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E’ MORTA ELIZABETH TAYLOR, ICONA DEL CINEMA

Pubblicato il 23 marzo, 2011 in Cinema | No Comments »

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Liz Taylor, l’attrice che ha accompagnato la nostra vita con la sua bellezze e la sua bravura, e le sue rocambolesche storie d’amore, è morta oggi a Hollywood.  Quando è arrivata la notizia della sua morte, il mondo del cinema è caduto in uno stato di profonda commozione. Perché Elizabeth Taylor, 79 anni, per tutti (da sempre) Liz, era qualcosa di più di un’attrice. Era un’icona del cinema. E’ morta per un’insufficienza cardiaca. Era stata ricoverata al Cesar-Sinai Medical Center di Los Angeles sei settimane fa.

I suoi genitori erano americani residenti in Gran Bretagna. Elizabeth nacque nel quartiere londinese di Hampstead il 27 febbraio 1932. Aveva il cinema nel dna visto che sua madre, Sara Viola Warmbrodt, era un ex-attrice famosa col nome d’arte di Sara Sothern, ritiratasi dalle scene quando si sposò nel 1926 a New York. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale i genitori rientrarono negli Stati Uniti e la famiglia si trasferì a Los Angeles. La prima esperienza di Liz nel mondo della celluloide è precoce: nel 1942 recita nel film, “There’s One Born Every Minute”. Subito dopo “Torna a casa Lassie!” (1943), che la porta all’attenzione del grande pubblico. Primo ruolo da protagonista è quello di Velvet Brown, una bambina che allena un cavallo nel film di Clarence Brown “Gran Premio” (1944), con Mickey Rooney. La pellicola ottiene un grandissimo successo, con un incasso di oltre 4 milioni di dollari, e le fa guadagnare lo status di “bambina-prodigio”. Da lì comincia la sua strepitosa carriera. Con un successo dopo l’altro e una vita da star… con tutti i benefici e i problemi del caso.

Nel 1961 vince il primo Oscar come migliore attrice per la sua interpretazione in “Venere in visone” nel 1960, che vedeva nel cast accanto alla Taylor il marito Eddie Fisher. Nel 1967 vince nuovamente la statuetta per “Chi ha paura di Virginia Woolf?” di Mike Nichols, accanto all’allora marito Richard Burton, conosciuto sul set del kolossal “Cleopatra” nel 1963. Proprio per quella pellicola conquista un primato: diventa la star cinematografica più pagata quando le viene offerto un contratto da un milione di dollari per il ruolo della protagonista.

Fu proprio grazie al film Cleopatra – girato quasi esclusivamente a Roma – che la Taylor conobbe Richard Burton, l’uomo della sua vita con il quale si sposerà per due volte, divorziando altrettante volte. Una storia d’amore che, all’epoca, riempì le pagine di tutti i giornali del mondo e la fece diventare vera e propria “femme fatale”. Non a caso, l’attrice – dai folgoranti occhi viola – ha avuto ben otto mariti e numerosi flirt.

Interprete di oltre oltre 50 film dei più importanti registi della cinematografia mondiale, Liz (diminutivo che lei però non amava) Taylor ha avuto al suo fianco gli attori e le attrice più famose. Attiva – soprattutto negli ultimi anni – anche in tv e a teatro, Taylor si è battuta con grande energia nel difendere i malati di Aids e a favore della prevenzione della malattia. Grande amica di Montgomery Clift come di Michael Jackson è stata l’ultima vera diva dello star system di Hollywood. Più volte ricoverata d’urgenza in ospedale (nel 1963, durante le riprese di “Cleopatra” fu addirittura dichiarata defunta), nel 1997 fu operata per un tumore al cervello, rivelatosi benigno, e nel 2004 ha dichiarato di soffrire di una grave insufficienza cardiaca. Tutta la vita della Taylor è stata costellata da problemi di salute, a volte anche molto gravi. Lei stessa dichiarò, alla fine degli anni 90, durante un’intervista, che dopo la sua ultima apparizione al cinema in “I Flintstones” avrebbe desiderato continuare a recitare ma che gli era stato impedito dal rifiuto di assicurarla da parte delle compagnie di assicurazioni.

