Archivi per gennaio, 2016

SHOAH, PERCHE’ RIFLETTERE E’ ANCORA NECESSARIO

Pubblicato il 27 gennaio, 2016 in Costume, Cultura, Politica | No Comments »

Ecco, dunque, il 27 gennaio, il «Giorno della memoria». Di nuovo celebrazioni, cerimonie, discorsi di circostanza, dove si ripetono luoghi comuni, mostre stantie, dove anche le immagini, un tempo vivide, sono condannate a divenire icone sbiadite. E tutto per un genocidio che risale a un passato ormai lontano, uno fra i tanti. Sì, perché le pagine della storia sono piene di tragedie analoghe – prima e, persino, dopo la Shoah. Come dimenticare il genocidio armeno, la bomba su Hiroshima, l’eccidio in Ruanda, i massacri in Bosnia? E perché non affrontare l’immane tragedia dei profughi? «Basta con questi ebrei che hanno preteso per anni di avere il monopolio del dolore!». «Basta con questi ebrei che hanno fatto di Auschwitz l’emblema del male assoluto!». «Basta con questi ebrei, il sedicente popolo “eletto” che rivendica una eccezionalità perfino dello sterminio». Come se «unico e incomparabile» fosse il crimine che hanno subìto. «Basta con questi ebrei che dall’Olocausto hanno tratto un redditizio business e ogni anno tornano a presentare il conto». «Basta con questi ebrei che vogliono essere le vittime per eccellenza, come se ci potesse essere una gerarchia, come se le morti non fossero sempre e ovunque uguali per tutti!».

Da anni infuria la polemica sul Giorno della memoria. Si stigmatizzano i cosiddetti «abusi». Si chiede di voltare pagina. Come se il passato non fosse indispensabile per guardare al futuro. È indubbio che la sindrome del «dovere della memoria» ha sortito effetti perversi. Così come è indubbio che, nei Paesi europei, implicati nello sterminio, la cultura, la politica e l’informazione hanno enormi responsabilità. I progetti didattici, che si limitano spesso ai «viaggi della memoria», mostrano tutti i loro limiti. Tra la ragionieristica del lager e l’emozione del momento non c’è spazio per la riflessione critica. Come spiegare altrimenti lo sconcertante aumento dell’odio verso gli ebrei? In Germania le cifre sono ormai da record. La maggior parte dei tedeschi vuole lasciarsi alla spalle Auschwitz e puntare liberamente l’indice contro Israele. L’Italia non è da meno. Ecco perché la polemica sul Giorno della memoria ha il sapore greve dell’antisemitismo, il gusto acre della cattiva coscienza. Non è difficile trovare ciò nel web, dove diffusa è anche la macabra competizione tra i genocidi.

A che cosa dovrebbe servire questa gara? A meno che lo scopo recondito non sia gettare discredito sugli ebrei. Ricordare è pensare. E della Shoah resta ancora molto su cui riflettere. Si deve parlare delle camere a gas, delle officine hitleriane, perché le morti sono tutte uguali – ma non lo sono i modi di morire. Non vogliamo che si ripeta né la fabbricazione dei cadaveri né, tanto meno, quell’esperimento del non-uomo, mai compiuto prima, in cui l’umanità stessa è stata messa in questione. Sebbene sia insopportabile, occorre ricordare quel che è accaduto, perché viviamo all’ombra di Auschwitz e, senza conoscere, si rischia di non ri-conoscere: l’odio per l’altro, il cripto-nazismo, l’antisemitismo. L’Europa non può sottrarsi. Tutto allora iniziò con le frontiere sbarrate ai profughi ebrei, chiuse a un intero popolo, che fu consegnato all’annientamento. Donatella Di Cesare, Il Corriere della Sera, 27 gennaio 2016

TANGENTOPOLI, FELTRI (Vittorio e padre) contro FELTRI (Mattia e figlio)

Pubblicato il 20 gennaio, 2016 in Il territorio | No Comments »

Mattia Feltri, figlio di Vittorio, ha scritto e pubblicato un libro-verità sulla vicenda di Tangentopoli il cui titolo, emblematico,  è “93″,  perchè è la storia di un anno, il 1992,  che travolse una intera classe dirigente accusata di ogni nefandezza. Mattia Feltri non la riabilita ma scava in profondità su quella vicenda tratteggiando i profili dei protagonisti e in qualche modo riequilibria colpe e ragioni di tutti. Il padre Vittorio non ci sta ed essendo stato a suo tempo tra i giornalisti che si schierarono senza se e senza ma dalla parte dei giustizialisti dell’epoca, ha  scritto una recensione del libro del figlio  estremamente dura sul Giornale. Gli ha risposto a stretto giro di posta il figlio sulla Stampa. Pubblichiamo nell’ordine i due articoli, non senza consigliarvi di acquistare e leggere il libro di Mattia Feltri. Serve a comprendere ciò che realmente accadde in quell’anno, tra il 1992 e il 1993, nel nostro Paese. g.

