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ECCO L’EFFETTO MONTI: VA TUTTO PEGGIO, di Alessandro Sallusti

Pubblicato il 27 dicembre, 2011 in Politica | No Comments »

Il governo Monti ha già battuto un record: nella storia recente nessuno aveva fatto peggio. È vero, non si può mettere tutto sul conto del neoesecutivo, ma è indiscutibile che la sua ricetta non dia nessun segnale di poter funzionare e stia innescando un pesante effetto depressivo.

La manovra dei professori non ha portato nessun beneficio sul fronte della fiducia dei mercati internazionali (lo spread resta a livelli record). Tasse, terrorismo fiscale e mediatico («non ci sono più soldi per gli stipendi») hanno invece spaventato, provocando effetti che stanno andando oltre le reali necessità di tirare la cinghia. Risultato: tutti gli indicatori accelerano il trend negativo.

Dai regali ai generi alimentari fino agli incassi dei cinema, in questi giorni tutto è andato male. Una botta recessiva che pagheremo nei prossimi mesi, quando il rallentamento dei consumi provocherà ulteriori danni sui fronti dell’occupazione e della produzione.

La beffa è che l’unico segnale positivo è merito, postumo, del governo Berlusconi. L’Inps ha infatti annunciato che i provvedimenti presi in materia di pensioni negli ultimi due anni stanno producendo un netto miglioramento dei conti. Alla faccia dei professoroni. Attenzione, non sarebbe la prima volta che governi tecnici, o simil tecnici, fanno guai molto più grossi di quelli provocati dalla litigiosità della politica. L’Italia di fatto ha smesso di crescere dalla manovra di Amato del 1992, un colpo di mano che impose tasse sulle case, balzelli sui consumi, una intrusione nei conti in banca. Da allora, neppure Bin Laden e l’attacco all’America riuscirono a spaventarci come il duo Monti-Passera. Era il 2001, scoppiarono le Torri Gemelle e saltò pure in aria la bolla della new economy che trascinò giù la Borsa. Eppure, si deduce dalle prime cifre sui consumi, quel Natale non andò peggio di quello che stiamo vivendo oggi.

Qualcuno adesso ci spiegherà che è meglio così, meglio un Paese dove la gente non corre a vedere il cinepanettone con De Sica, non spreca euro in regali futili, non si abbuffa in cenoni che fanno male al portafoglio e alla salute. La nuova regola è che dobbiamo soffrire, espiare, affidare la vita e il conto in banca ai professori di economia della Bocconi. Quelli, per intenderci, che non avevano previsto la crisi del 2007, che non si erano accorti che le banche di cui erano consulenti si erano riempite di titoli spazzatura rifilati a ignari risparmiatori. Berlusconi ieri ha detto: resto in pista, anche per il futuro. Per qualcuno sarà una minaccia, noi la prendiamo come una promessa, perché non vorremmo passare un altro Natale come questo. Alessandro Sallusti, Il Giornale 27 dicembre 2011

BUON NATALE E FELICE ANNO NUOVO DALLO STAFF DE IL TORITTESE

Pubblicato il 24 dicembre, 2011 in Costume | No Comments »

DI BUON NATALE E FELICE ANNO NUOVO

(nonostante Monti e e i suoi ministri che ci fanno rimpiangere quelli di prima)

ALTRO CHE SACRIFICI PER TUTTI: I MINISTRI TECNICI ORA SI FANNO LA “SUPERPENSIONE”

Pubblicato il 23 dicembre, 2011 in Politica | No Comments »

Nemmeno un euro. I tecnoministri che stanno salvando e tassando l’Italia hanno trovato ricette di tagli per tutti tranne che per loro stessi. Nessuna variazione alle norme in vigore sul compenso per i ministri tecnici è contenuta nel disegno di legge approvato ieri dal Senato.

Il governo Monti

Anzi, i padri dell’Italia che verrà si garantiscono per il periodo del loro mandato di governo dei supercontributi della pensione. Come? «Interpretando» una legge di ben trentuno anni fa, 1980, risalente alla notte dei tempi della prima Repubblica. E gravando sulle casse pubbliche, loro che dovrebbero alleggerirle.

È una «norma interpretativa» contenuta nel decreto salva Italia che comporterà la ricerca, anche se minima, di una «copertura finanziaria». Lo segnala perentoriamente la nota di lettura del servizio bilancio del Senato, il documento che analizza la manovra con la lente d’ingrandimento. Questa nuova disposizione sui contributi pensionistici dei ministri infatti propone, anche se «di limitato importo», nuovi «oneri», si legge, per lo Stato. Un paradosso se si pensa allo scopo che anima il governo in carica.

La contraddizione è nascosta in un comma piuttosto oscuro, burocraticamente involuto. Un pezzo di legge salva-Italia che sembra un arto a sé, un braccio separato dal corpo. Dopo un lungo elenco di tagli negli enti pubblici, improvvisamente, al punto 6 dell’articolo 23 compare quasi un appunto, un memento: si ricorda che i dipendenti della pubblica amministrazione chiamati a rivestire il ruolo di ministro o di sottosegretario entreranno in aspettativa per il periodo del mandato, ma continueranno a percepire la loro retribuzione invariata, a patto che non superi l’indennità parlamentare. Si fa quindi riferimento alla legge 146 del 1980, articolo 47. Il comma 6, all’apparenza così contorto, puzza di privilegi in questo tempi di vacche magre, ha protestato in aula il leghista Roberto Calderoli, e La Padania ieri ha dedicato tutta l’apertura del giornale ai «ministri che si sono salvati lo stipendio».

Salvatori dell’Italia ma anche difensori della propria busta paga. L’immunità da ministri è invariata, questa manovra non ha portato nessuno sforzo per tagliarla. E lo stipendio di prima rimane intatto, a patto che non superi l’indennità dei parlamentari (5.246,97), anche se i prof di Monti sono in aspettativa.

