso dalla trasmissione Servizio Pubblico mentre calpesta una manifestante a terra.

Immagine forte, dura, d’impatto. Obiettivamente difficile da giustificare anche se la corsa a condannarlo al patibolo mediatico dovrebbe far riflettere quanti si son dovuti ricredere su fatti analoghi poi smontati da sentenze assolutorie. Chi da sempre trasuda odio verso le forze di polizia, i nostri militari all’estero, un eroe come Quattrocchi che ricordò a tutti come ci si comporta da italiani, oggi danza felice intorno alle spoglie di questo servitore dello Stato che se ha sbagliato, e sottolineiamo «se», pagherà com’è giusto che sia.

Non ci accodiamo all’orda dei forcaioli col taccuino che mai una parola di condanna vergano sui black block. E nemmeno plaudiano a un capo della polizia che corre a dare del «cretino» a un suo uomo a dispetto di ogni garanzia e presunzione d’innocenza. L’eventuale comportamento ingiustificabile di un singolo agente non giustifica il silenzio assordante della politica e la tolleranza dei soliti media verso chi puntualmente distribuisce violenza e terrore nell’impunità totale. A quanti oggi invocano il riconoscimento numerico sui caschi degli agenti, chiediamo di immedesimarsi nei ragazzi e nei padri di famiglia abituati a giocarsi la pelle per 1.200 euro al mese sapendo che dai boschi della Tav alle curve dello stadio la ragione sarà sempre di chi offende. Nessuno difende i difensori, noi sì. Gian Marco Chiocci, iL TEMPO, 16 APRILE 2014

…….Meno male che c’è Chiocci, un giornalista coraggioso, e il Tempo, un quotidiano dalle antiche tradizioni liberali sin dai tempi del suo fondatore, Renato Angiolillo, che trovano il coraggio di difendere un servitore dello STATO TRASFORMATO, COME AL SOLITO, DOPO LE  VIOLENZE DEI CRIMINALI CHE HANNO MESSO A SOQUADRO rOMA NEL SILENZIO ASSORDANTE DI TUTTI, NEL CAPRIO ESPIATORIO ALLO SCOPO DI COPRIRE I VERI VIOLENTI E I VERI RESPONSABILI, VERI E PROPRI DELIQNUENTI A CUI SI RICONSOCE IL DIRITTO DI VIOLARE LE LEGGI, MENTRE SI PRETENDE CHE I SERVITORI DELO STATO DABBANO PRENDERLe SENZA DIFENDERSI.

BERLUSCONI: PIOVE SUL BAGNATO

Pubblicato il 6 febbraio, 2014 in Giustizia, Politica | No Comments »

