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FASCISMO DI CALCESTRUZZO, il volume fotografico di Enrico Sturani dedidcvato alle opere pubbliche del fascismo commentato da Enrico Mughini

Pubblicato il 13 maggio, 2018 in Il territorio | No Comments »

LA VERSIONE DI MUGHINI – E’ APPENA USCITO “FASCISMO DI CALCESTRUZZO”, IL LIBRO AFFASCINANTISSIMO DI ENRICO STURANI, CELEBERRIMO COLLEZIONISTA DI CARTOLINE: NE HA 150MILA, TUTTE SELEZIONATISSIME – IL LIBRO E’ UN CONCENTRATO DI LECCORNIE E UNA LEZIONE DI STORIA SU QUEL CHE FURONO I VENT’ANNI ITALIANI DEL TEMPO FASCISTA…

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Caro Dago, ogni qual volta vado nel cinemino romano di Nanni Moretti _ non lontano da casa mia _e passo innanzi alla Palestra adiacente al cinema, un edificio che l’architetto Luigi Moretti aveva progettato e costruito se non sbaglio nel 1938, quasi urlo innanzi a tanta bellezza, a un’armonia talmente bruciante. (La Palestra è stata restaurata da pochi anni, se non sbaglio per iniziativa dell’allora sindaco Walter Veltroni).

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Così come invece urlo di disperazione ogni volta che passo innanzi alla Casa delle Armi, sempre dello stesso Moretti, che per un tempo era stata adibita a Tribunale-bunker per gli imputati degli anni di piombo e di cui purtroppo non è ancora finito il restauro. E tanto per dire di due tracce architetturali fatidiche del tempo della dittatura fascista. Avessi lo spirito che non ho, quello di trasmettere ad altri il culto e la conoscenza del Bello, all’uno e all’altro edificio condurrei volentieri l’ex presidente della Camera Laura Boldrini, quella che avrebbe voluto cancellare le “tracce” del fascismo, ossia vent’anni di storia.

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Vent’anni di storia italiana che dal punto di vista dell’architettura pubblica furono cospicui e quantitativamente e qualitativamente. I più cospicui dell’intero Novecento. Lo ha scritto Gio Ponti, che era un uomo d’onore: “Da Roma, a Genova, a Venezia, a Bologna, a Torino, a Firenze abbiamo costruito aeroporti, stadi, piscine esemplari; a Roma, a Cremona, in Libia templi grandiosi; a Roma, a Firenze, collegi, caserme e istituti magnifici; a Roma, a Padova, a Bologna, a Trieste, università e scuole stupende”.

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E a proposito delle immagini di quelle costruzioni, di quei reperti architetturali e culturali, succede che sia appena uscito un libro affascinantissimo di Enrico Sturani, un figlio d’arte (suo padre, Mario Sturani, è stato nei Trenta l’autore di meravigliose ceramiche Lenci), e celeberrimo collezionista di cartoline (ne ha 150mila, tutte selezionatissime). Il libro ha per titolo Fascismo di calcestruzzo, e lo ha pubblicato l’editore Barbieri di Manduria. Un concentrato di leccornie e una lezione di storia su quel che furono i vent’anni italiani del tempo fascista.

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Sturani mette in fila una scelta delle sue oltre 600 cartoline dove sono le foto di edifici apprestati in quei vent’anni. Padiglioni di mostre, Case del fascio, edifici adibiti allo sport, Case Balilla, facoltà universitarie, scuole elementari. Erano immagini destinate al consumo popolare, a far conoscere a un italiano che abitava a Ravenna un edificio particolarmente suggestivo di Latina o di Ivrea.

Erano cartoline edite da privati, nell’ordine di 1000 ogni volta e che compravi in tabaccheria. Erano immagini importanti in un’epoca in cui di immagini ce n’erano pochissime, e a parte il cinema e la nascente stampa a rotocalco. