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GIOVANNI LEONE: UN GALANTUOMO NEL FANGO di Carlo Nordio

Pubblicato il 20 novembre, 2018 in Cronaca, Politica, Storia | No Comments »

Quaranta anni fa gli italiani assistevano, alcuni con indifferenza benevola, altri con compiacimento grifagno, a un fatto nuovo e sconcertante: le dimissioni del Presidente della Repubblica Giovanni Leone. Una storia sintomatica delle deviazioni e delle patologie della nostra imperfetta democrazia.
Giovanni Leone era uno più illustri giuristi italiani. Nato a Napoli nel 1908, a ventisette era già docente universitario. Democristiano convinto, era stato membro della Costituente, e parlamentare in tutte le legislature. Godeva di alto prestigio per la sua autorevolezza accademica, appena temperata da una bonarietà che talvolta indulgeva al pittoresco.
Non apparteneva alle correnti del partito, e quindi non godeva di protezione, oltre a quella delle sue riconosciute capacità: quando la Dc non sapeva levarsi dai pasticci in cui la ingolfavano i suoi vertici, chiamava Leone a costituire un governo balneare. Questa indipendenza, alla fine, gli costò la carica.
Nel 1976 scoppiò lo scandalo della Lockheed, un’ impresa aeronautica che aveva venduto a mezzo mondo aerei di grande efficienza. L’ Italia aveva acquistato alcuni Hercules, e quando si seppe che l’ azienda aveva pagato cospicue tangenti ai vari governi acquirenti, i sospetti si riversarono sui nostri politici al potere. L’ inchiesta americana appurò che, tramite un certo antilope cobbler, questi denari erano finiti ad alcuni militari, ministri e faccendieri.
Tra questi ultimi vi erano i fratelli Lefèbvre, di cui Leone era amico, e questo bastò a renderlo vulnerabile. Ma furono sospettati anche altri ministri: Moro, Andreotti, Rumor, Gui e Tanassi.
Moro si difese sostenendo di non saper nemmeno cosa fosse la Lockheed. Un’ affermazione che, se veritiera, avrebbe dimostrato il deplorevole provincialismo del suo autore, visto che la fabbrica era notissima per le sue straordinarie produzioni spaziali e militari. Il suo U2, l’ aereo spia abbattuto sui cieli di Sverdlovsk nel Maggio del 1960, aveva scatenato le ire di Kruschev e determinato l’ annullamento dell’ incontro con il presidente Eisenhower; e il suo F104 equipaggiava da anni la nostra Aeronautica Militare. Bastava leggere i giornali perché quel nome ti restasse impresso per sempre.
Ma, a parte rare e lodevoli eccezioni, i nostri notabili democristiani avevano una cultura essenzialmente parrocchiale, ed erano più sensibili ai voti di sacrestia che alle grandi questioni internazionali. Rumor – il maggior sospettato – fu salvato dalla Commissione Inquirente. Quanto ad Andreotti, svicolò dalla polemica con soavità vescovile e sorniona indifferenza ciociara.
Furono rinviati a giudizio Tanassi, Gui, e altri personaggi minori. Tutti, tranne Gui, sarebbero stati condannati, peraltro a pene assai blande.
Leone rimasto estraneo all’ inchiesta, rimase però solo nel suo partito, che lo abbandonò per meschini interesse di baratteria elettorale. Fu una pagina buia per la DC, ma anche per il giornalismo italiano, che si tuffò in questo fango di contumelie e di allusioni con la più turpe e maramaldesca morbosità.
L’ Espresso si segnalò per la sua petulanza aggressiva, ma non fu il solo. Altri quotidiani e rotocalchi sbeffeggiarono l’ anziano presidente, la sua elegante consorte e persino i suoi figli.
Un giornalista arrivò al pettegolezzo che «gli occhi di donna Vittoria ricordassero quelli dell’ Antilope»; un altro fece un’ univoca allusione alle scarpe scamosciate della first lady; altri scesero a illazioni più ridicole. Il partito comunista, che all’ occorrenza sapeva abbandonare il suo plumbeo grigiore moscovita per assumere toni di eccitata grossolanità, sfruttò con la solita sapiente spregiudicatezza questa lotta intestina.
Leone non era mai piaciuto alla sinistra, un po’ per la sua indipendenza di giudizio, un po’ per la sua storia universitaria (era stato, come del resto Fanfani e tutti i docenti iscritto al partito fascista) e soprattutto perché la sua elezione era stata determinata anche dai voti del Movimento Sociale.
Per di più la sua rimozione avrebbe liberato un posto riservato, nella redistribuzione delle cariche, a un esponente della sinistra. L’ elezione di Pertini, indiscussa la caratura morale del personaggio, fu infatti salutata dal Pci come una Glorious Revolution di Redenzione Resistenziale.
Così, il 15 Giugno del 1978, Giovanni Leone annunciò le sue dimissioni. Non gli fu nemmeno risparmiata l’ umiliazione di impedirgli la lettura integrale del messaggio di commiato: mai l’ untuosità farisaica aveva raggiunto livelli di così vergognosa ingratitudine. Il vecchio professore ritornò ai suoi studi e, dopo una congrua decantazione, rientrò, sommessamente, alla vita politica, e contribuì, inascoltato, alle proposte di riforma del processo penale.
Incidentalmente, non sappiamo se l’ indirizzo dell’ attuale governo, che subordina la sospensione della prescrizione a una nuova riforma, riprenderà o meno in mano l’ opera di Giovanni Leone.
Il giudizio complessivo della vicenda è quello di una sconfortante combinazione di una stampa spregiudicata e malevola, e di una politica ancor più cinica e truffaldina. Questa stessa combinazione avrebbe portato, quindici anni dopo, alla dissoluzione dello scudocrociato e all’ umiliazione pubblica del suo segretario Forlani, corroso dalle bavette labiali davanti all’ aggressività dell’ incalzante Di Pietro e alla implacabile fissità delle telecamere.
Un significativo contrappasso per una classe dirigente che aveva rinnegato i suoi elementi migliori.
Con l’ andar del tempo, le accuse e le illazioni a carico di Giovanni Leone si dimostrarono quello che tutti sapevano fin dall’ inizio: un mélange di pettegolezzi di bottega e di calunnie programmate. Tuttavia nessuno fece ammenda. Soltanto i radicali, che erano stati i più severi critici del Presidente, e probabilmente gli unici in buona fede, trovarono il coraggio di scusarsi: Marco Pannella ed Emma Bonino ammisero pubblicamente di avere esagerato.
Ma gli altri , compresi i maestri di vita e di pensiero, rimasero in verecondo silenzio. E purtroppo la lezione non è stata imparata. In tempi recenti, la parlamentare Ilaria Capua, una delle nostre scienziate più prestigiose, è stata costretta alle dimissioni, nell’ indifferenza codarda e colpevole dei suoi colleghi, a seguito di un’ inchiesta assurda e di un’ altrettanto sciagurata aggressione mediatica. Nel nostro infelice e meraviglioso Paese le prediche sulla legalità sono inversamente proporzionali alle garanzie dei diritti dei cittadini. Purtroppo questa sconcezza non è ancora finita, e non sappiamo nemmeno se e quando finirà. Carlo Nordio per l Messaggero (20 novembre 2018).

…..Non è un caso che Carlo Nordio, magistrato in pensione, abbia scritto questo articolo rievocativo e anche di postumo omaggio a Giovanni Leone, indimenticata vittima di una squallida pagina di fango nella vita politica italiana, nell’anniversario,  il centenario, della Camera dei Deputati che ricorre proprio oggi. Leone della Camera fu Presidente, Capo del Governo, e infine Presidente della Repubblica. Ricopriva questa carica quando fu vittima di una ben orchestrata campagna di fango e di odio, ordita dalla sinistra, che utilizzò una giornalista dell’Espresso, Camilla Cederna,  come puntatrice d’assalto. L’obiettivo  fu raggiunto, Leone, accusato ingiustamente di essere stato collettore di mazzette, alla fine si dimise, benché fosse innocente. La sua innocenza fu riconosciuta dopo, quando ormai le conseguenze del fango e dell’odio riversatigli addosso avevano avuto l’effetto sperato. Fu il colpo di avvio della guerra che avrebbe portato al dissolvimento della Prima Repubblica. g.


PICCONATE SUL MITO DELLA RESISTENZA, di Gianlcuca Veneziani

Pubblicato il 7 aprile, 2018 in Politica, Storia | No Comments »

A picconate, o a piccoli colpi di scalpello, il mito della Resistenza si va via via sgretolando, fino a ridursi a un cumulo di macerie. Ad abbatterlo non ci pensa più solo la revisione salvifica relativa al sangue dei vinti, ossia alle brutalità commesse dai partigiani a guerra finita, a mo’ di vendette private o di epurazione sistematica dell’ ex nemico: storia diventata patrimonio collettivo grazie all’ opera di Giampaolo Pansa. Adesso scricchiola pure l’ edificio della Resistenza come grande movimento di popolo, come insurrezione spontanea, immediata e partecipata, oltreché risolutiva, su cui a lungo si è basata la vulgata storica.

Se anche questo mito aurorale della Resistenza mostra le sue falle, il merito è dello storico francese Olivier Wieviorka che ha appena dato alle stampe il documentatissimo saggio Storia della Resistenza nell’ Europa occidentale 1940-1945 (Einaudi, pp.464, euro 35), analisi sull’ effettivo contributo dei partigiani durante il conflitto e il loro reale peso politico e militare nei Paesi occupati. Ma il merito è anche dello storico Paolo Mieli che ieri, recensendo il libro di Wieviorka sul Corriere della Sera, è riuscito poderosamente a infrangere, su un grande giornale, quel conformismo che fa della Resistenza insieme un Totem da venerare e un Tabù, del quale non è possibile parlare (male).

Leggendo Wieviorka, Mieli non esita a smontare quelle che lo storico francese definisce «agiografie», derubricando cioè l’ azione dei partigiani europei, e anche italiani, a un contributo residuale ai fini della Liberazione. A lungo infatti, fa notare Wieviorka, è stato «sopravvalutato il ruolo svolto dalla dimensione nazionale della lotta comune» ed è stato «ritenuto che le resistenze locali potessero svilupparsi adeguatamente senza aiuti esterni».

Quasi fossero movimenti volontari, auto-finanziati e operativi grazie a una libera scelta insurrezionale In realtà, le cose andarono diversamente, sia perché la nascita di quei fronti di lotta fu sollecitata dal Soe (Special Operations Executive), organismo creato dagli inglesi al fine di fomentare la Resistenza; sia perché l’ apporto dei partigiani fu pressoché irrilevante tanto che «con o senza Resistenza, l’ Europa sarebbe stata liberata dalle forze angloamericane».