Ma non è questo l’aspetto sorprendente del piccolo comma annegato nella grande manovra salvifica. La normetta dice infatti che la legge dell’80 si interpreta in altro modo. C’è infatti una postilla, nel fatidico comma 6 articolo 23: per tutto il periodo del mandato, i tecnoministri continueranno a percepire i contributi ai fini della pensione, ma l’importo dello stipendio considerato non rispetterà il limite parlamentare, bensì sarà quello dell’ultima busta paga percepita da dipendente pubblico. Se per esempio uno dei ministri ex superdirigente statale (e si pensi a Grilli della Banca d’Italia o a Profumo del Cnr) percepiva, poniamo, ventimila euro al mese, i contributi che l’azienda Stato continuerà a versare si riferiscono a quello stipendio, e non al tetto dell’indennità previsto dalla legge del 1980. Un inghippo ben nascosto nella manovra, ma che non è sfuggito al servizio bilancio del Senato, che scrive: «Pur tenendo conto del limitato importo degli oneri relativi al dispositivo in esame, va comunque sottolineato che la norma interpretativa, come confermato peraltro dalla relazione tecnica, permette comunque un’elevazione della base retributiva da considerare ai fini previdenziali rispetto alla franchigia massima ora fissata dall’articolo 47 della legge 146 1980».

Ricapitolando: i tecnoministri potranno scegliere, come è avvenuto fino ad adesso in base a una legge del governo D’Alema del’99 (e non per disposizioni di adesso) se guadagnare a fine mese l’indennità da ministro (3.746 euro lordi) più quella del parlamentare (10.697 lordi), oppure, se dipendenti pubblici in aspettativa, quella da ministro più uno stipendio pari a quello che avevano prima, purché non superi l’indennità parlamentare.

Ma i ministri di Monti avranno soprattutto, ed è questa la novità, favolosi contributi assicurati durante il mandato con l’interpretazione della legge dell’80. Non si sono quindi tagliati nulla ma si sono aggiunti qualcosa. La scorsa estate Tremonti aveva aperto il dibattito: i ministri non abbiano due indennità, ma ne prendano soltanto una. Ora il caso è chiuso, con più costi per lo Stato.Emanuela Fontana, Il Giornale, 23 dicembre 2011

…………….Non ci erano simpatici i siper ministri e ne abbiamo deplorato senza mezze misure la nomina. Ora prendiamo atto, se quanto certifica l’articolo che riprendiamo dalla stampa corrisponde al vero,  che sono dei veri e propri manigoldi in guanti bianchi: rapinano i pensionati negando loro la modesta indicizzazione della loro pensione e per loro si tengono sino all’ultimo euro. Complimenti, Re Giorgio 1°: ieri l’altro ha dichiarato che in tempoi di magra anche i poveri devono fare la loro parte, cioè devono mettere la spalla…e gli altri, i ricchi e potenti manager della spesa pubblica quando devono fare la loro  di parte? E’ proprio vero, siamo in pieno regime sovietico dove la plebe crepava di freddo e di fame e la burocrazia del partito comunista pasteggiava a champagne. Ma prima o poi arriverà…Baffone! g.

SCANDALO SANITA’ IN PUGLIA: ECCO IL CODICE VENDOLA

Pubblicato il 22 dicembre, 2011 in Giustizia, Il territorio, Politica | No Comments »

dal nostro inviato a Lecce

Il devastante interrogatorio dell’ex manager Asl di Bari Lea Cosentino, un tempo fedelissima di Nichi Vendola, si arricchisce di nuovi, incredibili, dettagli.

l’AFFABULATORE NIKI VENDOLA

Nel verbale incentrato sulla mala gestione della sanità pugliese da parte del governatore e dei suoi assessori, interrogatorio (pubblicato in parte ieri) rimasto a lungo coperto da omissis e inviato per conoscenza a Lecce per i riferimenti ad alcuni magistrati, la Cosentino non si risparmia quando è chiamata a snocciolare esempi sulle pressioni ricevute per promuovere medici o dirigenti targati Pd o Sel. Per avere un’idea di come Vendola e compagni di giunta concepiscano la sanità pubblica, basta riportare un altro stralcio di questo interrogatorio top secret dell’ 8 aprile scorso. Nomi, fatti, circostanze oggetto di indagini approfondite che rischiano di travolgere l’uomo nuovo della politica che a casa sua aveva aperto le braccia anche al tanto vituperato Don Verzé.

«L’assessore (alla Sanità, ndr ) Fiore – dice la Cosentino – mi contestava il fatto che io non espletassi il concorso per la nomina del primario di rianimazione di Altamura, ma io sapevo che avrebbe vinto il dottor Milella perché uomo di fiducia del professor Fiore. Subii pressioni a cui comunque non cedetti non ritenendo di dover espletare con urgenza questo concorso. Un’altra pressione riguarda la nomina di primario per l’unità operativa complessa di chirurgia toracica del presidio ospedaliero San Paolo. Nel 2008 era andato in pensione il professor Campagnano, molto bravo e infatti quel presidio andava molto bene. Bandimmo il concorso e Vendola mi chiese di procedere velocemente e sponsorizzò la nomina del dottor Sardelli del policlinico di Foggia, suo amico e secondo lui molto bravo: espletai il concorso ma il dottor Sardelli non presentò la domanda confidando di poter essere collocato presso il Di Venere in un istituenda unità complessa.

Quando Sardelli appurò tramite Francesco Manna, già capo di gabinetto di Vendola, che l’istituzione dell’unità di chirurgia complessa del Di Venere non si sarebbe realizzata, Vendola mi chiese insistentemente di riaprire il concorso per consentire al dottor Sardelli di parteciparvi. Io, a fronte di tali richieste e nonostante fosse stata già composta la commissione che non si era ancora riunita, riaprii i termini del concorso, anche se non ero d’accordo, con la scusa di consentire il massimo accesso a tutte le professionalità. Era chiaramente una forzatura ma Vendola mi disse di farlo perché mi avrebbe tutelata». Alla fine, coincidenza, per quella pressione e quell’intromissione di Vendola a cose fatte, «vinse il dottor Sardelli» anche perché più titolato.