PERCHE’ NON SONO D’ACCORDO CON MIO FIGLIO, di VITTORIO FELTRI

Non avrei mai scritto un rigo sull’ultimo libro di mio figlio Mattia, Novantatré (L’anno del Terrore di Mani pulite), se egli non mi avesse, pur con qualche ragione, scaraventato nella discarica dei reietti che seguirono con passione la cosiddetta Tangentopoli, ricavandone la sensazione che fosse un’operazione di giustizia non sommaria, ma diretta a punire i reati commessi dai politici col pretesto di fare politica.

Non voglio impegnarmi in una difesa dalle accuse del mio diletto consanguineo rivolte ai magistrati e ai loro complici, cioè i giornalisti (categoria alla quale non mi onoro di appartenere): sarebbe un esercizio velleitario.

Le opinioni si discutono, ma raramente si cambiano. Tu, caro Mattia, narri con efficacia ciò che accadeva nei giorni del 1993 (e anche del 1992): arresti in massa, il tintinnio minaccioso delle manette che era diventato la colonna sonora di quei tempi funesti, le detenzioni tese a strappare confessioni, le delazioni finalizzate a ottenere la libertà (almeno) provvisoria. Racconti con dovizia di particolari le vanterie della Procura di Milano, la paura che serpeggiava nelle segreterie dei partiti (del Caf), le angosce degli indagati, le varie porcherie commesse nelle stanze del Palazzaccio, la disinvoltura acritica dei cronisti giudiziari che si abbeveravano negli uffici dei Pm e compilavano articoli interamente ispirati dalle toghe.Hai ricostruito fedelmente, con autentico pathos, il clima che si respirava in quegli anni tribolati a Milano: Antonio Di Pietro, oscuro manovale del diritto, all’improvviso salito sul piedistallo riservato agli eroi, venerato come la Madonna, invocato quale purificatore, amato dalle folle perché per primo castigava i reprobi. Hai dipinto un quadro in parte abbacinante e in parte fosco. La realtà, d’altronde, non è mai a tinta unita. Hai reso alla perfezione l’atmosfera diurna dell’epoca. Ma hai completamente trascurato cosa accadeva nelle notti della Prima Repubblica. Di notte entrava in azione la Banda Bassotti. Forse te ne sei dimenticato. Forse ti sei lasciato trascinare dalla vena letteraria e ti sei fissato sulle nequizie della famosa e turpe inchiesta. La smemoratezza è una malattia di molte famiglie, figurati se la nostra ne è immune.