Ma l’ aspetto forse più interessante del saggio è che non ci fu, sin dagli albori in Europa, e tanto meno in Italia, l’ insorgere di dissidenti pronti a darsi alla macchia né una risoluta «opposizione all’ apparente inesorabilità della disfatta» nei Paesi occupati. Piuttosto, i governi di quegli Stati cercarono compromessi con il Reich e gli stessi popoli a tutto pensarono tranne che a mettersi subito in armi contro l’ invasore. Smentita evidente della leggenda secondo cui sarebbe esistita una Resistenza implicita e silenziosa, nata nel momento dell’ occupazione e poi sfociata nella Resistenza armata.

Questo fu vero soprattutto in Italia, dove il movimento resistenziale tardò a manifestarsi sia per quella che Mieli definisce «apatia politica degli italiani» sia per una comprensibile mancanza di ardore che portava i nostri prigionieri di guerra a non voler rischiare la pelle per rovesciare il regime, sia per il consenso di cui – almeno fino al 1943 – il fascismo godette nel nostro Paese, al punto che molti soldati o cittadini consideravano un “tradimento” opporsi al governo vigente.

E infatti da noi gli angloamericani faticarono ad alimentare uno spirito ribellista e a mettere su gruppi di lotta armata. Wieviorka racconta di tentativi grotteschi, come quando si cercarono ribelli italiani in Nord Africa e in Svizzera, ma si trovarono soltanto «cospiratori da salotto»; o quando, non riuscendo a identificare una figura spendibile come leader dei futuri partigiani, la si trovò in un certo Annibale Bergonzoli, un generale che tuttavia presto si dimostrò «un ciarlatano di temperamento esaltato». Insomma, non la persona ideale nelle cui mani mettere le sorti d’ Italia.

È interessante notare come questa rilettura della Resistenza continui a essere portata avanti da studiosi esterni alla cultura di destra. Wieviorka, nipote di ebrei uccisi ad Auschwitz, collabora con un inserto del giornale di sinistra Libération; lo stesso Mieli, cresciuto negli ambienti della sinistra extraparlamentare, è stato allievo del grande Renzo De Felice, storico comunista, e nondimeno principale artefice della revisione sul fascismo. Come già nel caso di Pansa, la demitizzazione della Resistenza non può che partire da sinistra. Dove le menti più illuminate, ormai da tempo, si sono accorte che della Resistenza non resiste più niente. Gianluca Veneziani, Libero Quotidiano, 7 aprile 2018

I RAGAZZI DEL (18)99: PERSERO LA GIOVENTU’ MA NELLE TRINCEE ONORARONO LA PATRIA

Pubblicato il 2 gennaio, 2018 in Storia | No Comments »

Non è facile raccontare una generazione. Allora tanto vale far parlare chi ne ha fatto parte.

E le generazioni, quando parlano, lo fanno con le canzoni, oggi come ieri. I ragazzi del ‘99 cantavano, tra le altre cose, anche questa: «Novantanove, m’han chiamato / m’han chiamato m’han chiamato a militar / e sul fronte m’han mandato / m’han mandato m’han mandato a sparar. / Combattendo tra le bombe / ad un tratto ad un tratto mi fermò / una palla luccicante / nel mio petto nel mio petto penetrò. / Quattro amici lì vicino/ mi portaron mi portaron all’ospedal / ed il medico mi disse / non c’è nulla non c’è nulla da sperar. / Croce Rossa Croce Rossa / per favore, per piacer, per carità / date un bacio alla mia mamma / e alla bandiera, alla bandiera tricolor».

All’inizio, nonostante il feroce carnaio della guerra, non sarebbe dovuto andare a finire così. Pur precettati quando non avevano ancora diciotto anni, i componenti dei primi contingenti, circa 80mila uomini, chiamati nei primi quattro mesi del 1917, avrebbero dovuto essere inquadrati solo nella milizia territoriale. Poi ne vennero chiamati altri 180mila e poi altri ancora. Era un modo di rimpolpare reparti di riserva, non operativi. Ma arrivò Caporetto e cambiò tutto. In tanti finirono dritti al fronte. Su una famosa cartolina militare, per enfatizzare l’importanza del loro sacrificio qualcuno pensò di stampare dei versi di Dante: «Piante novelle. Rinnovellate di novella fronda». Erano versi del Purgatorio e in un purgatorio atroce quei ragazzi finirono. E in purgatorio non mollarono, anzi. Così il generale Diaz: «Li ho visti i ragazzi del ‘99. Andavano in prima linea cantando. Li ho visti tornare in esigua schiera. Cantavano ancora». Una descrizione eroica, a tratti veritiera. Eroi bambini. Certo in Diaz prevale l’orgoglio, non la presa d’atto della mostruosità del sacrificio richiesto. Quella la capì meglio d’Annunzio: «La madre vi ravvivava i capelli, accendeva la lampada dei vostri studi, rimboccava il lenzuolo dei vostri riposi. Eravate ieri fanciulli e ci apparite oggi così grandi!».

Ma loro? Loro quando potevano scrivevano a casa. Alcune di queste lettere ci sono rimaste, la censura (altro che i post bloccati da Facebook) le ha violentate, ma molto di quel dolore è rimasto. Basti un frammento di un diciottenne originario di Laveno Mombello: «Troppo presto ci hanno voluto far diventare uomini e il nostro spirito ancora giovane non può fare a meno di ricordare le gioie passate e di rattristarsene come di una perdita troppo prematura». Ma c’era anche chi scrivere così di certo non sapeva. La trincea fu un crogiuolo che mise assieme il principe e l’ignorante, lo studente di liceo e il falciatore a giornata. Andò così anche per i ragazzi del ‘99. Tra loro c’era Fausto Pirandello, figlio dello scrittore e poi famoso pittore (troppo malato non arrivò mai al fronte); c’era Maceo Casadei, altro pittore, che al fronte andò e dipinse il famoso quadro Ritirata di Caporetto. Ma c’era anche Vincenzo Rabito contadino siciliano semi analfabeta autore di una delle memorie più strane del ‘900 italiano e a cui il fronte fece, forse, meno paura della miseria del dopoguerra.

Piacerebbe, l’Italia di oggi, a quei ragazzi? Non lo sapremo mai. L’ultimo pare sia morto nel 2007. Matteo Sacchi, Il Guornale, 2 gennaio 2018

…..Il Presidente Mattarella nel suo discorso di fine anno 2017 ha ricordato i “Ragazzi del 99″ richiamati sul  finire della prima guerra mondiale  e si ritrovarono mandati al fronte, neppure dciotenni, a froneggiare la ritirata  di Caporetto. Scrissero loro malgrado pagine di eroismo e di gloria cui nessun  paragone con i giovani di oggi renderà giustizia. g.


IL PROCESSO DI NORIMBERGA

Pubblicato il 1 aprile, 2017 in Storia | No Comments »

Carlo Nordio per “il Messaggero”

Robert H. Jackson, capo del collegio d’ accusa al processo di Norimberga, esordì così: «Il fatto che quattro grandi potenze, inorgoglite dalla vittoria e lacerate dalle ferite, trattengano la mano della vendetta e sottopongano volontariamente i loro nemici al giudizio della legge, è uno dei più significativi tributi che la forza abbia mai pagato alla ragione». Sono parole nobili e solenni. Tuttavia, a distanza di settant’anni, ci si domanda ancora se fossero vuota retorica, utopistica illusione o ragionevole speranza. Probabilmente, un po’ di tutte e tre.

Il più grande processo della storia fu condotto dal Tribunale Militare internazionale per giudicare 22 criminali nazisti i cui delitti non avessero una precisa collocazione geografica. Con l’ accordo di Londra dell’ 8 Agosto 1945, Stati Uniti, Regno Unito, Urss e Francia, in rappresentanza delle Nazioni Unite, posero i fondamenti di diritto sostanziale e processale che avrebbero disciplinato il giudizio.

Successivamente furono nominati 8 giudici, uno effettivo e un supplente, per ognuna della 4 potenze. Le imputazioni erano anch’ esse quattro: 1) cospirazione contro la pace, 2) guerra di aggressione 3) crimini di guerra e 4) crimini contro l’ umanità. Nessuno capì mai la differenza tra le prime due imputazioni. La terza si riferiva al maltrattamento e uccisione di prigionieri, devastazione di villaggi, saccheggi ecc. La quarta comprendeva lo sterminio di massa, anche se la parola genocidio non fu mai usata.

IL PROCESSO DI NORIMBERGA

Gli imputati erano il vertice nazista, o quello che ne restava dopo il suicidio di Hitler, Goebbels e Himmler. Alcuni erano di primissimo piano: Göring, capo della Luftwaffe, seconda carica dello Stato, creatore della Gestapo e dei campi di concentramento. Ribbentrop, ministro degli Esteri, tristemente famoso per il patto con Molotov che avrebbe spartito la Polonia. Kaltenbrunner, successore di Heydrich, capo del Servizio Centrale di sicurezza (RSHA), comprendente la Gestapo e il Sd, responsabile della soluzione finale degli ebrei nei campi di sterminio.

IL PROCESSO DI NORIMBERGA

Altri erano militari di rango elevato, Raeder e Doenitz per la Marina, Keitel e Jodl per la Wehrmacht. A questi due ultimi si rimproverava la redazione e trasmissione degli ordini del Führer sui vari massacri di partigiani, internati, spie. Infine altri personaggi minori, banchieri, industriali, fanatici antisemiti. Su tutti troneggiava Albert Speer, il geniale architetto che aveva ricostruito l’ industria bellica tedesca, solo per vederla, alla fine, totalmente devastata.

Il processo iniziò il 20 novembre 1945 e si concluse ai primi di Ottobre del 46, dopo l’audizione di centinaia di testimoni, l’ esame di migliaia di documenti, e la raccapricciante documentazione filmata dei campi di sterminio colmi di cadaveri. L’ accusa non fu sempre all’ altezza della situazione, forse il processo era stato preparato troppo in fretta e senza un’ istruttoria adeguata. Il presidente, l’ imparziale e impeccabile sir Geoffrey Lawrence, richiamò all’ ordine varie volte accusatori e difensori. I russi, tutti militari, minacciarono di andarsene. Il tribunale minacciò a sua volta di arrestare uno di loro. Ma alla fine tutto si sistemò. Se la forza, come aveva detto Jackson, aveva ceduto alla ragione del diritto, quest’ ultima dovette ora cedere alla ragion di Stato.