A un’imposizione ne seguì un’altra. «Sardelli poi mi impose, attraverso Vendola, di fare una ristrutturazionedel reparto e di dotare il reparto stesso delle attrezzature idonee per la funzionalità dello stesso».
Quanto all’attuale senatore Pd Alberto Tedesco, all’epoca assessore alla Sanità, la manager confessa: «Riguardo alla nomina del professor Acquaviva vi è stata una forte pressione dell’assessore Tedesco sia sui tempi dell’espletamento del concorso sia sul nome dell’Acquaviva: quest’ultimo si era candidato in precedenza alle lezioni amministrative, non ricordo quali, nella lista del Tedesco, il quale sosteneva che Acquaviva fosse ilmigliore». La Cosentino passa poi a parlare del mondo affaristico interessato, attraverso la politica, ad allungare le mani sui milioni della sanità pubblica. Sul punto i magistrati contestano alla manager la famosa intercettazione all’Hotel De Russie di Roma presenti Gianpi Tarantini e l’imprenditore Alberto Intini, vicinissimo a Massimo D’Alema. I pm le chiedono se «ha mai sentito parlare Intini e Tarantini di ripartizione degli appalti »e se la cosa«la coglieva di sorpresa ».

Lea Cosentino, sorpresa non lo era affatto: «In quel periodo mi stavo rendendo conto che le cose che mi raccontavano Tarantini, Gero Grassi (parlamentare Pd, ndr) e Loizzo (ex assessore ai Trasporti, Pd, ndr) e cioè che vi erano delle consuetudini per cui il politico del territorio aveva degli imprenditori di riferimento e si facevano pressioni sulle gare di appalto, erano vere».Sull’incontro al De Russie, precisa, «fui invitata da Tarantini, sapevo che partecipava Intini, ho fatto da agente provocatore avendo avuto percezione nel corso della mia attività dell’esistenza di un sistema che prescindeva dalla mia volontà e che mi avrebbe potuto soverchiare.

Gianpaolo Tarantini mi aveva detto, infatti, in ciò rafforzando la mia percezione e le mie preoccupazioni, che l’appalto delle pulizie e sull’ausiliariato che aveva un valore di 55 milioni di euro circa era stato già oggetto di spartizione fra alcuni imprenditori ». Alla gara partecipò inizialmente anche un’Ati con Intini, poi escluso e che per rientrare «minacciava ricorsi» per altri torti subiti. Loizzo le disse che Intini era molto arrabbiato e «mi chiese di intervenire presso di lui, così lo incontrai al De Russie».

Il governatore tace imbarazzato. E per una volta non sbaglia visto che il suo ex assessore Tedesco (attuale senatore Pd) rischia di nuovo il carcere essendo stata avanzata richiesta d’arresto a Palazzo Madama e il suo ex numero due in giunta, il dalemiano Frisullo, coinvolto nel giro-escort di Tarantini, rischia il processo. Sulla sanità privata è prossima una «bomba » che nessuna fuga di notizie pro Pd, stavolta, potrà attenuare. È una torbida storia che si incrocia anche con gli inciuci da 50 milioni di euro all’ospedale Miulli di Acquaviva. Sta per essere raccontata dalla magistratura. Occorre solo trovare un Narratore. Gian Marco Chiocci, per Il Giornale, 22 dicembre 2011

.………..Per molto meno il pm napoletano, ex potentino, Woodwock avrebbe già emesso mandato di cattura e trasferito il reprobo in una auto 500 a qualche sperduto carcere del pianeta, ristretto con una ventina di detenuti (che goduria!) in attesa di interrogatorio di garanzia. Ma questo è solo un sogno per cui non c’è reato, almeno sino a quando i solerti magistrati italiani non avranno motu propri trasformato il sogno in delitto. g.

UN FORUM TRA I PARTITI E L’ESECUTIVO, di Mario Sechi

Pubblicato il 22 dicembre, 2011 in Politica | No Comments »

