Il regista Mario Monicelli Mi era capitato spesso di definire Mario Monicelli, insieme con Luigi Comencini e Dino Risi, uno dei padri della Commedia all’italiana, pur verificando nella sua carriera anche delle svolte nel drammatico che me lo rivelavano altrettanto grande e altrettanto creativo (persino tra le pieghe di racconti ameni, dove il dramma si poteva intuire quasi soltanto tra le righe). Un giorno, parlandomi di Amici miei, mi aveva detto: «Cosa c’è di più tragico di un quartetto di vecchi che si mascherano da giovani perché hanno capito che sono arrivati all’anticamera della morte?». Ecco la tragicità che, anche solo in modo implicito, Monicelli aveva sempre saputo esprimere con incisività e decisione pur non partecipandovi in nessun modo perché, anche negli ultimi anni, nonostante il suo Montgomery di lana chiara, i pullover colorati e, spesso, la calottina in testa con fiocco, non si poteva certo dire che si mascherasse da giovane. Era giovane davvero e la sua euforia, i suoi slanci, la vivacità del suo carattere dedito spesso, da buon toscano, ai sarcasmi più taglienti, lo immergevano costantemente in un’atmosfera sciolta e disinvolta, vivida e allegra, contro la quale andavano a frantumarsi i molti anni che passavano; lasciandogli solo dei segni esteriori come i capelli bianchi che aumentavano specie nei periodi in cui portava una barbetta corta quasi da moschettiere. Senza mai però che questa allegria, nella vita come nelle opere, sminuisse il tono serio che invece lo distingueva, non in contraddizione con se stesso e la sua attività, ma anzi con logiche precise. E questo addirittura fin dagli inizi, da quando, in sodalizio con Steno, aveva dato vita, appunto, al filone della Commedia all’italiana. Sembrava che ci fossero solo scherzi in quei suoi film con Totò, e poi con Fabrizi e con Sordi, e invece, pur tra un lazzo e l’altro, facevano già da allora, anche se molti non se ne accorgevano, critica attenta di costume. Con una serietà che, sempre più cosciente e matura, la si sarebbe poi trovata al centro di tutti i suoi «scherzi», compreso quello sui Picari, certamente diverso, per gusto, linguaggio e impostazione, da Totò cerca casa, dal delizioso Guardie e ladri, dal ghiottissimo Totò e Carolina, ma, a ben guardare sorretto dallo stesso impegno critico che quei film lontani anticipavano. Annunciando un autore che, conseguente con se stesso fin dal primo giorno – «la conseguenza è un difetto, lo so – mi disse una volta – ma io ce l’ho e me la tengo, tanto non fa male a nessuno» – non solo non si sarebbe più discostato da quella linea ma, anzi, con il passare degli anni, l’avrebbe via via sempre più approfondita. Con ricerche stilistiche all’insegna di un genere che dovevano poi in molti casi persino nobilitare. E non è stata «nobiltà», del resto, quel segno metà amaro metà gaio che dava forza ai Soliti ignoti, oggi considerato un classico, e che segnava, fra l’altro, proprio il momento della svolta della Commedia all’italiana verso la critica di costume? E non è stata nobiltà l’incontro dell’ironia con la storia – storia patria e storia sociale – nella Grande guerra e nei Compagni? La ricerca, qui, superava la cronaca, usciva dal quotidiano e, pur continuando a tenersi nella tradizione, si dava addirittura delle mete di osservazione dall’alto. Perché la critica diventasse saggio. Un saggio, nuovamente a livello di storia, ma questa volta tutta popolare, anche se implicitamente molto colta, che si era fatto poi avanti nell‘Armata Brancaleone e in Brancaleone alle crociate, con sapori e colori che si dovevano ritrovare più tardi, o con le stesse cifre, in Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, o in cifre diverse ma con intenzioni analoghe, nei due «atti» di Amici miei: la somma degli scherzi di Monicelli anche nel perpetuarsi più convinto del loro incontro con una critica che si fasciava a un certo momento di dolore. Come, e questa volta senza più scherzi, in film da importanti testi letterari, quali Caro Michele, tratto, con serietà e severità ispirate, dal romanzo omonimo di Natalia Ginzburg, o Un borghese piccolo, piccolo, dal romanzo di Vincenzo Cerami, o Viaggio con Anita, da una storia di Federico Fellini. Film, anzi «opere», da collocare oggi, all’ora dei bilanci, tra le pagine più serie di Monicelli regista. Non diverse da quelle sapientemente in equilibrio fra la comicità e la critica su cui si costruiva Speriamo che sia femmina, tra i suoi film più fervidi, una grande commedia che avrebbe potuto essere anche un bellissimo romanzo. Scritto, del resto, insieme con Monicelli, da alcuni fra i più prestigiosi scrittori del nostro cinema, da Tullio Pinelli a Suso Cecchi d’Amico, a Leo Benvenuti, a Piero De Bernardi. Una storia di donne.