LA DIFESA

I difensori erano tutti avvocati di prima scelta: su tutti spiccavano Hermann Jahrreiss e Otto Stahmer, che furono insuperabili nello spiegare il principo di irretroattività di una legge afflittiva in genere e penale in specie. Un monito non ascoltato dalla legge Severino. Le difese eccepirono inoltre un inconveniente di fatto: che i vincitori giudicavano i vinti.

E infine invocarono il principio del tu quoque: anche voi – dissero cautamente – avete massacrato militari prigionieri, come a Katyn, e innocenti civili come a Dresda e Hiroshima. Quanto alla guerra di aggressione, l’ Impero Britannico non era forse stato costituito con l’ occupazione di paesi pacifici e neutrali?

Alcune di queste obiezioni erano fondatissime: l’ irretroattività della legge penale è un principio cardine di ogni civiltà; quanto alle guerre di conquista, tutte le nazioni, quando hanno potuto, hanno aggredito le più deboli, se questo era loro conveniente. Altre obiezioni erano assurde: paragonare Auschwitz con Dresda è semplicemente ridicolo, e comunque un crimine non esclude l’ altro. Alla fine, dodici imputati furono condannati a morte: Bormann era latitante, Goering evitò il patibolo avvelenandosi, gli altri furono impiccati seduta stante. Sette furono condannati a vari anni di prigione.

Tre furono assolti. Tutto sommato, fu un processo abbastanza regolare.

Fu anche giusto? Formalmente forse no, ma sostanzialmente si. Il fatto che il vincitore faccia giustizia, non significa di per sé che questa sia iniqua. Certo, legge e giudice furono costituiti ad hoc. Ma che altra scelta c’ era? Molti imputati avevano commesso misfatti tanto scellerati da meritare il patibolo, e qualcuno disse anche di più. La pena – eccessiva per il generale Jodl – fu compensata da quella – troppo mite – per Speer e dall’ assoluzione di Von Papen. Anche visto retrospettivamente, Norimberga costituì davvero uno sforzo titanico per affermare il primato della legge su quella della forza.

IL FALLIMENTO

Ma il tentativo di costituirne un precedente vincolante fallì, né poteva essere altrimenti. Dopo alcuni processi contro imputati minori, e qualche decina di impiccagioni, la giustizia si fermò: per stanchezza, per impotenza, per opportunità politica. I reduci di Norimberga scontarono quasi tutti la pena fino in fondo, ma i loro colleghi detenuti dagli angloamericani furono sempre scarcerati in anticipo.

I sovietici si regolarono da par loro: ne utilizzarono alcuni come spie, sbirri e torturatori; del resto Gestapo e polizia segreta moscovita si erano sempre reciprocamente ammirate e copiate. Gli altri prigionieri furono giustiziati sommariamente, o lasciati morire nei gulag di stenti e di malattie. Quanto all’ Italia, la fucilazione di Mussolini e dei gerarchi a Dongo non fu un modello di giusto processo. Nessuno può realmente considerare tale la condanna a morte pronunciata dal Clnai e subito eseguita (forse) dal colonnello Valerio. Comunque, come disse Churchill, ci risparmiò una Norimberga Italiana.

Ma il fallimento non fu questo. Fu proprio nella smentita, crudele ma prevedibile, degli ideali di Jackson e di tutti coloro a cominciare da Kant che sognavano una giustizia sovranazionale di competenza diffusa ed esclusiva. Dopo Norimberga furono infatti costituti vari tribunali per i crimini di guerra: alcuni, come quello di Sartre e Russell, erano caricature politicamente tarate.

Altri invece erano, e sono, retti da norme e da trattati. Qualche sentenza è addirittura stata pronunciata, qualche criminale balcanico è ancora dietro le sbarre. Ma se pensiamo alle stragi quotidiane in mezzo mondo, quelle di cui parlano tutti e quelle di cui non parla nessuno, la sola idea di un tribunale con effetti repressivi e al contempo deterrenti si rivela una vuota astrazione metafisica. A conferma delle note affermazioni di Tucidide che i forti dominano sempre i più deboli; e che questi ultimi farebbero lo stesso, se un giorno le parti fossero invertite.

…….Il giudice Carlo Nordio ha descritto con esemplare chiarezza il processo di Norimberga  che vide sul banco degli imputati i massimi dirigenti nazisti  che ebbe una traspozisione sullo schermo con un film del 1961 interpretato magnificamente da Alec Baldwuin che è facilmente rintracciabile su youtube.

DA ANTICRAXIANO VI DICO: GLI DOBBIAMO QUALCOSA, di Piero Sansonetti

Pubblicato il 21 gennaio, 2017 in Politica, Storia | No Comments »

Il 19 gennaio del 2000 moriva esule in Tunisia. Lo hanno fatto passare per un brigante ma era uno statista. Fu abbattuto da Mani Pulite: era rimasto l’unico a difendere l’autonomia della politica. Da allora la politica ha perso autonomia.

Il 19 gennaio del 2000, e cioè 17 anni fa, moriva Bettino Craxi. Aveva 65 anni, un tumore al rene curato male, un cuore malandato, curato malissimo.

Il cuore a un certo punto si fermò. Non fu fatto molto per salvarlo. Non fu fatto niente, dall’Italia. Craxi era nato a Milano ed è morto ad Hammamet, in Tunisia, esule. Era stato segretario del partito socialista per quasi vent’anni e presidente del Consiglio per più di tre. In Italia aveva subito condanne penali per finanziamento illecito del suo partito e per corruzione. Quasi dieci anni di carcere in tutto. Prima delle condanne si era trasferito in Tunisia. Se fosse rientrato sarebbe morto in cella.

Craxi ha sempre respinto l’accusa di corruzione personale. Non c’erano prove. E non furono mai trovati i proventi. In genere quando uno prende gigantesche tangenti e le mette in tasca, poi da qualche parte questi soldi saltano fuori. In banca, in acquisti, in grandi ville, motoscafi. Non furono mai trovati. I figli non li hanno mai visti. La moglie neppure. Lui non li ha mai utilizzati. Non ha lasciato proprietà, eredità, tesori. Craxi era un malfattore, o è stato invece uno statista importante sconfitto da una gigantesca operazione giudiziaria? La seconda ipotesi francamente è più probabile. La prima è quella più diffusa nell’opinione pubblica, sostenuta con grande impegno da quasi tutta la stampa, difesa e spada sguainata da gran parte della magistratura.

Craxi era stato uno degli uomini più importanti e potenti d’Italia, negli anni Ottanta, aveva goduto di grande prestigio internazionale. Si era scontrato e aveva dialogato con Reagan, col Vaticano, con Israele e i paesi Arabi, con Gorbaciov, con quasi tutti i leader internazionali. Aveva sostenuto furiose battaglie con i comunisti in Italia, con Berlinguer e Occhetto e D’Alema; e anche con la Dc, con De Mita, con Forlani, epici gli scontri con Andreotti; con la Dc aveva collaborato per anni e governato insieme. Bene, male? Poi ne discutiamo. Aveva anche firmato con la Chiesa il nuovo concordato.

LAPRESSE - CRAXI - © INTERNATIONALPHOTO/LAPRESSE 23-05-1987 PARMA POLITICA NELLA FOTO : BETTINO CRAXI PARLA AL COMIZIO SOCIALISTA

Morì solo solo. Solo: abbandonato da tutti. Stefania, sua figlia, racconta di quando la mamma la chiamò al telefono, nell’autunno del ‘ 99, e le disse che Bettino era stato ricoverato a Tunisi, un attacco di cuore. Lei era a Milano, si precipitò e poi cercò di muovere mari e monti per fare curare il padre. Non si mossero i monti e il mare restò immobile. Craxi fu curato all’ospedale militare di Tunisi. Stefania riuscì ad avere gli esami clinici e li spedì a Milano, al San Raffaele, lì aveva degli amici. Le risposero che c’era un tumore al rene e che andava operato subito, se no poteva diffondersi. Invece passarono ancora due mesi, perché a Tunisi nessuno se la sentiva di operarlo. Arrivò un chirurgo da Milano, operò Craxi in una sala operatoria dove due infermieri tenevano in braccio la lampada per fare luce. Portò via il rene, ma era tardi. Il tumore si era propagato, doveva essere operato prima, si poteva salvare, ma non ci fu verso.

In quei giorni drammatici dell’ottobre 1999 Craxi era caduto in profonda depressione. Non c’è da stupirsi, no? Parlava poco, non aveva forse voglia di curarsi. Era un uomo disperato: indignato, disgustato e disperato.

Stefania mi ha raccontato che lei non sapeva a che santo votarsi: non conosceva persone potenti. Il Psi non esisteva più. Chiamò Giuliano Ferrara e gli chiese di intervenire con D’Alema. Il giorno dopo Ferrara gli disse che D’Alema faceva sapere che un salvacondotto per l’Italia era impossibile, la Procura di Milano avrebbe immediatamente chiesto l’arresto e il trasferimento in carcere. Stefania chiese a Ferrara se D’Alema potesse intervenire sui francesi, i francesi sono sempre stati generosi con la concessione dell’asilo politico. Era più che naturale che glielo concedessero. Curarsi a Parigi dava qualche garanzia in più che curarsi all’ospedale militare di Tunisi.

Passarono solo 24 ore e Jospin, che era il presidente francese, rilasciò una dichiarazione alle agenzie: «Bettino Craxi non è benvenuto in Francia».

Quella, più o meno, fu l’ultima parola della politica su Craxi. Fu la parola decisiva dell’establishment italiano e internazionale. Craxi deve morire.

Il 19 gennaio Craxi – per una volta – obbedì e se andò all’altro mondo. E’ curioso che quasi vent’anni dopo la sua morte, e mentre cade il venticinquesimo anniversario dell’inizio della stagione di Tangentopoli ( Mario Chiesa fu arrestato il 17 febbraio del 1992, e da lì cominciò tutto, da quel giorno iniziò la liquidazione della prima repubblica), qui in Italia nessuno mai abbia voluto aprire una riflessione su cosa successe in quegli anni, sul perché Craxi fu spinto all’esilio e alla morte, sul senso dell’inchiesta Mani Pulite, sul peso della figura di Craxi nella storia della repubblica. Ci provò Giorgio Napolitano, qualche anno fa. Ma nessuno gli diede retta.