L'ex premier Silvio Berlusconi (s) con il neo presidente del Consiglio Mario Monti (di spalle) Breve ripassino delle puntate precedenti. Corriere della Sera, 18 dicembre, il ministro Elsa Fornero parla di riforma del lavoro e articolo 18: «Non ci sono totem e quindi invito i sindacati a fare discussioni intellettualmente oneste e aperte». Viene giù il diluvio. Il Pd va in mille pezzi, Bersani fa il restauratore di mosaici, il governo si accartoccia, il sindacato spara a raffica. Patatrac politico. Passano tre giorni e tre notti. Ansa, 21 dicembre, il ministro Fornero continua a parlare e a Porta a Porta chiosa: «Vogliamo lasciarlo stare questo articolo 18?». Non voglio infierire, è Natale e siamo tutti più buoni. Ma se qualcuno voleva un esempio sul come non si gestisce una partita politica di questa importanza e sul come la comunicazione del governo Monti sia inadeguata, ecco il pasticcio. Era chiaro fin dall’inizio che parlare di riforma dell’articolo 18 avrebbe provocato un terremoto. Era lampante che non ci sarebbe stato margine di manovra con la Cgil. Era sotto gli occhi di tutti che il Pd non avrebbe retto al richiamo della foresta. E mentre si consumava l’ennesimo psicodramma a sinistra, Berlusconi riacquistava l’abito di regista della crisi. Il pranzo con Monti ha certificato che senza il Cav non si va da nessuna parte. Non c’è partita senza i voti del Pdl, ma soprattutto senza il suo leader. È questa la verità della giornata politica, il resto è chiacchiera e baruffa di Palazzo. La transizione si fa con Berlusconi e non contro di lui. Si concorda con il Pdl e non senza. La rotta è sicura solo se c’è un disegno condiviso e non una mappa dove si tracciano i punti e poi si comunica alla ciurma parlamentare che si rema verso un dove sconosciuto. Credo che in questi giorni l’esecutivo abbia capito che con il Parlamento non c’è da scherzare. Un esecutivo d’emergenza, figlio di uno «stato d’eccezione», ha poteri straordinari, ma nello stesso tempo è fragile perché privo della fonte di legittimazione sovrana: il voto del popolo. Proprio per questo a Palazzo Chigi dovrebbero imparare a memoria la lezione: a Montecitorio e Palazzo Madama bisogna andarci con le idee chiare, bisogna presentarsi solo dopo aver mandato avanti gli sherpa per capire com’è il terreno, vedere se il sentiero è spianato o pieno di trappole. Se Giarda va in aula e la Lega comincia a usare i fischietti, siamo non solo nel campo del rumorismo, ma del filibustering e allora il governo deve avere una strategia per combatterlo, aggirarlo e andare avanti. Un governo sostenuto dai partiti ma senza partiti ha bisogno per forza di un «gabinetto di guerra» per affrontare un simile fuoco di sbarramento. È evidente che di questo passo non si va lontano. Servono un forum di consultazione permanente tra Palazzo Chigi e i partiti e un piano di lavoro che tenga conto anche delle Camere. Ribadisco il concetto: bisogna tenere impegnato il Parlamento. Dargli una missione. Berlusconi ha fatto bene a dire che bisogna usare quel che resta della legislatura per avviare le riforme. A questo serve il Parlamento. Se un onorevole vaga senza meta, perde il suo ruolo (di maggioranza e opposizione) e dopo essersi smarrito cerca un giochino nuovo per non morire di noia. Quale? Il ribaltone del governo votato dai ribaltonati consenzienti. Un’altra meraviglia italiana.  Mario Sechi, Il Tempo, 22 dicembre 2011

.……….Questo editoriale di Sechi è la fotografia del marasma in cui versa la politica italiana e nella quale l’ha gettata il re Giorgio 1° che ancora ieri concionava sulla bontà dell’operazione militare che ha costretto il Parlamento a darsi un governo non eletto dal popolo e che non ha alcuna forza autonoma per assumere decisioni. Il governo, dice Sechi, deve tener conto del Parlamento, ma questo avviene quando il governo è espressione del Parlamento, non quando, come nel caso del governo Monti, il Parlamento se l’è ritrovato suo malgrado. E specie se questo governo naviga in piena confusione. Lo dimostra la povera ministro Fornero che ieri sera a Porta a Porta è apparsa in tutta la sua assoluta inutilità. Dopo aver dichiarato che l’art. 18 non è un totem, ieri sera da Vespa, tra un sorrisino e l’altro, si è rimangiato tutto, anzi, come una casalinga (con tutto il rispetto per le casalinghe) nel salotto di casa a ciarlare con le amiche,  ha detto: ritiro tutto, facciamo finta che non ho detto niente… e subito dopo lasciandosi andare a raccontare il sogno affidato ad un giornalista straniero: se avesse la bacchetta magica, cosa farebbe? E lei, giuliva, ha risposto: darei il lavoro ai giovani. Insomma, manco fossimo nelle soap opere televisive.  E questi sarebbero i super tecnici, alias i superuomini (o supere donne) che dovrebbero salvare l’Italia. Andiamo, re Giorgio, questi non riuscirebbero neppure a gonfiare un palloncino, altro che salvare l’Italia. g.

IL VOTO ANTI-SPREAD, di Alessandro Sallusti

Pubblicato il 21 dicembre, 2011 in Politica | No Comments »

Il presidente Napolitano ieri ha detto molto, ma non tutto. Ha raccontato come è andata, dal suo punto di vista, con il governo Monti. In sintesi: una scelta inevitabile che non ha provocato alcuna sospensione della democrazia.

Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano

Il capo dello Stato ha ricostruito le ultime drammatiche settimane: la crisi, lo spread, le pressioni internazionali, gli inciampi della maggioranza. Tutto vero, per carità. Ma non è detto che una somma di verità porti a disegnare un quadro vero. Il governo Monti, e questo Napolitano non lo ha detto,non nasce all’improvviso sull’onda di una emergenza.

È invece il punto di approdo di chi, per oltre tre anni, ha lavorato, giorno dopo giorno, per fare cadere Berlusconi e ribaltare il risultato elettorale senza passare per le urne. Lo stesso Monti, falliti tentativi per via politica (la scissione di Fini) e quelli giudiziari-mediatici, era stato allertato da tempo, e con lui i pezzi da novanta dell’attuale esecutivo.Non prendiamoci in giro. Non si lasciano banche, rettorati e relativi compensi dalla mattina alla sera per spirito di servizio. Per cui è vero che la democrazia non è stata sospesa, ma è certo che la democrazia è stata raggirata, presa in giro e beffata. Nella forma tutto è a posto, nella sostanza si è trattato di un piano diabolico orchestrato proprio dal Quirinale e andato in porto sulla debolezza generale del quadro politico.

Napolitano ha realizzato il suo sogno di ex comunista: liberarsi di Berlusconi, e ha trovato nella crisi un alleato più affidabile della sinistra.Al momento c’è riuscito, anche se con scarsi risultati. La Spagna ha preferito andare alle urne. Il nuovo governo ha presentato una manovra con molti tagli alla spesa e meno tasse. Da ieri, il suo spread, a differenza del nostro, è tornato a livello pre-crisi. Vuoi vedere che gli elettori ne sanno più dei banchieri? Alessandro Sallusti, Il Giornale, 21 dicembre 2011

LA LEZIONE SPAGNOLA: TAGLI, TANTI E NIENTE TASSE

Pubblicato il 20 dicembre, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

La strada giusta scelta da Madrid: no al governo tecnico e subito al voto. Poi una manovra che riduce le spese

Ieri il nuovo premier spagnolo, il popolare Mariano Rajoy, si è presentato in Parlamento e ha detto due cose fondamentali: non verranno aumentate le tasse e si procederà a tagli della spesa pubblica, salvando però il potere di acquisto dei pensionati.