Come a volte anche in Bergman, come a volte anche in Strindberg, ma con quel «tocco» alla Monicelli che, con estrema sapienza, riusciva a tenere insieme, senza contrasto, il dramma e la commedia, con nostalgie e tenerezze, beffe (anche beffe) e giochi sottili d’amore. Tutto secondo i toni più giusti, i tempi studiati e soppesati con cura, gli effetti dosati con misurata attenzione. Perché tutto avesse un senso e un sapore. E con una narrazione così stretta attorno ai protagonisti e ai loro casi che sembrava di esservi in mezzo e di parteciparvi, con logica così ferrea nel disegno di ogni personaggio e di ogni reazione che tutto, anche come ritmi emotivi e drammatici, ci sfilava sempre davanti con naturalezza estrema, senza un intoppo. Tanto ogni gesto, ogni replica, ogni movimento corrispondevano esattamente a quello che lì, in quel luogo e in quel momento, dovevano essere; senza possibilità di alternative diverse. Messi ancor più in evidenza da una regia che preferiva non imporsi, che dava spazio soprattutto al racconto e, nel racconto, ai singoli caratteri, badando ancora una volta a graduare i passaggi dal sorridente al dolente e, come segno d’autore, rivelandosi soprattutto quando sfumava, specie se la leggerezza del tocco, conciliandosi con la severità di una osservazione spesso nascosta, ma presente, si esercitava nella direzione degli attori. Esattamente come nei lontani film con Totò e poi con Sordi, Gassman, Montesano, Mastroianni, Tognazzi, oltre, naturalmente, in quella Ragazza con la pistola che doveva rivelarci Monica Vitti attrice comica. Una dote, quella della direzione degli attori, che Monicelli, se gliela si riconosceva, accettava, sorvolando però su quasi tutte le altre perché rifiutava programmaticamente ogni indulgenza per l’effetto. «Man mano che vado avanti, infatti – tenne una volta a dichiararmi – io alla regia, nel senso della macchina da presa, credo sempre di meno. La regia, in realtà, è solo la ricerca del personaggio, è lo studio di una certa atmosfera, è la piccola cosa che si fa fare a un attore, è un taglio al momento giusto. Cosa faceva ai suoi tempi Chaplin? Come regia «tecnica», nei film di Chaplin non c’è niente. Ed è così che deve essere, perché bisogna rappresentare le cose come sono, facendo in modo che appaiano le più semplici possibili. Con uno scopo solo: far vedere al pubblico tutto quello che serve per capire, senza mettersi in mezzo con le tecniche. Perché allora c’è il rischio che non veda più niente». La sua firma. In calce però a una galleria di personaggi – e di storie – di cui doveva essere diventato uno degli autori cinematografici italiani più rappresentativi della seconda metà del Novecento. E non c’era bisogno che nel ‘91, per dimostrarlo, gli dessimo il Leone d’oro alla Mostra di Venezia. Gian Luigi Rondi, Il Termpo, 30/11/2010