……………….Anche ora che non c’è più, ci piacerà rivedere i suoi films, dall’indimenticabile Gran Premio a Cleopatra, e rivivere pezzi della nostra vita.

L’ULTIMO CIAK DI MONICELLI, il ritratto del grande regista a cura di Gian Luigi Rondi

Pubblicato il 30 novembre, 2010 in Cinema, Cronaca | No Comments »

Il regista Mario Monicelli Mi era capitato spesso di definire Mario Monicelli, insieme con Luigi Comencini e Dino Risi, uno dei padri della Commedia all’italiana, pur verificando nella sua carriera anche delle svolte nel drammatico che me lo rivelavano altrettanto grande e altrettanto creativo (persino tra le pieghe di racconti ameni, dove il dramma si poteva intuire quasi soltanto tra le righe). Un giorno, parlandomi di Amici miei, mi aveva detto: «Cosa c’è di più tragico di un quartetto di vecchi che si mascherano da giovani perché hanno capito che sono arrivati all’anticamera della morte?». Ecco la tragicità che, anche solo in modo implicito, Monicelli aveva sempre saputo esprimere con incisività e decisione pur non partecipandovi in nessun modo perché, anche negli ultimi anni, nonostante il suo Montgomery di lana chiara, i pullover colorati e, spesso, la calottina in testa con fiocco, non si poteva certo dire che si mascherasse da giovane. Era giovane davvero e la sua euforia, i suoi slanci, la vivacità del suo carattere dedito spesso, da buon toscano, ai sarcasmi più taglienti, lo immergevano costantemente in un’atmosfera sciolta e disinvolta, vivida e allegra, contro la quale andavano a frantumarsi i molti anni che passavano; lasciandogli solo dei segni esteriori come i capelli bianchi che aumentavano specie nei periodi in cui portava una barbetta corta quasi da moschettiere. Senza mai però che questa allegria, nella vita come nelle opere, sminuisse il tono serio che invece lo distingueva, non in contraddizione con se stesso e la sua attività, ma anzi con logiche precise. E questo addirittura fin dagli inizi, da quando, in sodalizio con Steno, aveva dato vita, appunto, al filone della Commedia all’italiana. Sembrava che ci fossero solo scherzi in quei suoi film con Totò, e poi con Fabrizi e con Sordi, e invece, pur tra un lazzo e l’altro, facevano già da allora, anche se molti non se ne accorgevano, critica attenta di costume. Con una serietà che, sempre più cosciente e matura, la si sarebbe poi trovata al centro di tutti i suoi «scherzi», compreso quello sui Picari, certamente diverso, per gusto, linguaggio e impostazione, da Totò cerca casa, dal delizioso Guardie e ladri, dal ghiottissimo Totò e Carolina, ma, a ben guardare sorretto dallo stesso impegno critico che quei film lontani anticipavano. Annunciando un autore che, conseguente con se stesso fin dal primo giorno – «la conseguenza è un difetto, lo so – mi disse una volta – ma io ce l’ho e me la tengo, tanto non fa male a nessuno» – non solo non si sarebbe più discostato da quella linea ma, anzi, con il passare degli anni, l’avrebbe via via sempre più approfondita. Con ricerche stilistiche all’insegna di un genere che dovevano poi in molti casi persino nobilitare. E non è stata «nobiltà», del resto, quel segno metà amaro metà gaio che dava forza ai Soliti ignoti, oggi considerato un classico, e che segnava, fra l’altro, proprio il momento della svolta della Commedia all’italiana verso la critica di costume? E non è stata nobiltà l’incontro dell’ironia con la storia – storia patria e storia sociale – nella Grande guerra e nei Compagni? La ricerca, qui, superava la cronaca, usciva dal quotidiano e, pur continuando a tenersi nella tradizione, si dava addirittura delle mete di osservazione dall’alto. Perché la critica diventasse saggio. Un saggio, nuovamente a livello di storia, ma questa volta tutta popolare, anche se implicitamente molto colta, che si era fatto poi avanti nell‘Armata Brancaleone e in Brancaleone alle crociate, con sapori e colori che si dovevano ritrovare più tardi, o con le stesse cifre, in Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, o in cifre diverse ma con intenzioni analoghe, nei due «atti» di Amici miei: la somma degli scherzi di Monicelli anche nel perpetuarsi più convinto del loro incontro con una critica che si fasciava a un certo momento di dolore. Come, e questa volta senza più scherzi, in film da importanti testi letterari, quali Caro Michele, tratto, con serietà e severità ispirate, dal romanzo omonimo di Natalia Ginzburg, o Un borghese piccolo, piccolo, dal romanzo di Vincenzo Cerami, o Viaggio con Anita, da una storia di Federico Fellini. Film, anzi «opere», da collocare oggi, all’ora dei bilanci, tra le pagine più serie di Monicelli regista. Non diverse da quelle sapientemente in equilibrio fra la comicità e la critica su cui si costruiva Speriamo che sia femmina, tra i suoi film più fervidi, una grande commedia che avrebbe potuto essere anche un bellissimo romanzo. Scritto, del resto, insieme con Monicelli, da alcuni fra i più prestigiosi scrittori del nostro cinema, da Tullio Pinelli a Suso Cecchi d’Amico, a Leo Benvenuti, a Piero De Bernardi. Una storia di donne.