Mariano Rajoy

Mariano Rajoy, il premier spagnolo eletto dopo Zapatero

Il tutto condito da un piano di riforme liberalizzatrici dell’economia iberica; partendo dai potenti (anche lì) enti locali e arrivando al mondo del lavoro. Una manovra fiscale comunque ci sarà: e si prevede vicina ai 20 miliardi di euro. Fatte le debite proporzioni, in termini relativi è doppia rispetto a quella pensata da Monti. Ovviamente il discorso programmatico di un nuovo leader si deve poi concretizzare nei fatti. Entro la fine dell’anno, Rajoy, terrà il suo primo consiglio dei ministri e a quel punto capiremo nel dettaglio le mosse spagnole, e come dai principi si passerà alla pratica.

Cosa insegna all’Italia il caso spagnolo? Fondamentalmente tre cose. Le elezioni anche in tempi di crisi se danno una maggioranza forte e pienamente legittimata forniscono al nuovo governo una spinta riformista. L’idea che votare, durante una tempesta finanziaria, sia una sciagura è falso. Ci sono però due controindicazioni da prendere in considerazione: la prima è che il rigore dei conti si tiene meno bene a ridosso delle elezioni, la seconda è che le elezioni, soprattutto in Italia, non assicurano una maggioranza certa. Con altrettanta freddezza si deve però certificare che l’arrivo del governo Monti non ha migliorato i nostri differenziali e che la cosiddetta «credibilità internazionale» si vede più nelle foto e nei titoli dei giornali che nelle quotazioni dei mercati.

Il lato su cui aggredire la crisi del debito è quello della spesa. Non si devono ridurre, per quanto possibile, i quattrini nelle tasche dei cittadini attraverso nuove forme di tassazione o manovre estemporanee di cassa. Ovviamente non sta scritto da nessuna parte che la ricetta di Rajoy funzioni, ma noi riteniamo che sia la strada più giusta per la nostra politica economica.

Vediamo di essere più espliciti.
Proprio ieri i funzionari di Senato e Camera hanno certificato ciò che i giornalisti del Giornale vi hanno sempre detto: l’85 per cento del decreto salva Italia (è così berlusconiano e così poco tecnico questo appellativo!) è fatto di nuove entrate. E per il resto gran parte è affidata al congelamento dell’indicizzazione delle pensioni (che i popolari spagnoli hanno esplicitamente escluso). Insomma come l’acqua e il fuoco. Il governo tecnico fa esattamente il contrario di un governo politico. Sarebbe sciocco e preconcetto buttare a mare tutta la manovra di Monti. Il doppio passo di Elsa Fornero, di mettere a regime, bruscamente, le riforme delle pensioni fatte nel passato e provare a mettere mano al mercato del lavoro è cosa buona e giusta. E coraggiosa. Questa è materia che Berlusconi avrebbe dovuto fare senza indugio, portando piuttosto lo scontro fino alla sfiducia parlamentare (per la verità è ciò avvenne nel 1994). La strada è appunto questa: di riforma complessiva. Sembra invece, passateci il termine, che il governo invece di andare alla meta per conquistare il premio da un milione si fermi ad ogni passo per raccogliere cinque euro.

L’idea che ci siamo fatti è che la tipicità dell’emergenza italiana, che ovviamente esiste, sia largamente sopravvalutata, come la morte di quell’anziano signore. E in virtù di ciò ci si approfitta di raccogliere anche gli spiccioli nel mezzo del percorso. Bene la riforma delle pensioni; ma che senso ha tagliare il reddito disponibile dei pensionati con il trucchetto del blocco delle indicizzazioni? Se il sistema non è sostenibile si abbia il coraggio di adottare un taglio vero e strutturale e non un colpetto per fare cassa.

Discorso analogo sulle imposte. Veramente questo governo ritiene che sia possibile continuare con il processo di inseguimento della spesa pubblica attraverso l’aumento della tassazione? Tra pochi giorni le buste paga di tutti i dipendenti italiani (a giugno per gli autonomi) saranno gravate da un piccolo ma significativo conguaglio negativo per un’imposta aggiuntiva sul reddito che verrà prelevata con la dicitura addizionale regionale. Cosa è questa se non un innalzamento delle imposte su tutta la platea dei contribuenti e per di più con un meccanismo di scarsissima progressività?

Governare una Paese come il nostro è ovviamente molto complicato.

Farlo dopo un paio di settimane per dei maverik della politica lo è di più.

Se i nostri tecnici guardassero meglio al caso spagnolo (Paese che ha ovviamente delle differenze sostanziali rispetto all’Italia e ha un debito ben più gestibile) potrebbero abbandonare il loro pensiero unico: che è quello delle manovre depressive degli ultimi venti anni. Attendiamo la fase due, quella delle riforme e dello sviluppo. Nicola Porro, Il Giornale 20 dicembre 2011

……………….Se fosse stato il contrario, cioè che Zapatero avesse preso il posto di Rayoy, la sinistra italiana l’avrebbe preso ad esempio per pretendere le elezioni, come è giusto che sia in un paese democratico. Invece no. In Italia, tuti insieme appassionatamente da destra a sinistra,  si è preferito il governo dei tecnici, veri e propri commissari della democrazia parlamentare,  che ci hanno subissato di tasse senza fare nè tagli nè provvedimenti per la ripresa della crescita. E nion ci hanno risparmiato neppure nè le lacrime della Fornero nè le sue incredibnili affermazionmi di ieri: bisogna alzare i salari. Ma come, la signora Fornero non è la ministra del lavoro che ha bloccato i salari e addirittura bloccato la indicizzaizone delle pensioni? Ed ora scopre che i salari sono bassi, e quindi  sa  anche che le pensioni di 400 euro non consentno ai pensionati più poveri neppure di vivere. Eppure ha varato insieme al suo capataz la più forsennata operazione tassaiola di tutti i tempi. Qualcosa non va. O siamo da internare noi, o da internare è…indovina chi? g.