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Vogliamo provarci? Partendo dalla domanda essenziale: Statista o brigante.

Forse sapete che Bettino Craxi negli anni Ottanta scriveva dei corsivi sull’Avanti! , il giornale del suo partito, firmandoli Ghino di Tacco. Ghino era un bandito gentiluomo vissuto verso la metà del 1200 dalle parti di Siena, a Radicofani. Boccaccio parla di lui come una brava persona. A Craxi non dispiaceva la qualifica di brigante. Perché era un irregolare della politica. Uno che rompeva gli schemi, che non amava il political correct. Però non fu un bandito e fu certamente uno statista. Persino Gerardo D’Ambrosio, uno dei più feroci tra i Pm del pool che annientò Craxi, qualche anno fa ha dichiarato: non gli interessava l’arricchimento, gli interessava il potere politico. Già: Craxi amava in modo viscerale la politica. La politica e la sua autonomia. Attenzione a questa parola di origine greca: autonomia. Perché è una delle protagoniste assolute di questa storia. Prima di parlarne però affrontiamo la questione giudiziaria. Era colpevole o innocente? Sicuramente era colpevole di finanziamento illecito del suo partito. Lo ha sempre ammesso. E prima di lasciare l’Italia lo proclamò in un famosissimo discorso parlamentare, pronunciato in un aula di Montecitorio strapiena e silente. Raccontò di come tutti i partiti si finanziavano illegalmente: tutti. Anche quelli dell’opposizione, anche il Pci. Disse: se qualcuno vuole smentirmi si alzi in piedi e presto la storia lo condannerà come spergiuro.

Beh, non si alzò nessuno. Il sistema politico in quegli anni – come adesso – era molto costoso. E i partiti si finanziavano o facendo venire i soldi dall’estero o prendendo tangenti. Pessima abitudine? Certo, pessima abitudine, ma è una cosa molto, molto diversa dalla corruzione personale. E in genere il reato, che è sempre personale e non collettivo, non era commesso direttamente dai capi dei partiti, ma dagli amministratori: per Craxi invece valse la formula, del tutto antigiuridica, “non poteva non sapere”.

Craxi era colpevole. Nello stesso modo nel quale erano stati colpevoli De Gasperi, Togliatti, Nenni, la Malfa, Moro, Fanfani, Berlinguer, De Mita, Forlani… Sapete di qualcuno di loro condannato a 10 anni in cella e morto solo e vituperato in esilio?

Ecco, qui sta l’ingiustizia. Poi c’è il giudizio politico. Che è sempre molto discutibile. Craxi si occupò di due cose. La prima era guidare la modernizzazione dell’Italia che usciva dagli anni di ferro e di fuoco delle grandi conquiste operaie e popolari, e anche della grande violenza, del terrorismo, e infine della crisi economica e dell’inflazione. Craxi pensò a riforme politiche e sociali che permettessero di stabilizzare il paese e di interrompere l’inflazione.

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La seconda cosa della quale si preoccupò, strettamente legata alla prima, era la necessità di salvare e di dare un ruolo alla sinistra in anni nei quali, dopo la vittoria di Reagan e della Thatcher, il liberismo stava dilagando. Craxi cercò di trovare uno spazio per la sinistra, senza opporsi al liberismo. Provò a immaginare una sinistra che dall’interno della rivoluzione reaganiana ritrovava una sua missione, attenuava le asprezze di Reagan e conciliava mercatismo e stato sociale. Un po’ fu l’anticipatore di Blair e anche di Clinton ( e anche di Prodi, e D’Alema e Renzi…). Craxi operò negli anni precedenti alla caduta del comunismo, ma si comportò come se la fine del comunismo fosse già avvenuta. Questa forse è stata la sua intuizione più straordinaria. Ma andò sprecata. Personalmente non ho mai condiviso quella sua impresa, e cioè il tentativo di fondare un liberismo di sinistra. Così come, personalmente, continuo a pensare che fu un errore tagliare la scala mobile, e che quell’errore di Craxi costa ancora caro alla sinistra. Ma questa è la mia opinione, e va confrontata con la storia reale, e non credo che sia facile avere certezze.

Quel che certo è che Craxi si misurò con questa impresa mostrando la statura dello statista, e non cercando qualche voto, un po’ di consenso, o fortuna personale. Poi possiamo discutere finché volete se fu un buono o un cattivo statista. Così come possiamo farlo per De Gasperi, per Fanfani, per Moro.

E qui arriviamo a quella parolina: l’autonomia della politica. Solo in una società dove esiste l’autonomia della politica è possibile che vivano ed operano gli statisti. Se l’autonomia non esiste, allora i leader politici sono solo funzionari di altri poteri. Dell’economia, della magistratura, della grande finanza, delle multinazionali…

Photo prise le 20 octobre 1988 ‡ la Maison Blanche ‡ Washington, du prÈsident Ronald Reagan en discussion avec l'ancien prÈsident du Conseil italien Bettino Craxi (D) qui est dÈcÈdÈ ‡ son domicile tunisien, le 19 janvier 2000, ‡ l'‚ge de 65 ans. Bettino Craxi s'Ètait rÈfugiÈ en 1994 ‡ Hammamet pour Èchapper ‡ la justice italienne qui l'a condamnÈ par contumace, dans diverses affaires de corruption et de financement illicite du PSI, ‡ un total de 27 ans de prison. // Picture dated 20 October 1988 at the White House in Washington shows the then US president Ronald Reagan with former Italien premier Bettino Craxi. Craxi died at his home in southern Tunisia 19 January 2000 at age 65. He fled to Tunisia in 1994 to escape imprisonment on corruption convictions.

In Italia l’autonomia della politica è morta e sepolta da tempo. L’ha sepolta proprio l’inchiesta di Mani Pulite. C’erano, negli anni Settanta, tre leader, più di tutti gli altri, che avevano chiarissimo il valore dell’autonomia. Uno era Moro, uno era Berlinguer e il terzo, il più giovane, era Craxi. Alla fine degli anni Ottanta Moro e Berlinguer erano morti. Era rimasto solo Craxi. Io credo che fu essenzialmente per questa ragione che Craxi fu scelto come bersaglio, come colosso da abbattere, e fu abbattuto.

Lui era convinto che ci fu un complotto. Sospettava che lo guidassero gli americani, ancora furiosi per lo sgarbo che gli aveva fatto ai tempi di Sigonella, quando ordinò ai carabinieri di circondare i Marines che volevano impedire la partenza di un un aereo con a bordo un esponente della lotta armata palestinese. I carabinieri spianarono i mitra. Si sfiorò lo scontro armato. Alla fine, in piena notte, Reagan cedette e l’aereo partì. Sì, certo, non gliela perdonò.

Io non credo però che ci fu un complotto. Non credo che c’entrassero gli americani. Penso che molte realtà diverse ( economia, editoria, magistratura) in modo distinto e indipendente, ma in alleanza tra loro, pensarono che Tangentopoli fosse la grande occasione per liquidare definitivamente l’autonomia della politica e per avviare una gigantesca ripartizione del potere di stato. Per questo presero Craxi a simbolo da demolire. Perché senza di lui l’autonomia della politica non aveva più interpreti.

Dal punto di vista giudiziario “mani pulite” ha avuto un risultato incerto. Migliaia e migliaia di politici imputati, centinaia e centinaia arrestati, circa un terzo di loro, poi, condannati, moltissimi invece assolti ( ma azzoppati e messi al margine della lotta politica), diversi suicidi, anche illustrissimi come quelli dei presidenti dell’Eni e della Montedison. Dal punto di vista politico invece l’operazione fu un successo. La redistribuzione del potere fu realizzata. Alla stampa toccarono le briciole, anche perché nel frattempo era sceso in campo Berlusconi. All’imprenditoria e alla grande finanza andò la parte più grande del bottino, anche perché decise di collaborare attivamente con i magistrati, e dunque fu risparmiata dalle inchieste. Quanto alla magistratura, portò a casa parecchi risultati. Alcuni molto concreti: la fine dell’immunità parlamentare, che poneva Camera e Senato in una condizione di timore e di subalternità verso i Pm; la fine della possibilità di concedere l’animista; la fine della discussione sulla separazione delle carriere, sulla responsabilità civile, e in sostanza la fine della prospettiva di una riforma della giustizia. Altri risultati furono più di prospettiva: l’enorme aumento della popolarità, fino a permettere al Procuratore di Milano – in violazione di qualunque etica professionale – di incitare il popolo alla rivolta contro la politica (“resistere, resistere, resistere… ”) senza che nessuno osasse contestarlo, anzi, tra gli applausi; il via libera all’abitudine dell’interventismo delle Procure in grandi scelte politiche ( di alcune parlava giorni fa Pierluigi Battista sul Corriere della Sera); l’enorme aumento del potere di controllo sulla stampa e sulla Tv; la totale autonomia.

Ora a me restano due domande. La prima è questa: quanto è stata mutilata la nostra democrazia da questi avvenimenti che hanno segnato tutto l’ultimo quarto di secolo? E questa mutilazione è servita ad aumentare il tasso di moralità nella vita pubblica, oppure non è servita a niente ed è stata, dunque, solo una grandiosa e riuscita operazione di potere?

E la seconda domanda è di tipo storico, ma anche umano: è giusto che un paese, e il suo popolo, riempano di fango una figura eminente della propria storica democratica, come è stato Craxi, solo per comodità, per codardia, per “patibolismo”, deturpando la verità vera, rinunciando a sapere cosa è stato nella realtà il proprio passato?

Io penso di no. Da vecchio anticraxiano penso che dobbiamo qualcosa a Bettino Craxi. PIERO SANSONETTI.

.….CONDIVIDO. g.



DUE CAPITALI NON FANNO UNA NAZIONE: IL DUALISMO FRA ROMA E MILANO

Pubblicato il 30 novembre, 2015 in Costume, Politica, Storia | No Comments »

La chiusura dell’Expo (dopo il successo che sappiamo) e la contemporanea apertura del processo di Mafia Capitale (con tutti i retroscena che in gran parte invece ancora non sappiamo) hanno riproposto la dualità Milano-Roma: naturalmente tutto a vantaggio della prima. Anche se il modo in cui tale dualismo viene ancora oggi rubricato – «capitale morale» da un lato, «capitale politica» dall’altro: ed è ovvio da che parte sia il primato – è uno stereotipo che non spiega molto.