Come a volte anche in Bergman, come a volte anche in Strindberg, ma con quel «tocco» alla Monicelli che, con estrema sapienza, riusciva a tenere insieme, senza contrasto, il dramma e la commedia, con nostalgie e tenerezze, beffe (anche beffe) e giochi sottili d’amore. Tutto secondo i toni più giusti, i tempi studiati e soppesati con cura, gli effetti dosati con misurata attenzione. Perché tutto avesse un senso e un sapore. E con una narrazione così stretta attorno ai protagonisti e ai loro casi che sembrava di esservi in mezzo e di parteciparvi, con logica così ferrea nel disegno di ogni personaggio e di ogni reazione che tutto, anche come ritmi emotivi e drammatici, ci sfilava sempre davanti con naturalezza estrema, senza un intoppo. Tanto ogni gesto, ogni replica, ogni movimento corrispondevano esattamente a quello che lì, in quel luogo e in quel momento, dovevano essere; senza possibilità di alternative diverse. Messi ancor più in evidenza da una regia che preferiva non imporsi, che dava spazio soprattutto al racconto e, nel racconto, ai singoli caratteri, badando ancora una volta a graduare i passaggi dal sorridente al dolente e, come segno d’autore, rivelandosi soprattutto quando sfumava, specie se la leggerezza del tocco, conciliandosi con la severità di una osservazione spesso nascosta, ma presente, si esercitava nella direzione degli attori. Esattamente come nei lontani film con Totò e poi con Sordi, Gassman, Montesano, Mastroianni, Tognazzi, oltre, naturalmente, in quella Ragazza con la pistola che doveva rivelarci Monica Vitti attrice comica. Una dote, quella della direzione degli attori, che Monicelli, se gliela si riconosceva, accettava, sorvolando però su quasi tutte le altre perché rifiutava programmaticamente ogni indulgenza per l’effetto. «Man mano che vado avanti, infatti – tenne una volta a dichiararmi – io alla regia, nel senso della macchina da presa, credo sempre di meno. La regia, in realtà, è solo la ricerca del personaggio, è lo studio di una certa atmosfera, è la piccola cosa che si fa fare a un attore, è un taglio al momento giusto. Cosa faceva ai suoi tempi Chaplin? Come regia «tecnica», nei film di Chaplin non c’è niente. Ed è così che deve essere, perché bisogna rappresentare le cose come sono, facendo in modo che appaiano le più semplici possibili. Con uno scopo solo: far vedere al pubblico tutto quello che serve per capire, senza mettersi in mezzo con le tecniche. Perché allora c’è il rischio che non veda più niente». La sua firma. In calce però a una galleria di personaggi – e di storie – di cui doveva essere diventato uno degli autori cinematografici italiani più rappresentativi della seconda metà del Novecento. E non c’era bisogno che nel ‘91, per dimostrarlo, gli dessimo il Leone d’oro alla Mostra di Venezia. Gian Luigi Rondi, Il Termpo, 30/11/2010