I RIMBORSI FACILI AI PARTITI: SPENDONO 10, INCASSANO 100

Pubblicato il 19 dicembre, 2011 in Politica | No Comments »

Ma non dovevamo vederci più? Vi ricordate il finanziamento pubblico ai partiti? Non l’avevamo impacchettato e spedito nella soffitta del non ritorno, grazie al provvidenziale referendum del 1993 col quale, oltre il 90 per cento degli italiani, che andarono alle urne, decise di abolirlo?

Andò così, certo, fu abolito. Per poi rientrare di soppiatto dalla porta secondaria, nel grande edificio degli sprechi di Stato. Sotto una spudoratissima forma: una legge, approvata, subito dopo il referendum, che concedeva ai partiti politici un «contributo per le spese elettorali». Una legge, immediatamente applicata in occasione delle elezioni del 27 e 28 marzo 1994, dal meccanismo perverso quanto redditizio. Certificato, anzi, denunciato dalla stessa Corte dei Conti.

Seguiteci lungo questa assurda strada dello spreco dissennato e intanto pensate alle pensioni tagliate, all’Ici, al superbollo che dovremo pagare e che porteranno un’inezia di quattrini alla finanza pubblica rispetto a quanto si potrebbe incassare se si avesse il coraggio davvero di dare un taglio a questo escamotage nato solo per sottrarre denaro agli italiani. Con il provvedimento che stabilisce i rimborsi elettorali, attraverso il quale i partiti si finanziano, la legge attribuisce, e questa è la prima macroscopica assurdità, un valore economico ad ogni voto e ripaga i partiti moltiplicando questo valore per il numero dei voti ottenuti alle elezioni. Così basta sfogliare il rapporto della Corte dei Conti per cogliere chiaramente l’enorme differenza tra spese sostenute e rimborso percepito. Di fatto il rimborso viene calcolato sulla percentuale dei consensi che ogni partito ottiene, ma questa percentuale viene automaticamente proiettata sul numero degli elettori, e non su quello, reale, dei votanti effettivi. In questo modo i partiti riescono a riscuotere il rimborso anche per voti che non hanno ottenuto: per le schede bianche, per quelle nulle e addirittura per coloro che a votare non ci sono andati per niente.

Che ve ne pare? C’è di più, se la legislatura finisce prima del tempo i partiti continuano comunque a ricevere le rate del rimborso, sommandole a quelle della legislatura successiva. Ma più delle parole in questo caso contano le cifre: nell’anno 2008 i partiti politici hanno avuto diritto ad incassare: 99,9 milioni di euro per la terza rata del contributo pubblico per le elezioni politiche del 2006; 100,6 milioni per la prima rata del contributo per le elezioni politiche del 2008; 41,6 milioni per la quarta rata del contributo per le elezioni regionali del 2005; 49,4 milioni per la quinta rata del contributo per le elezioni europee del 2004. In totale 291,5 milioni di euro nel solo anno 2008.

E continuiamo con altre assurdità nell’assurdità: dal 2008 il partito Rifondazione Comunista non è presente in Parlamento ma ha continuato ad incassare (fino al 2010) la sua quota del «rimborso» delle elezioni del 9 e 10 aprile 2006, quando aveva battuto tutti i record: le spese complessivamente accertate dalla Corte dei Conti erano state di un milione e 636mila euro e i voti ottenuti gli avevano dato il diritto di ricevere dalla pubblica amministrazione 6 milioni e 987mila euro all’anno per cinque anni. In totale 34 milioni 932mila euro (fonte: Corte dei Conti, relazione sulle elezioni politiche del 9 e 10 aprile 2006, pagina 269). Quindi, fatti due conti: 100 euro investiti da Rifondazione Comunista nella campagna elettorale del 2006 sono diventati 2.135 euro.

Restiamo alle elezioni del 2008. Le spese certificate dalla Corte dei Conti della Lega Nord sono state 2 milioni e 940mila euro e i voti ottenuti gli hanno dato il diritto di ricevere dalla pubblica amministrazione un «rimborso» di 8 milioni e 277mila euro all’anno per cinque anni. In totale 41 milioni 385mila euro. Dunque al Carroccio per ogni 100 euro spesi ne sono stati «rimborsati» complessivamente 1.408. Questo per le elezioni del 2008, che si sommano ai «rimborsi» relativi alle elezioni del 2006. Per quanto riguarda Pdl e Pd, la Corte dei Conti ha certificato che per le elezioni del 2008 il primo ha speso 54 milioni e ne incasserà 206 (il «rimborso» è stato uguale al 381 per cento della spesa) mentre il secondo, dopo averne speso 18, ne incasserà 180 (il «rimborso» rappresenta il 1.000 per cento della spesa).

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Se è vero come è vero che la Corte dei Conti ha scritto che «quello che viene normativamente definito contributo per il rimborso delle spese elettorali è, in realtà, un vero e proprio finanziamento» è anche vero che la stessa Corte dei Conti ha ricostruito la storia di questi «rimborsi»: dopo il referendum del 1993 si sono svolte cinque elezioni politiche, tre europee e tre regionali. Per queste elezioni i partiti politici hanno speso in totale 579 milioni di euro e hanno incassato, come «rimborsi» delle loro spese elettorali, 2.254 milioni di euro. Questi numeri non includono ancora i «rimborsi» per le Europee del 2009 e per le Regionali del 2010.