In realtà, quello tra Milano e Roma non è un dualismo tra due città. È il dualismo tra due pezzi della storia d’Italia, che lo Stato nazionale non è finora riuscito a rimettere insieme, e che forse mai riuscirà. Anche perché mentre Milano costituisce la parte di un insieme più vasto, Roma, al contrario,
è totalmente un caso a sé. E proprio in questa sua assoluta specificità sta tra l’altro l’origine dei suoi mali attuali: forse addirittura della loro irrimediabilità.

Roma non ha mai conosciuto la dimensione municipale di cui Milano è stata ed è, viceversa, un esempio tra i maggiori nella Penisola (che, come si sa, ne annovera numerosissimi altri, tutti concentrati nel Centro-Nord). Né è mai stata la capitale di un vero Stato regionale come Napoli o Torino, che proprio per questo, infatti, sono le uniche e vere rappresentanti storiche della tradizione statale italiana. Lo Stato pontificio d’altra parte è rimasto nei secoli un puro attributo patrimoniale della Santa Sede, sia pure con una significativa capacità d’innovazione. Capitale di nulla, Roma ha perciò visto da sempre la propria identità legata in modo indissolubile a una dimensione transnazionale, tendenzialmente mondiale. Il rapporto di Roma con la Chiesa è così profondo, consustanziale, infatti, proprio perché esso ripete quello con l’impero dei Cesari: la Città e il Mondo. Nella Chiesa Roma vede il solo referente rimasto di quella tensione all’universalità che sente intimamente sua.

Legata alla Santa Sede, e al tempo stesso luogo delle più celebri rovine d’Europa, Roma è rimasta nei secoli una sorta di città santuario, una meta di pellegrinaggi sia religiosi che laici. Priva di una vera identità civica (e quindi di un possibile patriottismo civico), il suo popolo, nella sostanza, è stato nei secoli una plebe di servitori, legata a una funzione di servizio per il turismo confessionale e culturale. All’altro estremo della scala, l’aristocrazia. Ma priva di una vera corte, tenuta lontana da veri compiti di governo, impossibilitata a servire in un vero esercito, essa è sempre rimasta particolaristica e feudale nell’animo, con frequenti tratti di rusticità che le venivano dal suo stretto rapporto con il contado. Che erano poi i medesimi tratti dominanti nella cerchia dei suoi amministratori, dei mercanti di campagna, degli alti dipendenti laici del Vaticano, il «generone». Chi voglia farsi di tutto questo un’idea più precisa non ha che da leggere i sonetti di Belli, il massimo testo di sociologia scritto sulla Città dei Papi. Nei quali non a caso, però, non compare mai una figura che possa dirsi quella di un vero borghese. La borghesia romana, infatti, l’hanno cominciata a formare dopo il 1870 gli impiegati piemontesi dello Stato italiano. Il Vaticano, dunque, e poi lo Stato: insomma la politica, il potere. È stata costituita da questi materiali la vera cultura civica, se così può dirsi, della Roma contemporanea. La quale, pur essendo sede della statualità italiana, non ha però mai avuto nulla in comune con quella cultura dello Stato che si esprime tipicamente nella legge e nell’idea di un ordine. Per Roma lo Stato è solo la politica e il potere, questi solo contano. Per il resto lo Stato le è totalmente estraneo: da qui la dimensione di a-legalità che le è propria e che, come si capisce, è solo a un passo dall’illegalità.

Ma a ben vedere non è la stessa estraneità – sia pure di origine e natura assai diverse – che verso lo Stato nutre Milano? Qui è innanzi tutto la cultura del fare, dell’intraprendere, del commercio, che scava un invalicabile fossato tra la propria innata praticità e l’astrattezza procedurale della macchina burocratico-statale, tra il suo quotidiano tirarsi su le maniche e l’apparente vuotaggine dell’attività politica, per tanta parte fatta necessariamente di parole. La «moralità» di cui Milano si vuole capitale, più che esibizione di una superiore onestà dei singoli (Dio sa quanto difficile da dimostrare), è innanzi tutto rivendicazione della supremazia etica del fare. Per questo Milano piace e punta su di lei chi siede al governo del Paese desideroso di bruciare le tappe, insofferente delle procedure: chi vuole rappresentare l’operosità modernizzatrice, chi come un vero imprenditore desidera vedere tornare il conto dei propri voti in tempi brevi, chi la pensa come il luogo elettivo dove bisogna sfondare per conquistare l’Italia. Come Craxi trent’anni fa, come oggi Matteo Renzi: il quale infatti a Milano ci va di continuo, vi fa grandi progetti, le promette soldi in quantità, qui si spende per trovarle un sindaco. Mentre di Roma visibilmente gli interessa poco, preferendo lasciarla alle infami risse del Pd e al Papa con il suo Giubileo. Su Roma, in realtà, nella storia dell’Italia novecentesca, ha puntato solo Mussolini, che nelle sue allucinazioni di autodidatta romagnolo carducciano-nicciano vi vedeva il piedistallo di un ruolo suo e dell’Italia, proiettato non a caso sulla scena mondiale (l’Italia essendosela già presa con la famigerata «marcia»). Dopo Mussolini c’è stato solo Andreotti. Ma in questo caso non già perché egli avesse di mira il mondo, bensì perché per Andreotti ciò che veramente importava, alla fine, non era né l’Italia né altro: era solo il Vaticano.

Dunque il Municipio e l’Urbe-Mondo. Il fare senza lo Stato da un lato, e dall’altro la politica senza legge e senza ordine. Milano e Roma: questo dualismo tuttavia non fa una nazione. E infatti per molti aspetti il problema storico dell’Italia, così come alcuni problemi più concreti dell’oggi, vengono per l’appunto dalla difficile, forse impossibile, integrazione delle sue due più importanti città nella dimensione nazionale. Una dimensione che nello sfacelo attuale dell’Unione Europea, forse, però, non è molto saggio continuare anche idealmente a ignorare. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 30 novembre 2015

“ITALIANI VOLTAGABBANA”, IL NUOVO LIBRO DI BRUNO VESPA

Pubblicato il 6 novembre, 2014 in Costume, Politica, Storia | No Comments »

ITALIANI VOLTA GABBANA LIBRO DI BRUNO VESPA IL LIBRO DI BRUNO VESPA

Il numero dei voltagabbana tra gli intellettuali alla caduta del regime fu clamoroso. Giuseppe Bottai era il politico più illuminato del fascismo sul piano culturale, ma anche il più feroce sostenitore delle leggi razziali. Ebbene, la sua rivista «Primato» fu pubblicata dal 1940 (quando le leggi razziali avevano già consumato i peggiori misfatti) e chiuse solo con la caduta del regime il 25 luglio 1943.

In quegli anni, Bottai poté contare sulla fervida collaborazione del meglio della cultura italiana: Giorgio Vecchietti (condirettore), Nicola Abbagnano, Mario Alicata, Corrado Alvaro, Cesare Angelini, Giulio Carlo Argan, Riccardo Bacchelli, Piero Bargellini, Arrigo Benedetti, Carlo Betocchi, Romano Bilenchi, Walter Binni, Alessandro Bonsanti, Vitaliano Brancati, Dino Buzzati, Enzo Carli, Emilio Cecchi, Luigi Chiarini, Giovanni Comisso,  Gianfranco Contini, Galvano Della Volpe, Giuseppe Dessì, Enrico Emanuelli, Enrico Falqui, Francesco Flora, Carlo Emilio Gadda, Alfonso Gatto, Mario Luzi, Bruno Migliorini, Paolo Monelli, Eugenio Montale, Carlo Muscetta, Piermaria Pasinetti, Cesare Pavese, Giaime Pintor, Vasco Pratolini, Salvatore Quasimodo, Vittorio G. Rossi, Luigi Russo, Luigi Salvatorelli, Sergio Solmi, Ugo Spirito, Bonaventura Tecchi, Giovanni Titta Rosa,Giuseppe Ungaretti, Nino Valeri, Manara Valgimigli, Giorgio Vigolo, Cesare Zavattini. Musicisti come Luigi Dallapiccola e Gianandrea Gavazzeni. Artisti come Amerigo Bartoli, Domenico Cantatore, Pericle Fazzini, Renato Guttuso, Mino Maccari, Mario Mafai, Camillo Pellizzi, Aligi Sassu, Orfeo Tamburi.

GIUSEPPE UNGARETTI

Una crisi di coscienza colse Giuseppe Ungaretti. Il poeta notò durante il regime che «tutti gli italiani amano e venerano il loro Duce come un fratello maggiore» e si definì «fascista in eterno», firmando documenti e appelli per sostenere il fascismo. Salvo firmarne di uguali e contrari alla fine della guerra come alfiere dell’antifascismo, tanto da meritare una grande accoglienza a Mosca da parte di Nikita Kruscev.

NORBERTO BOBBIO

Norberto Bobbio da studente si era iscritto al Guf, l’organismo universitario fascista, e poi aveva mantenuto la tessera del partito, indispensabile per insegnare. Colpito per frequentazioni non sempre ortodosse da una lieve sanzione che avrebbe potuto comprometterne la carriera, Bobbio cercò ovunque raccomandazioni per emendarsi. Suo padre Luigi si rivolse al Duce, lo zio al quadrumviro De Bono, lo stesso giovane docente a Bottai («con devota fascistica osservanza»). Fu interessato anche Giovanni Gentile, che intervenne con successo presso Mussolini.

Alla fine, Norberto ebbe la cattedra tanto desiderata. Nel dopoguerra, Bobbio diventò un maître à penser della sinistra riformista italiana. Ma il tarlo del passato lo consumò fino a una clamorosa intervista liberatoria rilasciata il 12 novembre 1999 a Pietrangelo Buttafuoco per Il Foglio: «Noi il fascismo l’abbiamo rimosso perché ce ne ver-go-gna-va-mo. Ce ne ver-go-gna-va-mo. Io che ho vissuto la “gioventù fascista” tra gli antifascisti mi vergognavo prima di tutto di fronte al me stesso di dopo, e poi davanti a chi faceva otto anni di prigione, mi vergognavo di fronte a quelli che diversamente da me non se l’erano cavata».

INDRO MONTANELLI

Montanelli non ha fatto mai mistero di essere stato fascista. (Fu, anzi, un fascista entusiasta). «Sono stato fascista, come tutte le persone della mia generazione», ammise nella sua “Stanza” sul Corriere della Sera nel 1996. «Non perdo occasione per ricordarlo, ma neanche di ripetere che non chiedo scusa a nessuno».