Di giorno i magistrati facevano strage di mariuoli, di ladri e anche di innocenti: ma al calar delle Tenebre, caro Mattia, si perpetravano furti su furti per decenni impuniti, considerati perdonabile routine. Era diffusa la sensazione che la tangente fosse lecita, una pratica di ordinaria furfanteria. I politici che rubavano per il partito non si sentivano colpevoli, erano persuasi di agire per il bene della Patria e non esitavano a riempirsi le tasche di denaro sporco, confondendolo con il proprio e usandolo in proprio per pagarsi le ville sull’Appia Antica, la cui pigione veniva saldata prelevando l’occorrente dal bottino.Su questo è opportuno sorvolare? Essi spendevano e spandevano senza requie. Vivevano ben oltre le loro disponibilità. Con quali mezzi? Da notare che se fregare per il partito non sembra una grave scorrettezza, in verità è gravissima, perché non c’è neppure l’attenuante dello stato di necessità. Rubavano, i politici, allegramente a livello istituzionale. Autorizzati dal superiore principio secondo il quale la democrazia costa. I partiti organizzavano congressi e riunioni faraoniche, cui seguivano serate in discoteca dove scorrevano fiumi di champagne. Chi saldava il conto? Le aziende che versavano le stecche in cambio di lavoro. Ciò faceva comodo anche agli imprenditori, i quali però, se non si fossero piegati alle richieste delle segreterie, sarebbero stati tagliati fuori dagli appalti. Un’opera pubblica da un milione, finiva così per costare due milioni o tre. La spartizione era assai onerosa.Risultato. Il debito pubblico impazziva. E ne soffriamo ancora gli effetti devastanti. Che dovevano fare Di Pietro e i suoi soci, voltare la testa dall’altra parte, fingere di non vedere? I magistrati hanno sbarellato, ansiosi com’erano di salire alla ribalta. Ed io, come altri cronisti, ho assecondato ciecamente un sistema investigativo pressappochistico e dozzinale che, però, se non giustificabile, era comprensibile dato il momento. Un momento di forti tensioni sociali, influenzato ed alimentato dal desiderio di cancellare una classe dirigente incapace (come quella attuale) di amministrare la cosa pubblica, sacrificandola alla saccoccia.Mattia, ti chiedo per quale motivo il pentapartito, che era al governo, non ha mai pensato a legittimare il finanziamento privato della politica. Era nelle sue facoltà approvare una legge in proposito. Non ha mai provveduto a farlo perché, se tutto fosse stato chiaro e controllato, nessuno avrebbe più distratto una lira in quanto ogni partito sarebbe stato costretto a presentare bilanci verificati. Zero margini per appropriazioni indebite. E con quali soldi sarebbero stati liquidati gli affitti delle ville sull’Appia Antica? E chi avrebbe contribuito ad incrementare i consumi della cosiddetta Milano da bere?Non siamo nati ieri, né tu né io; abbiamo uso di mondo e siamo consapevoli di come girasse il fumo negli ambienti politici.

Sono stati trovati conti ricchi all’estero attribuibili a personaggi dei partiti. Ovvio che la magistratura abbia colpito duro, acquisendo poi un potere eccessivo di cui sopportiamo ancora i riflessi. Ti do atto che nel casino generato da Mani pulite, accresciuto dallo sbandamento provocato dalla avanzata della Lega, dal crollo del muro di Berlino, dalla perdita di credibilità dei partiti, si sono compiute nelle indagini delle immonde esagerazioni. Cosicché ha preso piede un giustizialismo che si spiega soltanto con la fregola di spingere la sinistra alla conquista del primato nazionale a spese degli altri partiti. E cara grazia che Berlusconi ha spaccato il giochino degli ex comunisti.Questo è noto a tutti. Ma prima di dire che il dipietrismo è stato solo schifezze occorre riflettere. Tonino non ha violentato un esercito di vergini, ma ha sbaragliato una cosca di ladri che non ebbe il coraggio di varare una legge idonea a porre ordine nella materia. Una classe politica di straccioni. Alcuni dei quali sono stati castigati ingiustamente, ma altri l’hanno fatta franca, per esempio i compagni. E ciò è indigeribile e autorizza a sospettare che le toghe non abbiano agito con troppo zelo. Tuttavia, non sottovalutiamo un fatto: se la Giustizia ha sbagliato al 30 per cento, i ladri della Prima Repubblica hanno sbagliato al 70 per cento. Amen. Peccato che un libro sui grassatori non sia mai uscito, completo.Per concludere. Craxi quando disse che il ladrocinio era un male comune colse nel segno. Sul piano storico e politico pronunciò un discorso condivisibile in pieno. Su quello giudiziario egli aveva torto: non esistono malversazioni a fin di bene. Se il prezzo della democrazia è la disonestà endemica, conviene intervenire col pugno di ferro. Quanto agli errori dei magistrati, non è il caso di enfatizzare quelli a danno dei politici. I cittadini ogni giorno sono vittime di soprusi e angherie in tribunale, e nessun parlamentare di oggi e di ieri ha osato fiatare. Vittorio Feltri

PERCHE’ MIO PADRE SBAGLIA, di MATTIA FELTRI

Giovedì scorso è uscito un mio libro – «Novantatré. L’anno del Terrore di Mani pulite», edito da Marsilio – e ieri il «Giornale» ne ha pubblicato un’ampia stroncatura firmata da Vittorio Feltri, cioè mio padre. Non c’è stupore né amarezza, abbiamo un rapporto eccellente e franco: in «Novantatré» lui è «scaraventato nella discarica dei reietti», per usare le sue parole, ma sappiamo entrambi che non c’è niente di personale. E poi su Mani pulite discutiamo da decenni, io spretato e critico, mio padre più favorevole, sebbene non entusiasta come quando dirigeva l’«Indipendente»; talvolta pare che ci stiamo avvicinando e invece no, ognuno resta al punto di partenza. Ci resta soprattutto lui, che mi rimprovera di trascurare «furti su furti, per decenni impuniti» da parte dei politici che «spendevano e spandevano senza requie» e per questo «il debito pubblico impazziva e ne soffriamo ancora gli effetti devastanti». Dunque «se la Giustizia ha sbagliato al 30 per cento, i ladri della Prima Repubblica hanno sbagliato al 70». Eppure il pentapartito non pensò mai di «legittimare il finanziamento privato della politica» perché sennò «zero margini per appropriazioni indebite». Infine, «Craxi quando disse che il ladrocinio era un male comune colse nel segno. Sul piano storico e politico pronunciò un discorso condivisibile (…) su quello giudiziario egli aveva torto: non esistono malversazioni a fin di bene».

Sono un po’ in imbarazzo perché la disputa mi sembra fuori fuoco: la disonestà generale della classe politica non è contestata, ma è il presupposto – nell’introduzione avverto che il libro non è negazionista, «le mazzette c’erano, i colpevoli c’erano, il sistema era talmente diffuso da coinvolgere tutti…» – esattamente come era il presupposto di Bettino Craxi che nel luglio del 1992, all’alba della grande inchiesta, riconobbe davanti a un Parlamento silente e vile che «fioriscono e si intrecciano casi di corruzione e di concussione, che come tali vanno definiti, trattati, provati e giudicati». Né impunità né «malversazione a fin di bene», piuttosto Craxi aggiunse che nessuno aveva diritto di nascondersi dietro un’onestà provvisoria, e da questa considerazione, politica, non penale, bisognava trarre le conseguenze. Un nuovo regime fondato sulla menzogna delle mani pulite vincenti sulle mani sporche non sarebbe andato lontano. Come poi si è visto.

Mi spiace che le mie pagine vengano lette come i tempi supplementari del derby politica-magistratura. Non ci credo più da secoli. La magistratura fu pessima come pessimi fummo tutti noi, semmai disponeva di armi micidiali; al linciaggio del pentapartito, che ci aveva tenuti dalla parte giusta della storia, e cioè lontani da Mosca, parteciparono in massa con sanguinario disincanto i giudici e gli ex comunisti, seconde file della politica e imprenditori, giornalisti e popolo eccitato, tutti a ritagliarsi uno spazio e un ruolo nell’Italia che rinasceva, e a ritagliarselo all’ultimo minuto, come al solito. Si esultava collettivamente a ogni arresto e a ogni suicidio perché avevamo trovato il capro espiatorio. E fummo così inconsistenti e sprovveduti da restare senza fiato quando si andò a sbattere contro l’esito della scalcagnata rivoluzione: nel ’93 avevano diritto di cittadinanza soltanto i partiti eredi delle tradizioni assassine del Novecento, postcomunisti e postfascisti, condannati dalla storia, ma assolti in tribunale. Ed era già troppo tardi.

Il mio libro si chiama «Novantatré» (come ha capito perfettamente Gianni Riotta, che lo ha recensito per la «Stampa») ma si potrebbe chiamare Sedici. Perché da ventitré anni continuiamo a raccontarci una favoletta insopportabile: tutta colpa della casta. Anche mio padre fa risalire il debito pubblico anzitutto alle tangenti, quando invece è stato contratto per garantire un colossale assistenzialismo fatto di welfare e pubblico impiego, per sopportare l’assenteismo degli statali e l’evasione fiscale degli autonomi: chi viveva e continua a vivere al di sopra delle proprie possibilità è un Paese intero. Il problema del «Novantatré» è lo stesso problema del Sedici: la malattia sono gli italiani. Se abbiamo questa politica e questa magistratura e questo giornalismo è perché siamo questa Italia. Mattia Feltri

DA IAN PALACK AGLI SFASCIATORI DI LIBRERIE, di Emanuele Ricucci

Pubblicato il 16 gennaio, 2016 in Costume, Cultura | No Comments »