Sappiamo di avere, tra i tanti, un affezionato lettore che  segue quotidianamente le  cose che pubblichiamo e ancor più  ciò che commentiamo. Il suo è un interesse  che trascende ciò che scriviamo, sfiora la paranoia, anzi di più,  sfora nella morbosità tipica dei disadattati mentali che nella ossessione trovano il loro  piacere, che forse non trovano altrove, lì dove  lo trovano le persone normali.  Perciò oggi  scriveremo di Berlusconi e lo difenderemo, non perchè egli sia esente da colpe e rsponsabilità, ma perchè egli è il capro espiatorio, al di là delle sue colpe e delle sue responsabilità,  di tanti omuncoletti come il nostro  ossessionato  e paranoico lettore che per Berlusconi nutre un odio che non lo fa dormire la notte.   Dunque, Berlusconi. Il male assoluto, il nemico pubblico numero uno, il caimano sulle cui spalle ricadono, a sentir taluni,  le colpe di un intero settantennio. Dal 1994,  da quando mandò all’aria i programmi dell’allor sol dell’avvenire occhettano,  lo hanno perseguitato con centinaia di inchieste, con decine e decine di processi, con migliaia di avvisi di garanzia, con accuse di ogni genere, dalla vicinanza con la mafia alla perversione sessuale, passando per quella di  corruttore e sistematico evasore fiscale. Alla fine dei giochi sono riusciti a condannarlo in via definitiva per una  presunta frode fiscale di un paio di milioni di euro, una goccia rispetto alle centinaia di milioni di euro che il suo gruppo ha versato allo Stato. E la condanna è servita ad estrometterlo dal Senato con una procedura il cui iter è stato veloce quanto,  di solito, per altri casi era stato non lento, ma lentissimo. Riprova che l’obiettivo non era accertarne la responsbilità, ma estrometterlo dalla politica. Non avevano fatti i conti con la scorza dell’uomo, che insieme a tanti difetti, chi non ce li ha!, ha un  pregio, ha coraggio che come diceva quel tale – evitiamo di fare citazioni, altrimenti il paranoico che ci legge, va in escandescenze e magari ci chiede i danni per averlo costretto ad andare in escandescenza – chi non ce l’ha, non se lo  può dare, e  Berlusconi è appunto uno che ce l’ha, e nonostante l’età, gli acciacchi, le fibrallazioni di ogni genere, gli addii (degli ex amici) e i ricatti degli aspiranti “secondi”, si è rimesso in gioco, anzi si è rimesso al centro del gioco, aiutato dal segretario del PD, con il quale, fuori del Parlamento, con spregio della Carta Costituzionale che pone il Parlamento al centro della politica, ha contrattato una legge elettorale che nella sostanza ha come obiettivo proprio quello che Berlusconi ha sempre inseguito:avere  da solo la maggioranza di un Parlamento di nominati. Non condividiamo questa legge elettorale, la consideriamo peggiore del porcellum, riteniamo che l’accordo tra Renzi e Berlusconi sia un pessimo accordo che mette a repentaglio il sistema della rappresentanza nel nostro Paese, proprio quando più voci sono necessarie per evitare disastri e danni, ma siamo convinti che la battaglia contro questo accordo che passa sulla testa di tutti, va fatta in Parlamento e che essa non debba essere in alcun modo inquinata da altri interventi, anzi da altre invasioni. Come quella della Magistratura che invece ha tentato un altro colpo.  La Procura di Nap0li ha richiesto il processo a carico di Berlusconi  per la presunta compravendita di senatori alla fine del governo Prodi ed ha sollecitato il Senato a costituirsi parte civile, cioè lo stesso organo che,  un paio di mesi fa, ha dichiarato Berlusconi decaduto in virtù di una procedura assai viziata e di una legge molto discutibile. Non esprimiamo giudizi sull’iniziativa giudiziaria della Procura di Napoli, salvo per ricordare che nei 70 anni di vita parlamentare,  deputati e senatori che hanno cambiato casacca, anche in omaggio al diritto costituzionale di non essere vincolati dal mandato, sono stati centinaia, che governi di centro, di destra e di sinistra, sono nati e/o sono morti per via di questi cambi di casacca, che traditori non certo per gloria ma sempre per interesse, talvolta anche legittimo,  ce ne sono stati e ce ne saranno sempre e proprio per questo è il caso di attendere il giudizio della Magistratura giudicante senza esprimere opinioni. Diverso  invece è  l’opinione sulla incredibile decisione del presidente del Senato, l’ex magistrato antimafia Grasso, che solo soletto, in aperto dissenso con il voto negativo del Consiglio di Presidenza del Senato, ha dato il via libera  alla costituzione  di parte civile del Senato “per ragioni etiche”  nel processo contro Berlusconi.Ragioni etiche? Quali? Quella di aver fatto ciò che da Giolitti in poi, per arrivare a Prodi e poi a D’Alema, hanno fatto tutti,  inducendo ex avversari a diventare amici, trasformandosi in nemici degli ex amici? Cosicchè il signor Grasso, ex magistrato antimafia, ha di fatto messo sul banco degli imputati la storia d’Italia, anzi  la storia del mondo, che di tradimenti e stravolgimenti di alleanze è ampiamente caratterizzata? E poi, non è stato già dichiarato decaduto Berlusconi dallo scranno di senatore, benchè poi gli è stata data una bella seggiola nella sede centrale del PD, il partito di Grasso? Non è già questa, ove se ne condividesse l’atto, una già ampia tutela dell’immagine “compromessa” del Senato?  E Grasso non è lo stesso magistrato antimafia che in tempi non sospetti  ebbe a dichiarare che il governo Berlusconi, con ministro dell’interno Maroni, aveva assunto provvedimenti legislativi assolutamente coercitivi contro la mafia? Era quello di Grasso un atto di riconoscimento o era solo un atto di piaggeria verso il potente di turno caduto ora in disgrazia? Chi scrive queste note ha avuto ed ha  molte riserve  su alcune scelte del presidente Berlusconi ma come è avvenuto quando uno saltimbanco nostrano ha infierito come un maramaldo sul conto di Berlusconi, anche ora, difronte a decisioni che offendono il buon senso  e che puzzano mille miglia di riposizionamenti tattici e strategici in attesa del cambio della guardia al Qurinale, avverte il bisogno di sentirsi vicini al presidente Berlusconi, di esprimergli solidarietà umana  e vicinanza, senza nascondere che  provoca grande gioia sapere che ciò manderà in bestia fumante il nostro affezionato e paranoico lettore antiberlusconiano. g.