Anche nella più sfacciata adulazione del Duce, Montanelli scriveva pezzi di bravura come questo del 1936: «Quando Mussolini ti guarda, non puoi che essere nudo dinanzi a Lui. Ma anche Lui sta, nudo, dinanzi a noi. Il Suo volto e il Suo torso di bronzo sono ribelli ai panneggi e alle bardature. Ansiosi e sofferenti, noi stessi glieli strappiamo di dosso, mirando solo alla inimitabile essenzialità di questo Uomo, che è un vibrare e pulsare formidabilmente umani. Dobbiamo amarlo ma non desiderare di essere le favorite di un harem».

GIORGIO BOCCA

«Quando cominciò il nostro antifascismo? Difficile dirlo…». Dev’essere cominciato tardi, quello di Giorgio Bocca, se è vero quanto egli stesso scrive nel racconto «La sberla… e la bestia» pubblicato l’8 gennaio 1943 su La provincia granda, foglio d’ordini settimanale della federazione fascista di Cuneo. Il 5 gennaio Bocca aveva incontrato in treno sulla linea Cuneo-Torino l’industriale Paolo Berardi, il quale diceva ad alcuni reduci dalla Russia e dalla Francia che la guerra era ormai perduta. Bocca ascoltò, poi gli diede un ceffone e lo denunciò alla polizia per disfattismo.

Due anni prima, sullo stesso settimanale, il giovane giornalista aveva scritto un lungo articolo su I protocolli dei Savi di Sion, che si sarebbero rivelati poi (ma lui, ovviamente, non lo sapeva) il falso più clamoroso della propaganda antisemita. Le prime righe dell’articolo recitano: «Sono i Protocolli dei Savi di Sion un documento dell’Internazionale ebraica contenente i piani attraverso cui il popolo Ebreo intende giungere al dominio del mondo…». E le ultime: «Sarà chiara a tutti, anche se ormai i non convinti sono pochi, la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come una ribellione dell’Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù».

DARIO FO

Dario Fo si arruolò a 18 anni come volontario prima nel battaglione Azzurro di Tradate (contraerea) e poi tra i paracadutisti del battaglione Mazzarini della Repubblica sociale italiana. Il 9 giugno 1977, quando Fo era ormai da anni celebre per il suo lavoro teatrale Mistero buffo, un piccolo giornale di Borgomanero (Novara), Il Nord, pubblicò una lettera di Angelo Fornara che ne raccontava i trascorsi repubblichini. Fo sporse querela con ampia facoltà di prova, ma il processo non ebbe l’esito da lui sperato.

Secondo quanto riferì Il Giorno (8 febbraio 1978), l’attore disse in aula che il suo «arruolamento era una questione di metodi di lotta partigiana» per coprire l’azione antifascista della sua famiglia. Ma le testimonianze furono implacabili. Il suo istruttore tra i parà, Carlo Maria Milani, mise a verbale: «L’allievo paracadutista Dario Fo era con me durante un rastrellamento nella Val Cannobina per la conquista dell’Ossola, il suo compito era di armiere porta bombe».

E l’ex comandante partigiano Giacinto Lazzarini lo inchiodò: «Se Dario Fo si arruolò nei paracadutisti repubblichini per consiglio di un capo partigiano, perché non l’ha detto subito, all’indomani della Liberazione? Perché tenere celato per tanti anni un episodio che va a suo merito?».

Una testimone, Ercolina Milanesi, lo ricorda «tronfio come un gallo per la divisa che portava e ci tacciò di pavidi per non esserci arruolati come lui. L’avremmo fatto, ma avevamo quindici anni…». L’11 marzo 1978, mentre il processo contro gli accusatori di Fo era in pieno svolgimento, Luciano Garibaldi pubblicò sul settimanale Gente una foto dell’attore in divisa della Repubblica sociale (altissimo, magrissimo come è sempre stato) e un suo disegno dove appaiono alcuni camerati con le anime dei partigiani uccisi che escono dalle canne dei mitra («Sono apocrife e aggiunte da altri», si difenderà).

Il 7 marzo 1980 il tribunale di Varese stabilì che «è perfettamente legittimo definire Dario Fo repubblichino e rastrellatore di partigiani». Il futuro premio Nobel non ricorse in appello e la sentenza divenne definitiva.

VITTORIO GORESIO

Vittorio Gorresio, una delle firme più brillanti della sinistra riformista del dopoguerra, scriveva cose impegnative sulla gioventù hitleriana: «Così pregano gli ariani piccoli, ora che, dissipato il fumo del rogo ove furon arsi i venticinquemila volumi infetti di semitismo, l’atmosfera tedesca è più limpida e chiara». E nel 1936 sulla Stampa, il giornale di cui sarebbe diventato negli anni Sessanta la prima firma politica, confessava: «Ringrazio Dio perché ci ha fatto nascere italiani ed è con gli occhi lucidi che si sente nell’animo la gratitudine del Duce».

EUGENIO SCALFARI

Nonostante la giovane età, Scalfari era riuscito a far pubblicare alcuni scritti di Calvino su Roma fascista, era diventato amico di Bottai, che chiamava «il mio Peppino», e fino alla caduta del fascismo sostenne con convinzione l’economia corporativa. Ma va ascritto a suo merito di aver sempre parlato nel dopoguerra di «quaranta milioni di fascisti che scoprirono di essere antifascisti», non nascondendo mai le sue ferme convinzioni giovanili.

ENZO BIAGI

Montanelli collaborò a Primato come Enzo Biagi, che nel dopoguerra non ha negato i suoi trascorsi (scrisse anche per la rivista fascista bolognese Architrave) e la gratitudine per Bottai. Ma i suoi avversari, spulciando negli archivi, hanno scovato altri episodi. Secondo il racconto di Nazario Sauro Onofri in I giornali bolognesi nel ventennio fascista, nel 1941 Biagi, allora ventunenne, recensì il film Süss l’ebreo, formidabile strumento della propaganda antisemita di Himmler, sul foglio della federazione fascista bolognese L’assalto, scrivendo che il pubblico «era trascinato verso l’entusiasmo» e «molta gente apprende che cosa è l’ebraismo e ne capisce i moventi della battaglia che lo combatte».

(Biagi era in buona compagnia, perché sullo stesso giornale, fortemente antisemita, si scatenava anche il giovanissimo Giovanni Spadolini, mentre una lusinghiera recensione allo stesso film fu firmata dal regista Carlo Lizzani). Biagi restò al Resto del Carlino, controllato dai fascisti e ormai anche dai nazisti, fino alla tarda primavera del 1944, ricevendo – come tutta la redazione – generosi sussidi economici dal ministero della Cultura popolare (il Minculpop). Dieci mesi dopo entrava a Bologna con le truppe americane.” Brano tratto  dal libro “Italiani volgabbana” di Bruno Vespa, novembre 2014

………Italiani voltagabbana? Vespa arriva con un pò di ritardo a scoprirlo e documentarlo,  visto che un mezzo secolo addietro  un certo Ennio Flaiano scriveva che gli italiani sono sempre pronti a saltare sul carro dei vincitori e un certo Leo Longanesi scriveva che gli italiani sulla bandiera  sono soliti scrivere  sempre “ho famiglia”. Senza dimenticare Giovanni Guareschi e il suo “Candido” che ad ogni numero non tralasciava occasione per  ricordare i trascorsi “guerreschi” e non solo di tanti prodi voltagabbana; anzi in quegli anni fu edito e distribuito un tascabile che riportava sulla copertina un fez e il titolo”camerata dove sei?, con un lungo elenco di coraggiosi antifascisti che però erano stati altrettanto animosi fascisti durante il ventennio, salvo essere illuminati un minuto diopo la caduta del Duce e del fascismo. Ed anche in Parlamento rimbalzarono le denunce documentate sui salti della quaglia di tanti fascisti folgorati dall’antifascismo. Lo fece un simpatico deputato calabrese, si chiamava Nino Tripodi, che un pomeriggio, provocato dalle solite tiritiere antifasciste, si alzò nella solenne cornice della Camera e sciorinò nomi, cognomi ed imprese di tanti ex camerati divenuti feroci ed ardimentosi mangiafascisti. Tanti  di loro erano presenti in aula ma non fiatarono, così come non hanno fiatato in tempi più recenti i più bei nomi del giornalismo italiano elencati in un lungo elenco trascritto alla fine di un saggio il cui titolo era un programma: I Redenti, ed erano i nomi dei tanti giornalisti, alcuni di quelli appena citati anche da Vespa, che avedndo imparato il mestiere nelle redazioni dei giornali fascisti, da Primato a Il Tevere il cui caporedattore era un certo Giorgio Almirante, erano poi divenuti d’un sol colpo redattori ed inviati speciali dell’Unità.  Quindi  la vocazione trasformistica degli italiani è antica,   che si ripete  non solo ai cambi di regime, ma ora anche, in pieno sistema democratico-parlamentare,  ai cambi del capo del governo. g.

UN MUSEO DEL FASCISMO A PREDAPPIO, CITTA’ NATALE DEL DUCE

Pubblicato il 19 aprile, 2014 in Cronaca, Storia | No Comments »

Chi era Benito, prima di diventare Mussolini? E com’era l’Italia, quando Mussolini era Duce? E cosa rimase, quando cadde il Duce Benito Mussolini? Soprattutto: quale città può, meglio di tutte, raccontare questa Storia?
A Predappio, città dove tutto nacque e dove tutto silenziosamente continua, ci arrivi portato da una strada maestosa, già viale Mussolini e ora, per catarsi toponomastica, viale Matteotti.