Il 16 gennaio del 1969, un giovane di universitario praghese di 19 anni, Jan Palach, si dava fuoco, suicidandosi,  nella centralissima Piazza San Venceslao della sua città, estrema e altrettanto ponderata protesta contro il regime comunista che governava dispoticamente Praga e l’allora Cecoslovacchia e l’intero Est europeo.  Dovevano trascorrere  altri 20 ani prima che il sacrificio di Palach trovasse la santificazione con la liberazione di quasi tutto l’Est europeo dal giogo comunista. Ma oggi, dopo 47 anni dalla sua morte eroica, cosa è rimasto di Jan Placah e del suo sacrificio? Così lo ricorda  nel suo blog Emanuele Ricucci. g.

C’era una volta Jan Palach. Lo racconteremo come una favola, perché se ne addolcisca il ricordo e rimanga leggero, perché sia piacevole parlarne e si smussi il dolore.

La sua generazione, e quella prima di lui, poi le successive, fino alla nostra, l’odierna. Dal trionfo nazionale al tonfo capitale. La metamorfosi, i segni della putrefazione, dal vitalismo al nichilismo solo andata. Speriamo nel Ritorno.

C’era una volta chi si dedicava l’esistenza, percorrendola, interpretandola, cavalcando le innumerevoli tigri della gioventù, e lo faceva lucidamente e consapevolmente, trovando un approdo sicuro in una lotta animata e muscolare, per l’affermazione della sovranità, senso imprescindibile per chi si ammanta di una certa identità. Jan Palach. Ancora arde il suo spirito in quella Piazza S.Venceslao, a Praga, il 16 gennaio del 1969. Ancora si sente l’odore acre del suicidio di un giovane martire europeo che vedeva una nuova speranza in una nuova primavera, repressa dall’aberrazione sovietica, da quel immenso cuscino al cloroformio sui volti delle generazioni libere. Un giovane vivo e cosciente. Tutto qui, nulla di santo e filosofico, etereo o irraggiungibile. E quell’estremo gesto, la decisione di darsi fuoco sulle scale del Museo Nazionale di Praga, quell’idea che montava in lui, giorno dopo giorno, ragionata, ponderata, macinando sentimenti, tra una lezione e l’altra all’Università, quel normale approccio non conforme, che fungeva da barricata di chiodi e legno verso chi spingeva per un’intensiva e frettolosa massificazione, verso chi imponeva silenzio alle libertà di una nazione, per chi plasmava con la violenza l’egemonia. Un gesto simbolo di una sanità generazionale. Un esempio di sacrificio combattente per quell’Europa.

La bella morte, la fine eroica, come Mishima, la massima purificazione, amara ambizione, forse anche illogicamente folle, che non trovava consolazione in una fede religiosa, ma confidava nella forza dell’anima, unico residuo di eternità in un mondo e in un corpo finitissimo.

Sogni di rock ‘n roll e guai a chi ci sveglia”, canterebbe oggi il nostro teneramente duro Ligabue. Sono sogni che tramutano in incubo a velocità elevata. Oggi le cose sono cambiate, eccome. Qualcuno sembra aver abituato le nuove leve a lottare per la Patria mondo, un po’ nomade, un po’ “dove c’è Barilla, c’è casa”, per formare le colonne del villaggio globale, in cui tu casa es mi casa, tu cane es mi cane, tu madre es mi madre, tu dinero es mi dinero, tu pericolo es mi pericolo, tu problema es…come il mio, non il mio. E da lì in poi, ecco interi blocchi di gioventù entrati nel Common Village, dotato dei migliori comfort tecnologici, in cui si può essere sempre informati di come va il mondo, senza strapparsi minimamente la bella blusa blu. Sì, ogni tanto qualche imbecille parte a fracassare vetrine o lanciare estintori ma sa che quando tornerà sarà al sicuro, tra un falso mito di libertà ed i titoli del Tg che gli annuncerà che la guerra, quella vera, è lontana, lontana parecchio. Come a Firenze, alla libreria “Il Bargello”, un paio di giorni fa. Completamente distrutta. Con il mondo intorno in piena crisi isterica e un’Italia sodomizzata, c’è ancora chi sfascia le librerie in nome dell’antifascismo, manifestazione platonica di un’insicurezza e di una vacuità mor(t)ale imbarazzante, residuato bellico degenerato e anacronistico. Una flotta di ragazzotti, un misto tra il Klu Klux Klan e i sette nani, V per Vendetta e Manu Chao dopo il concerto, ha pensato bene anche di aggredire l’unica ragazza presente nel locale che, alla Nazione, ha dichiarato: “mi hanno preso per i capelli e soprattutto mi hanno picchiato violenza con una spranga di ferro. Per fortuna sono riuscita a scappare in bagno”.