Giusto per capire ancora meglio questo clamoroso regalo ai partiti e arrabbiarci un po’ di più, considerate che l’imposta sui capitali rientrati dall’estero, il famoso «scudo fiscale», nel 2009 ha dato un gettito di 5.013 milioni: dunque i rimborsi elettorali di questi anni sono costati agli italiani quasi la metà dello «scudo fiscale». Eppure oltre 31 milioni di italiani col referendum del 1993 scelsero di non dare più una lira ai partiti. Il Giornale, 19 dicembre 2011

.…………….Perchè il governo dei supertecnici non propone un decreto legge con cui si modifica questa ignobile speculaziobne dei aprtiti sui soldi degli italiani? Decreto-legge per mettere subito alla prova tutti, l’eterogenea maggioraza che va dal PDL al PD passando per il Terzo Polo e l’altrettanto eterogena minoranza che va dalla Lega all’IDV di Di Pietro. Lo faccia Monti se ha coraggio, sta lì per salvare l’Italia e per ridurre le spese e con le spese il debito pubblico. Lo faccia e vediamo chi ne vota e chi no la conversione in legge ! g.

LA MACCHINA STATALE COSTA TANTO E PRODUCE POCO, di Angelo Panebianco

Pubblicato il 18 dicembre, 2011 in Politica | No Comments »

Nel momento in cui si chiede che i conti bancari dei cittadini, e quindi le loro vite, risultino totalmente trasparenti agli occhi dello Stato, diventa lecito chiedersi se lo Stato sia poi altrettanto trasparente, nel suo operare, agli occhi dei cittadini. Basta chiederselo per capire subito che non è così: l’opacità, non la trasparenza, caratterizza la macchina amministrativa nelle sue operazioni quotidiane.

L’opacità è tale che persino i ministri ignorano tanto di quella macchina. Si vogliono fare le privatizzazioni? Si vuole tagliare in modo intelligente (ossia, selettivo) la spesa pubblica? Si vogliono eliminare i sussidi alle imprese? Per fare queste cose occorrono vitali informazioni, bisogna conoscere la «macchina» dall’interno. Ma nemmeno il governo possiede quelle informazioni. Deve, prima di tutto, procurarsele. Ed è una operazione lunga, costosa, difficile, e probabilmente destinata all’insuccesso. Come mai? Da cosa dipende quella opacità? Perché lo Stato è una giungla impenetrabile? Perché è costituito da regolamenti e pratiche così complesse e barocche che solo i vecchi squali della burocrazia, gli amministratori di lungo corso, possiedono le capacità per muoversi in un simile ambiente, così oscuro e ostile per chiunque altro?

I cittadini attribuiscono di solito ogni colpa di ciò che non va, delle disfunzioni quotidiane di cui hanno personale esperienza, alla classe politica. Non sanno che la classe politica è per lo più priva di cruciali risorse (dalle informazioni alla expertise amministrativa) e che altre istituzioni sono di fatto, quando si tratta dei meccanismi quotidiani di funzionamento dello Stato, molto più potenti. Si dice: «Il Parlamento è sovrano». Ma queste sono solo parole. L’alta burocrazia, i vertici delle strutture regionali, la Corte dei conti, il Consiglio di Stato, contano assai più del Parlamento, e di qualunque governo, nella gestione della macchina amministrativa. Basta che scelgano di non cooperare, di fare resistenza passiva, e la classe politica viene ridotta alla impotenza.

Il politico eletto, diceva il sociologo Max Weber, è di fronte all’amministratore di professione nella condizione del dilettante. Ma qui siamo andati molto più in là. Non è più solo una questione di dilettantismo contro professionismo. È questione di una macchina statale autoreferenziale, che dispone degli strumenti (a cominciare dal monopolio sulla interpretazione delle regole amministrative) necessari ai fini della propria difesa e riproduzione.

Si badi che non sono solo in gioco interessi (l’interesse degli amministratori o delle magistrature amministrative a garantire l’incontrollabilità del proprio operare da parte di chiunque: governo, Parlamento, pubblica opinione). Pesano anche le tradizioni culturali. C’è un’intera cultura giuridico-amministrativa, cui danno un contributo essenziale tanti giuristi amministrativisti, che è quotidianamente mobilitata a difesa del mantenimento della complessità del sistema e, quindi, della sua opacità.

Se vogliamo chiederci quale sia l’ostacolo principale al rilancio della crescita dobbiamo indirizzare la nostra attenzione sul peso morto rappresentato da una macchina amministrativa incompatibile con le esigenze di un Paese moderno. Nessuno sa, ad esempio, di quanto potrebbe scendere la pressione fiscale complessiva se quella macchina diventasse meno inefficiente e dispendiosa.

La complessità e il barocchismo delle regole e delle procedure amministrative hanno potentissimi effetti negativi sulla società circostante: generano inefficienza, garantiscono tempi lunghi e anche lunghissimi agli interventi dello Stato (si pensi al settore delle infrastrutture), innalzano spaventosamente i costi economici, alimentano una condizione di incertezza giuridica che rende imprevedibili i comportamenti, impedisce la diffusione di rapporti reciproci di fiducia fra cittadini e amministrazioni, e funziona da moltiplicatore delle dispute. Gli amministratori si difendono dicendo che è comunque la politica a dettare le linee guida dei provvedimenti. Il che è vero. Ma sono loro a confezionare, e poi a interpretare, con il loro esasperato formalismo, quei provvedimenti.

Per fare un esempio, apparentemente marginale, consiglierei al neo-ministro dell’Università, Francesco Profumo, che è anche un mio collega, di leggere con attenzione le norme da poco varate che regolano certi concorsi (per esempio, i concorsi da ricercatore). Scoprirà che il loro effetto principale è di fare prosperare l’industria dei ricorsi, di dare tanto lavoro agli avvocati e ai Tar. Sono certo che se, dopo avere letto quei regolamenti iper-barocchi, il ministro ne chiedesse conto a chi li ha messi a punto nei dettagli, si sentirebbe dire che quei regolamenti rispondono alla esigenza di garantire la «legalità» e la correttezza dei concorsi. Niente di più falso. Quelle norme nulla possono pro o contro la correttezza. La loro assurda complessità garantisce solo l’incertezza del diritto, l’opacità dei procedimenti, la moltiplicazione delle dispute. Non c’è quasi nessun ambito in cui operi l’Amministrazione che non abbia queste caratteristiche.