È costeggiato, a destra e a sinistra, da meravigliosi e fascistissimi edifici, voluti dal Duce e disegnati da Florestano di Fausto, l’architetto che negli anni Venti trasformò la località di Dovia, che aveva dato i natali a Mussolini, nella Predappio «Nuova» che doveva celebrare il mito delle origini del Duce. Fu detto, in sfregio alla verità e in omaggio al Condottiero, che la Predappio vecchia, in collina – la Predappio Alta di oggi – stava crollando per una frana, e attorno al casone dove il 29 luglio 1883 era nato, da un fabbro e da una maestra, Benito Mussolini, si costruì una città ex novo. Questa.
Di qua e di là dal vialone, sfilano, razionali e massicci, l’edificio delle Poste, l’esedra del mercato, il teatro, la Casa per i dirigenti dell’Aeronautica Caproni (dell’immensa fabbrica, su in collina, rimane solo una grande M di mattoni romani), la caserma dei Carabinieri, l’asilo comunale gestito, oggi come allora, caso unico in Italia, da suore… Tutti gli edifici hanno ancora le piastrelle originali in ceramica col numero civico, da cui è stato staccato il fascio littorio… E, in fondo, prima della grande piazza centrale – sproporzionata, come le ambizioni del Duce – proprio sotto Palazzo Varano dove per vent’anni risiedettero i Mussolini, e che oggi è sede del Comune, troneggia la monumentale Casa del Fascio, un tempo magnifica, oggi in completo abbandono: tre piani, 2400 metri quadrati, marmi che profumano di regime e una grande Storia da narrare. Diventerà – se le cose andranno come devono – la sede del primo museo del Fascismo. Voluto da un sindaco di sinistra.
Il sindaco di sinistra si chiama Giorgio Frassineti, ha cinquant’anni, renziano, post-ideologico, sangue romagnolo e mascella volitiva. È geologo e la propria terra la conosce molto bene. Ricandidato per le prossime elezioni amministrative del 25 maggio, ha molte probabilità di vincerle. E se ciò accadrà, con altri cinque anni davanti, farà qualcosa di rivoluzionario per queste parti: «Basta con la Predappio del turismo in camicia nera. La città non deve celebrare, né sopportare il fascismo. Lo deve conoscere, in modo completo. E per farlo, deve sapere cosa è stato il fascismo, come è nato e come è caduto: occorre raccontarlo, senza paure. Occorre un museo. A Predappio c’è anche il luogo adatto…».
Pedagogica e propagandistica, la Casa del Fascio di Predappio fu costruita fra il ‘34 e il ‘37, un parallelepipedo fluido ed eclettico: cotto romano, travertino e torre littoria. Scalone monumentale, vetrate immense, marmi e uno sfarzoso salone delle feste. All’epoca ospitava gli uffici del Partito ed era il centro della vita politica e sociale della città. Oggi è invasa da colombi che nidificano nella torre, mobili sfasciati, muffa, vetri rotti, ed è il simbolo della colpa primigenia cittadina. Architettonicamente ancora splendida, la Casa del Fascio oggi è in degrado.
Trasformarla in museo avrebbe un costo economico alto, ma con gli aiuti europei o dei privati, accessibile. Ma trasformarla in un museo del Fascismo, avrebbe costi politici ancora maggiori. La città lo accetterebbe? E la sinistra locale? E quella nazionale? Gli storici cosa direbbero? E i nostalgici? E le vestali della Resistenza?
Il sindaco Frassineti, seduto nel suo studio a Palazzo Varano, dietro la grande scrivania in rovere che arriva dalla Rocca delle Caminate, il castello sulla collina di Predappio che fu residenza estiva di Benito Mussolini negli anni Trenta («quando arrivava Lui, accendevano un faro con il fascio tricolore che aveva 60 chilometri di raggio, illuminava mezza Romagna…»), una risposta ce l’ha. È la storia che ci racconta: «Questo palazzo fu la seconda casa dei Mussolini, si trasferirono qui perché l’edificio ospitava, al primo piano, la scuola dove insegnava la mamma, Rosa Maltoni. Il mio ufficio è la stanza dove dormiva il piccolo Benito. Proprio lì, dov’è seduto lei. È comodo?».
Fare il sindaco è già difficile. Fare il sindaco di Predappio, ancora di più. Fare il sindaco di sinistra a Predappio, dev’essere scomodissimo. Il primo del dopoguerra, un comunista, si chiamava Partisani, e di nome faceva Benito… «Se nel Ventennio Predappio fu la “meta ideale” di ogni italiano, “la Galilea di tutti noi” come diceva Starace, quando si spostavano addirittura le fonti del Tevere perché tutto nascesse qui, dopo il ‘45, sulla città cadde la damnatio memoriae. Nessuno ci venne più. Solo silenzio e disonore». Fino al 1957, quando divenne presidente del Consiglio Adele Zoli, «un democristiano bacchettone, non proprio bellissimo, e infatti lo chiamavano Odone… Però era di Predappio, unica città d’Italia, finora, che ha dato i natali a due premier, neppure Roma… Comunque, Zoli fece quello che nessuno aveva osato prima. Riportò qui, da Cerro Maggiore, su un’auto americana, in una cassa di sapone, la salma di Mussolini. Fu un gesto di pietà cristiana, e di saggezza politica. Anche Montanelli e Biagi scrissero che era giusto così…». Bisognava liberare lo Stato da un cadavere in esilio che lo teneva in ostaggio da anni. E da quel momento tutto cambiò. «Quel giorno nel cimitero di Predappio, sulla tomba di famiglia dei Mussolini, il libro delle firme, primo di una lunga serie, raccolse 400 nomi». Iniziava il pellegrinaggio della memoria. «Per lungo tempo fu un pellegrinaggio silenzioso. Poi nel 1983, il giorno del centenario della nascita del Duce, 29 luglio, arrivarono venti-trentamila persone, chi lo sa? Polizia schierata, il sindaco – ancora del Pci – che temeva gli scontri, tensioni. Ma non accadde nulla… Veniva sdoganata la fascisteria nostalgica. Fino a quando, nel 1994, per la prima volta l’amministrazione comunale, Pds, concede l’autorizzazione ad aprire tre negozi di souvenir…». Paccottiglia, che prima veniva venduta sottobanco: busti, fasci, vino del Camerata… «Fu un errore: da allora Mussolini viene gestito da un gruppo di commercianti invece che dalla comunità». L’ha detto tante volte il sindaco Frassineti: «Raduni e fascisteria sono i nemici di Predappio. Non ci permettono di pensare al futuro, ci relegano al passato, fuori dalla storia. Bisogna ribaltare tutto: non celebrare il Duce degli italiani, ma capire il fascismo e Mussolini». E cosa meglio di un grande museo?
Intanto, per preparare la strada, che sarà lunga, costosa e scivolosa, il sindaco ha tracciato il solco. Con una decisione storica, pochi mesi fa, ha aperto la Casa natale di Mussolini, il «vecchio» casone sopra l’esedra del mercato – da sempre meta di pellegrinaggio, insieme alla cripta nel cimitero in fondo al paese – per ospitare una mostra su Il giovane Mussolini: lettere, cartoline, fotografie, giornali, ritratti che raccontano gli anni dell’adolescenza e la formazione politica dell’Uomo nuovo venuto dalla Terra del nulla… La mostra, per nulla celebrativa, con un comitato scientifico composto da storici di sinistra, è aperta solo nel weekend e stacca un centinaio di biglietti al giorno. Nessun neofascista, tutta gente normale.
Fa impressione, arrivando davanti alla vecchia casa del fabbro, incrociare gli occhi di un giovane Benito Mussolini, baffi e finanziera, nella gigantografia 6 metri per 6 che campeggia sulla facciata. Eppure, anche se una cosa del genere era impensabile fino a pochi anni fa, in una Predappio che certe cose preferisce non vederle, o che sopporta con fastidio, non c’è stata la minima polemica. «A riprova che la mostra è stata fatta con attenzione – è la spiegazione che si dà con orgoglio Franco Moschi, che ha concesso il materiale esposto, 200 “pezzi” su una collezione personale di oltre 35mila, probabilmente la più grande esistente sul fascismo -. Niente di politico o di politicizzato, perché non c’è niente da negare o da celebrare. Solo capire le radici di una vita che ha segnato il Novecento».
Predappiese («Ma per anni ho detto che ero di Forlì…, essere di qui non è facile, mi creda»), 53 anni, imparentato alla lontana coi Mussolini («Il mio bisnonno e Benito erano cognati, Romano è stato per me un secondo padre e Donna Rachele mi regalò i primi libri…»), Franco Moschi conosce bene il fascismo, e ancora meglio Predappio. «Non abbiamo bisogno di elmetti e gagliardetti. Ma di mostre e di studi».
In Italia si contano circa 55 Istituti storici della Resistenza. Molte le mostre e le manifestazioni per ricordare ciò che accadde alla «fine» o «dopo» il Ventennio. Nulla su ciò che fu «all’inizio» o «durante».
Predappio, dove tutto cominciò, centotrent’anni fa, sarebbe perfetta per la prima museificazione del Fascismo. C’è una splendida Casa del Fascio da recuperare, un sindaco di sinistra che ci crede, una città che vuole uscire dal silenzio e abbattere i sensi di colpa. Ben più resistenti, purtroppo, dei fasci littori di marmo.
Fonte: Il Giornale, 19 aprile 2014

…….Non è ancora ciò che è giusto che sia a oltre 70 anni dalla fine del fascismo e dalla morte del suo fondatore, cioè una riscritura oggettiva, scevra da rancori e odi, giustizialismo e aprioristiche condanne, di ciò che fu il fascismo e il suo fondatore, ma questa idea di un sindaco postcomunista di un Museo del fascismo,  nel luogo dove nacque Mussolini, e che durante il ventennio fu eretto a simbolo del regime e nel dopoguerra a  luogo di adunate nostalgiche,   sembra essere stata partorita dalla fantasia dell’indimenticabile Giovanni Guareschi. Un post comunista che si incarica di riscrivere secondo verità la storia di un quarto di secolo della nostra storia è una notizia che segna, speriamo per sempre, la fine  del clima da  guerra civile che nonostante i 70 anni trascorsi,  per taluni è ancora in atto. g.

PERCHE’ FU GIUSTIZIATO IL FILOSOFO GIOVANNI GENTILE? A 70 ANNI DALLA MORTE UN LIBRO RIAPRE GLI INTERROGATIVI SULLA SUA MORTE.

Pubblicato il 16 aprile, 2014 in Cultura, Storia | No Comments »

gentile.JPGGiovanni Gentile, assassinato a Firenze il 15 aprile 1944, era stato Ministro della Pubblica Istruzione nel primo governo Mussolini, reca la sua “firma” la riforma della scuola  del 1923 che ha resistito per decenni, mal sostituita dalle altre riforme che si sono susseguite in questi ultimi anni. La sua uccisione destò scalpore e sdegno perchè benchè Gentiule avesse aderito alla RSI, se ne coniosceva la dirittura morale, l’alto senso dello Stato, la sua profonda dedizone alla causa della pacificazione nazionale mentre imperversava la guerra civile. Che sia stato ucciso dai comunisti è fuor di dubbio, resta un mistero il perchè. Un libro appena publicato riapre la questione e propone molti dubbi, provocando molti interrogativi. Lo ha recensito l’Occidentale con una nota di Daniela Coli che qui si riproduce.