Farete “la fine di quelli di Acca Larentia”, avrebbero urlato i coraggiosi incappucciati prima di dileguarsi.

Nessuno chiede redenzione, né conversione (non scherziamo…), almeno dignità nel comprendere la realtà comune che degenera verso la decadenza.

Qualcosa, evidentemente, è andato storto.

Così tra annichiliti davanti a Call of Duty, devastatori di librerie, tra europeissimi e giovani volontari della Jihad reclutati sul web, riserve di rivoluzionari da tastiera, indifferenti, non tesserati, mai schierati e un filo pretenziosi barbari giovanotti, mi tengo la favola reale di un giovane che per amor di patria, si diede fuoco sulle scale, chiedendo ai miei coetanei, con la voce rotta dall’amarezza, in un’accorata preghiera, ciò che Albert Camus riuscì, nella sua grandezza, a sintetizzare con lucidità: «Ogni generazione si crede destinata a rifare il mondo. La mia sa che non lo rifarà. Il suo compito è forse più grande: consiste nell’impedire che il mondo si distrugga». Emanuele Ricucci.

NELLE SOCIETA’ DEMOCRATICHE ESISTE CORRISPONDENZA TRA LEGGI E VALORI, di Ernesto Galli dlla Loggia

Pubblicato il 13 gennaio, 2016 in Costume, Cultura, Politica | No Comments »

Sarebbe buona norma che prima di criticare un testo lo si leggesse con un minimo di attenzione. Mi sorprende che invece Carlo Rovelli — per giunta uno scienziato di vaglia — si sia fatto prendere dalle sue emozioni e dai suoi pregiudizi obiettando a cose che io non ho mai scritto.

A differenza di quanto egli mi attribuisce non ho mai scritto, infatti, che «la nostra società deve essere guidata da un sistema di valori e dalle regole dettate (corsivo mio) dai comportamenti socialmente ammessi». Ho scritto di condividere l’opinione della cancelliera Merkel secondo cui chi immigra da noi deve integrarsi «nel sistema di valori, di regole e di comportamenti socialmente ammessi che vigono da noi». Come si vede una cosa ben diversa da quella immaginata da Rovelli (non ho mai pensato né scritto, cioè, che debbano essere i comportamenti socialmente accettati a dettare le regole. E mi chiedo: può specialmente un uomo di scienza permettersi una simile leggerezza? Può farne l’architrave del suo ragionamento senza accorgersi dell’errore?).

Il fraintendimento ora detto, chiamiamolo benevolmente così, consente a Rovelli, che vi insiste più e più volte, di prodursi in una lunga discettazione sulla necessità che le nostre società siano «regolate dalle leggi, non da sistemi di valori e giudizi individuali su cosa siano comportamenti socialmente ammessi», sdegnandosi adeguatamente del fatto che io, invece — secondo l’opinione che egli manipolando le mie parole mi attribuisce — auspicherei il contrario.

Evviva le leggi, abbasso i valori: questo è la sostanza del punto di vista di Rovelli, convinto, si capisce benissimo, di esprimere in tal modo una visione altamente democratica e razionale come si conviene a un vero scienziato. Peccato però che in questo caso si tratti di un punto di vista e di una visione sbagliati. Le leggi di una qualunque società, infatti, derivano da null’altro che dai suoi valori. E da dove altro se no? Salvo rarissimi casi tra le une e gli altri non vi può essere che una sostanziale coincidenza: pena, altrimenti, la non osservanza delle prime o la necessità di dure misure repressive per ottenerne il rispetto. «Le leggi vengono discusse dalla politica» scrive Rovelli. Appunto: e su che cosa egli crede che verta tale discussione, che cosa crede che rispecchi la sua conclusione in un testo legislativo, se non ciò che pensa, che crede, che spera chi vive in quella società? Cioè i suoi valori? Valori che poi, naturalmente, non possono non influenzare in modo significativo anche i comportamenti socialmente ammessi. In ogni società — e tanto più direi nelle società democratiche — tra leggi, valori e comportamenti c’è una sorta di necessaria circolarità, di necessaria corrispondenza (esattamente come io avevo scritto nella frase da Rovelli manipolata).