L’AMERICA “PREMIA” L’EROISMO DEI SUOI SOLDATI IN IRAQ: L’OSCAR AL FILM THE HURT LACKER.

Pubblicato il 17 marzo, 2010 in Cinema, Politica estera | No Comments »

L’Oscar 2010 per la miglior regia è andato ad una donna, Katryn Bigelow, la prima volta nella storia degli Oscar che è lunga 82 anni. Il film per il quale la Bigelow ha vinto l’Oscar per la regia e che ha anche vinto l’Oscar per la migliore scenggiatura, il miglior  montaggio, il miglior sonoro,  è un film che narra ed esalta il coraggio e l’eroismo dei soldati americani in Iraq durante e dopo la caduta di Saddam. Il film si intitola The Hurt Locker e narra i  40 giorni al fronte, in Iraq, di una squadra di artificieri e sminatori dell’esercito statunitense, unità speciale con elevatissimo tasso di mortalità. Quando tutto quel che resta del suo predecessore finisce in una “cassetta del dolore”, pronta al rimpatrio, a capo della EOD (unità per la dismissione di esplosivi) arriva il biondo William James, un uomo che ha disinnescato un numero incredibile di bombe e sembra non conoscere la paura della morte. Uno che non conta i giorni, un volontario che ha scelto quel lavoro e da esso si è lasciato assorbire fino al punto di non ritorno.

Il film, altamente drammatico e  come dimostrano le altre  statuette che ha vinto straordinariamente  avvincente, offre uno spaccato diverso rispetto a quello che i mass media antiguerra avevano sinora santificato.Il film ha il pregio di restituire onore e dignità ai soldati americani che si sono battuti contro gli eserciti ombra di Al Qaeda e del  Baath saddamita, costringendo alcuni dei giornmalisti liberal americani ad ammettere che la distinzione tra il bene e il male a Baghdad era più chiara che non a Saignon o ad Hanoi. Il film, poi, spopola sugli schermi americani e un pò ovunque proprio in concomitanza con le recenti elezioni iraquene il cui indubbio successo è stata la migliore risposta  a chi nel recente e meno recente passato aveva sostenuto che la democrazia non è bene  che possa esportarsi. Anzi, proprio queste ultime elezioni iraquene che  hanno segnato un indubbio successo della strategia della democrazia,  consentono ad uno dei maggiori giornali liberal amerciani, Newsweek, di scrivere della “rinascita dell’Iraq” e di citare a questo proposito le parole dell’ex presidente americano George Bush il quale in anni lontani fu sfacciatamente coraggioso da sostenere che “in Iraq la democrazia avrà successo, e quel successo porterà da Damasco a Theran la notizia che la libertà può essere il futuro di tutte le nazioni. L’istituzione di un Irq libero al centro del Mediooriene sarà uno spaertiacque nella rivoluzione democratica globale”. Sinora le parole di Bush si sono avverate a metà ma c’è tempo e speranza che anche negli altri luoghi oggi governati da regimi che non praticano la libertà e la democrazia, prima o poi  si compia la profezia dell’ex presidente americano il cui coraggio nel sostenere le sue scelte sono pari al coraggio e all’eroismo dei soldati amerciani che il film premiato ad Hollywood ha “premiato” rendendo loro l’onore che sinora era stato loro  negato.