La morte di Giovanni Gentile, ucciso  il 15 aprile 1944 a Firenze appena arrivato  a casa, a Villa Montalto, alle pendici di Fiesole, è uno dei grandi delitti italiani irrisolti, come quello di Moro, perché si sa chi ha sparato, un gappista, e che fu rivendicato dal Pci, ma rimangono  dubbi sui mandanti, perché erano molti a volerlo morto per la sua campagna di pacificazione: Gentile non voleva che gli italiani si scannassero tra loro, come nella secolare storia della penisola, mentre due eserciti stranieri combattevano furiosamente sul suolo italiano per decidere il futuro dell’Italia.

I comunisti lo condannarono a morte nel marzo ’44 sulla “Nostra Lotta”, ma anche sulla Stampa – come ha ricordato Gennaro Malgieri in questi giorni – giornalisti solitamente non estremisti lo attaccavano sdegnati come alcuni intransigenti della Rsi. La Ghirlanda fiorentina, in uscita da Adelphi il 16 aprile, di Luciano Mecacci, autorevole psicologo dell’ateneo fiorentino, è un volume documentatissimo, che apre molte zone d’ombra del delitto Gentile e nuove piste su mandanti e complici. Con intelligenza e pazienza, Mecacci, usando il metodo delle costellazioni, ricostruisce reti di  interessi disparati – da quelli politici a quelli più banalmente accademici – che con strategie diverse avevano in comune l’obiettivo della morte dell’ultimo grande filosofo accademico italiano.

Ritorna la pista britannica: dall’italianista scozzese John Purves, a Firenze nel ‘38 incaricato dai servizi segreti inglesi di raccogliere nomi e informazioni di uomini di cultura utilizzabili dall’intelligence britannica nell’imminente conflitto all’orizzonte, che dette appunto il titolo di Ghirlanda fiorentina alla lista dei nomi raccolti, a radio Cora, l’emittente azionista fiorentina in contatto con gli inglesi, a Bernard Berenson nella splendida villa di Settignano con ospite Igor Markevitch, ai servizi segreti britannici di radio Bari, fino  agli azionisti fiorentini, i quali per primi cercarono un killer per Gentile.

Ci sono poi gli accademici, il meglio dell’intellighenzia italiana del secondo Novecento, amici, allievi e collaboratori di Gentile: Cesarini Luporini, Eugenio Garin, Mario Manlio Rossi, Antonio Banfi,  Guido Calogero, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Concetto Marchesi e, sullo sfondo, l’inquietante Igor Markevitch, con un ruolo importante nella rivista fiorentina “Società”, a cui collaborano Ranuccio Bianchi Bandinelli, Romano Bilenchi e Luporini. In questo puzzle di doppi giochi e ipocrisie di ogni tipo, il filosofo marxista e senatore comunista Luporini rimane la figura più coerente e più umana, perché la sua appartenenza al Cnl e al Pci era nota a Gentile.

Dopo la pubblicazione de La Sentenza di Luciano Canfora, che riaprì il dibattito sul delitto Gentile, in una trasmissione radiofonica del 1989 in onore di Eugenio Garin, Luporini, ancora sconvolto per la morte di Gentile, rivela che “ci sono cose che forse ancora non si possono dire”. Attento ai dettagli, senza mai puntare il dito, in oltre cinquecento pagine Mecacci tenta di scoprire le cose che Luporini pensava non si potessero ancora dire nel 1989.

Mecacci ricostruisce il grande affresco della Firenze dell’aprile del ’44, quella di “Italia e civiltà”, fondata e diretta da Barna Occhini, genero di Giovanni Papini, con collaboratori come il giovanissimo Giovanni Spadolini, Ardengo Soffici e il giovane filosofo Raffaello Franchini, che accusò della morte di Gentile gli intellettuali del Cln e gli accademici, gli amici, gli allievi e i collaboratori di Gentile, quella dei professori di Lettere e filosofia, quella dei massoni, quella di Carità, quella dei tedeschi, quella dei gappisti, organizzati in una struttura piramidale, simile a quella delle Brigate rosse, quella dei partiti del Cln toscano.

Descrive vari salotti fiorentini, dove s’incontrano spie, artisti, future celebri ballerine, nobili, scrittori, intellettuali, accademici, massoni e perfino ufficiali tedeschi. Mecacci approfondisce un episodio finora ignorato dagli storici che si sono occupati di Gentile, ma che non sfuggì all’ineffabile Berenson: l’uccisione del segretario fidatissimo di Gentile, Brunetto Fanelli a Cercina, il 10 aprile, insieme a cinque giovani della zona. Una esecuzione inspiegabile, compiuta non si sa da chi – se  da tedeschi o italiani travestiti da tedeschi – perché Fanelli non era un attivista politico di alcun genere. Il cadavere di Fanelli e degli altri cinque furono nascosti e solo il 15 aprile Giovanni Gentile seppe della fine del suo segretario.

Le ore precedenti la morte Gentile le passò sconvolto dall’uccisione del suo segretario e preoccupato dalla scomparsa di documenti importanti affidati a Fanelli. Poiché il 18 aprile Gentile doveva recarsi a Gargnano a incontrare Mussolini, dove si sarebbe discusso dell’impiego dell’ingente eredità Feltrinelli lasciata all’Accademia d’Italia a Firenze, la strana uccisione di Fanelli, la casa messa sottosopra alla ricerca di qualcosa, e il materiale importante che il filosofo voleva recuperare, aprono l’autore alla nuova prospettiva che i colpi sparati a Gentile non siano stati per il suo passato, ma per il ruolo che avrebbe potuto avere in futuro.

E’ noto che Gentile fin dal 24 giugno del ’43, nel famoso discorso del Campidoglio, e sul Corriere della Sera alla fine del ‘43, dopo l’adesione alla Rsi, si era posto come obiettivo quello della pacificazione nazionale. Gentile voleva evitare qualsiasi guerra tra italiani e, per questo, in un’Italia divisa e occupata da angloamericani e tedeschi, invitava sia i partigiani sia i fascisti a non prendere le armi gli uni contro gli altri. Gentile non era un pacifista, né un filosofo con la testa tra le nuvole, era un realista politico e sapeva quanto sia importante per un popolo rimanere unito e dignitoso anche in caso di sconfitta.

Gentile fu il filosofo della nazione, al fascismo era arrivato attraverso la riflessione sul Risorgimento, era consapevole come l’unificazione italiana fosse stata un processo elitario e quanto fosse necessario farla diventare un valore di tutti. Il fascismo, come disse nel ’27, inaugurando l’Istituto nazionale di cultura fascista, consisteva per lui nel tentativo di unificare “una nazione di quaranta milioni di uomini; una nazione tra le più antiche del mondo, passate per tutte le esperienze, esperta in tutte le idee, logorata da tutte le ideologie e da tutte le tirannidi, e, almeno apparentemente, prona allo scetticismo e alla indisciplina”. Non aveva la testa tra le nuvole Gentile.

Aveva lavorato una vita, scritto tanto, per tentare di fare diventare l’Italia una nazione, e non voleva vederla spezzarsi nel sangue, alleata a due eserciti stranieri. Voleva evitare una guerra tra italiani e forse pensava a una soluzione per evitarla, forse ne avrebbe parlato a Mussolini, e per questo fu probabilmente ucciso. A settant’anni dalla morte di Gentile, ai tanti storici e filosofi accademici che anche negli ultimi anni hanno continuato a ripetere che Gentile doveva essere ammazzato, l’unica obiezione sensata pare il dubbio con cui Paolo Mauri conclude la recensione al libro di Mecacci su Repubblica: “Ma Gentile doveva essere giustiziato?”.

Dall’immediato dopoguerra a oggi su Gentile si sono accumulati tanti  grovigli politico-ideologici ed equivoci, e c’è una singolare alleanza tra filosofi, che, sulla scia del Garin del 1955, ritengono che dall’attualismo si potesse addirittura passare al comunismo, e storici per i quale Gentile, filosofo reazionario e fascista, doveva essere giustiziato. Il libro di Luciano Mecacci rappresenta, dunque, un contributo importante, per uscire dalla palude di grovigli e di equivoci diventati ormai insostenibili e riaprire la strada alla ricerca.  Fonte: L’occidentale della domenica, 15 aprile 2014

TROPPE CARICATURE SUL CASO CALABRESI, di Aldo Grasso

Pubblicato il 9 gennaio, 2014 in Politica, Storia | No Comments »

Emilio Solfrizzi è il commissario Calabresi in una scena della fiction Rai «Il commissario»Emilio Solfrizzi è il commissario Calabresi in una scena della fiction Rai «Il commissario»

Quando si affrontano certi temi bisogna avere il coraggio di assumersi alcune responsabilità, non bastano le buone intenzioni. La trilogia de «Gli anni spezzati» affronta fatti che grondano ancora sangue (la strage di Piazza Fontana, l’omicidio del commissario Calabresi, il terrorismo politico, gli intrighi di Stato…); ma raccontare i dieci anni «che hanno sconvolto l’Italia» significa innanzitutto prendersi una responsabilità storica (Raiuno, martedì, 21.10).

La Rai ha la forza di dire com’è morto Pinelli? Gli sceneggiatori, al di là dei libri a cui si ispirano, hanno l’autorevolezza per far luce su quelle tenebre? L’impressione, vedendo «Il commissario», è che gli sceneggiatori Graziano Diana, Stefano Marcocci e Domenico Tommasetti si siano limitati a mettere in fila i fatti di cronaca eludendo ogni risposta decisiva. Ma la responsabilità più grande che viene a mancare è quella della scrittura. A parte la scelta iniziale di far raccontare la storia a un giovane militare di leva romano, Claudio Boccia (Emanuele Bosi), assegnato alla caserma Cadorna, tutto il resto è insipienza narrativa.

Le figure del commissario Calabresi (Emilio Solfrizzi), di Giuseppe Pinelli (Paolo Calabresi), o quelle di Pietro Valpreda, Camilla Cederna, Giampaolo Pansa, Giangiacomo Feltrinelli spesso stingono in caricatura, anche visiva, non hanno alcuna profondità, né umana né storica. I dialoghi sono improbabili e, soprattutto, il materiale di repertorio, nella sua sfrontata secchezza, mette in serio imbarazzo i tentativi scenici di ricostruzione.
Come fossero due epoche differenti. Uno dei compiti principali della fiction del Servizio pubblico sarebbe quello di raccontare il nostro passato, avendo però la forza di esprimere una linea editoriale, qualcosa che faccia riflettere, distolga lo spettatore dall’indolenza espressiva. Qui si naviga fra la più astratta aridità dei luoghi comuni e il garbuglio dei buoni sentimenti.Il Corriere della Sera, 9 gennaio 2014