Se la certezza del diritto è un fondamentale bene pubblico, allora è sicuro che il nostro sistema giuridico-amministrativo è congegnato in modo da garantire la perpetua indisponibilità di quel bene. Con costi altissimi per la società e benefici (in termini di opacità del loro operato) per gli addetti alla gestione quotidiana della macchina statale. Magari, quei giuristi amministrativisti che lavorano come consulenti dell’Amministrazione centrale e periferica qualche franca spiegazione sul perché ciò accade potrebbero forse darcela.
Viviamo in tempi di antiparlamentarismo trionfante e il mio potrà sembrare un auspicio controcorrente. Ma trovo che i partiti, alla disperata ricerca di un ruolo nell’epoca del governo Monti, potrebbero rendere una grande servizio al Paese. Potrebbero, e dovrebbero, promuovere una commissione di inchiesta parlamentare con il compito di indagare sull’operato dell’Amministrazione (organi della giustizia amministrativa inclusi) e di segnalarne tutte le disfunzioni. Se non altro, per consentire una discussione pubblica sulle vere cause del nostro declino. Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera, 18 dicembre 2011

…..Analisi perfetta e nemmeno esaustiva del prof. Panebianco. Solo la conclusione ci preoccupa: la commissione parlamentare di cui auspica la promozione da parte dei partiti con il compito di indagare sull’operato della pubblica amministrazione e di segnalarne le disfunzioni,  si trasformerebbe presto in un altro carrozzone. Intanto non concluderebbe mai il suo lavoro e poi a sua volta macinerebbe tanti di quei soldi che si aggiungerebbero ai tanti altri sprechi tipici della pubblica amministrazione. Perciò, no, grazie. g.

E’MORTO VACLAV HAVEL, IL SIMBOLO DELLA RIVOLUZIONE DI VELLUTO CHE LIBERO’ PRAGA DAL GIOGO SOVIETICO

Pubblicato il 18 dicembre, 2011 in Il territorio, Storia | No Comments »

Morto Vaclav Havel, simbolo della Rivoluzione di Velluto

Simbolo della dissidenza anticomunista, difensore dei diritti dell’Uomo, presidente, drammaturgo e regista, Vaclav Havel, morto oggi a 75 anni, ha scritto le grandi pagine della storia del suo Paese. Artista non conformista e grande appassionato di musica rock dei Rolling Stones e di Frank Zappa, questo intellettuale, dalla figura esile, ha incarnato la “Rivoluzione di Velluto” del 1989 che ha messo fine, senza spargimento di sangue al regime totalitario di Praga. Primo presidente della Cecoslovacchia post-comunista (1989-1992) poi primo capo dello Stato della Repubblica Ceca, è stato l’artefice della democratizzazione del suo Paese e dell’adesione alla Nato (1999) e ha gettato le basi per l’ingresso nell’Unione europea, conclusa nel 2004. Dopo la fine del suo mandato, nel febbraio 2003, malgrado la sua fragile salute, il drammaturgo e ex dissidente anticomunista della Charta 77 si dedica alla lotta per i diritti dell’Uomo a Cuba, in Bielorussia, in Birmania e in Russia. Riprende a scrivere pubblicando nel 2006 le sue memorie politiche e una commedia per il teatro “Partire”, nel 2008, titolo anche del suo primo film, presentato in anteprima il 14 marzo scorso a Praga. Nato il 5 ottobre del 1936 a Praga da una famiglia benestante, proprietaria di studi cinematografici e di numerosi immobili nella capitale, Vaclav Havel è costretto a lasciare gli studi per la lotta antiborghese del regime comunista che aveva preso il potere in Cecoslovacchia. Allora comincia a lavorare nei teatri come macchinista, poi come autore del teatro dell’assurdo. Rifiuta l’esilio dopo l’occupazione sovietica nel 1968 ed entra nella dissidenza per redigere il manifesto della Charta 77, un appello per i diritti umani e per la democrazia con cui sfida la supremazia sovietica. Per il suo impegno sociale viene rinchiuso in carcere per quattro anni durante i quali scrive le celebri “Lettere a Olga”, sua prima moglie. E’ stato uno dei leader della cosiddetta “Rivoluzione di Velluto” del 1989, durante la quale viene arrestato nuovamente, il 28 ottobre. Il 29 dicembre dello stesso anno, nella sua qualità di capo del Forum Civico, viene eletto presidente dall’Assemblea Federale. Dopo la morte di Olga, nel 1996, si risposa con Dagmar Veskrnova, un’attrice di 20 anni più giovane. Una polmonite curata male in prigione e un cancro al polmone sono all’origine dei numerosi problemi di salute di cui soffriva l’ex presidente Ceco. Nel dicembre del 1996, Havel è stato operato di un cancro al polmone destro. Oltre ad avere una bronchite cronica, il drammaturgo ceco ha sofferto anche di problemi cardiaci e intestinali. Negli ultimi mesi, Havel ha trascorso il suo tempo nella casa di campagna a circa 150 chilometri da Praga, dopo un ricovero nel marzo 2011 per una grave polmonite. Sabato scorso l’ultima uscita pubblica a Praga dove ha incontrato il Dalai Lama, il capo spirituale dei buddisti tibetani. Fonte ANSA, 18 dicembre 2011

.…………..Havel era anche un valente clarinettista e gli piaceva suonare, da dilettante, in una delle più famose birrerie di Praga, la Tigre d’Oro, nei pressi della piazza Nemesti, piccola e piena di fumo. Entrandoci,  la prima cosa che noti è una grande foto sulla parete  che ritrae insieme Havel e Clinton che suonano il clarinetto. Chi ci vide ammirare la foto, in uno stentato italiano ci disse: Havel, padre della libertà. Ci piace ricordarlo così. g.