I POLIZIOTTI VITTIME DELLA GIUSTIZIA INCIVILE

Pubblicato il 5 gennaio, 2014 in Giustizia, Politica | No Comments »

Tutti presi da altro – chi dalle drammatiche vicende di cronaca di questo Capodanno e chi dalle complicate questioni politiche che stanno segnando la fine del governo Letta – questa settimana abbiamo sottovalutato una notizia che ha dell’incredibile.

Mi riferisco alla decisione del tribunale di sorveglianza di Genova di recludere (presso il domicilio e non in cella solo grazie all’esistenza della legge svuota carceri) dirigenti di polizia condannati per il reato di falso nella vicenda degli scontri al G8 di Genova. Si badino bene due cose. La prima: i poliziotti non sono accusati di lesioni o violenze. La seconda: la decisione degli arresti invece che l’affidamento ai servizi sociali è stata presa dallo stesso tribunale che ha concesso un permesso premio a un pericolosissimo serial killer che poi è evaso approfittando di quel beneficio.

Viene da chiedersi che tipo di Paese sia quello che nega dei benefici, solitamente concessi a tutti i peggiori delinquenti, a funzionari di polizia, solo perché questi – che sono stati assolti in primo grado, che si sono sempre dichiarati innocenti e con un ricorso pendente presso la Corte di Strasburgo – si sono rifiutati di fare le scuse pubbliche richieste dal Pubblico ministero. Quasi che, a differenza di ciò che avviene in ogni Paese democratico, alcuni magistrati politicizzati pretendano, solo per alcune categorie di soggetti, oltre alla condanna, anche una sorta di gogna pubblica, a cui esporre i malcapitati.

Evidentemente il diritto di professarsi innocente, pur accettando la condanna subita, vale solo per i delinquenti e non per dirigenti di polizia, che prima e dopo i fatti contestati non hanno mai avuto problemi con la giustizia, ma che anzi hanno contribuito alla cattura dei più pericolosi latitanti e allo smantellamento delle Brigate rosse, responsabili degli omicidi dei professori D’Antona e Biagi.

Sono sicuro di farmi portavoce di tutti i lettori del Giornale e della stragrande maggioranza degli italiani se esprimo la piena solidarietà nei confronti dei servitori dello Stato che stanno subendo questo ignobile trattamento. Così come mi fanno un certo effetto i silenzi del ministro degli Interni Alfano (che della polizia è il capo politico), del ministro della Giustizia Cancellieri (che in altre occasioni e per altri casi di malagiustizia seppe come muoversi rischiando pure il posto), del presidente Napolitano che della magistratura è il capo assoluto. Un anno che inizia con poliziotti ingiustamente agli arresti e magistrati scellerati al loro posto non promette nulla di buono. Altro che unioni civili. È più urgente pretendere subito una giustizia più civile.  Alessandro Sallusti, Il Giornale, 5 gennaio 2014.

Cose da pazzi che posssno accadere solo in Italia dove i PM vincono un concorso e si sentono padreterni.