L’evidente scarsa dimestichezza di Rovelli con tali argomenti si manifesta in pieno quando egli si mette a parlare della cultura in generale e di quella della nostra penisola in particolare (ma in fin dei conti lo capisco: non si può possedere in eguale misura la bibliografia sui neutrini e quella sulla storia d’Italia). Cultura è una parola complessa, dalle molte accezioni; un po’ come filosofia. Ebbene Rovelli parla di cultura come chi a proposito di filosofia parlasse allo stesso modo della filosofia idealistica e della «filosofia del parmigiano», cioè non distinguendo la sostanziale differenza tra gli usi diversi dello stesso termine. Certo che «ogni cultura non è mai unica», come un po’ alla buona scrive Rovelli. Certo che ogni cultura degna di questo nome si forma attraverso la confluenza nel proprio alveo di influssi e ibridazioni. Ma l’alveo è decisivo, per l’appunto. E ogni alveo è diverso da un altro. Dunque, credere che l’Italia sia un esempio preclaro di multiculturalismo solo perché della sua identità fanno parte cose diverse come il Rinascimento toscano e l’Illuminismo milanese, o perché Peppone e don Camillo votavano partiti opposti, è un’idea di un’approssimazione e di un’ingenuità che un minimo, ma proprio un minimo, di preparazione sull’argomento sarebbe stata sufficiente ad evitare. La verità è che non ci si può mettere a sentenziare su queste cose in modo impressionistico, basandosi su un buon liceo e sulla lettura dei giornali. È come se io mi mettessi a disquisire sui «buchi neri» o a dire la mia sugli anelli di Saturno.

Egualmente è di un’ingenuità e di un’approssimazione intellettuali da far cadere le braccia credere, come il mio interlocutore crede, che la cultura italiana di oggi sia profondamente diversa da quella dei nostri nonni. Cioè, bisognerebbe dedurne, che la cultura di un Paese — quella vera, quella profonda, frutto di innumerevoli stratificazioni a cominciare da quella religiosa — cambi ogni settanta, ottanta anni. Non è così. Ciò che cambia è semmai il costume, caro Rovelli, il costume, non la cultura, non i tratti dell’identità e dei suoi valori di fondo. Sono cose assai diverse, come lei sa, e la conoscenza dovrebbe consistere innanzi tutto nella capacità di distinguere.

Che dire infine di New York, Shanghai o Mumbai additate in queste righe quali eden di una «tolleranza serena delle diversità», della «convivenza pacifica», di «un senso civico comune», di «una nuova identità plurale»? Ma ha mai provato chi scrive tali cose a passeggiare di notte nel Bronx o a tenere un comizio antigovernativo su un marciapiede del Bund? Ed è mai venuto a conoscenza che, certamente non nei quartieri centrali di quella grande città, ma sicuramente in moltissime zone dell’India, essere cattolico è, per esempio, un’impresa a rischio che si può pagare con la vita, ovvero, per dirne un’altra, che lo stupro delle giovani donne è pratica diffusa, molto spesso ancora oggi impunita? Ma andiamo, di che cosa stiamo parlando?

La verità è che il multiculturalismo di cui parla Rovelli e che suscita la sua entusiastica adesione non ha molto a che fare con nulla di reale, con la storia, con le culture, con i problemi reali (da lui infatti del tutto ignorati perché, immagino, attribuiti a pure «superstizioni» che il progresso prima o poi cancellerà). È un multiculturalismo da vip lounge aeroportuale, un multiculturalismo da campus di Yale, da prestigiose summer school riservate ai «migliori studenti», come egli scrive. Un mondo levigato e confortevole dove regna il politically correct che lo obbliga a credere che esistano leggi disincarnate dettate da una morale universale mentre — che bello! — in una strada da qualche parte «i giovani di tutto il mondo si parlano ». È il mondo al riparo del mondo dove solo può vivere in un cieca autoreferenzialità l’idillio buonista di tante élite intellettuali dell’Occidente, avvolte nel compiacimento dei privilegiati che neppure sospettano di esserlo. Ernesto Galli della Loggia, Il Coriere della Sera, 13 gennaio 2016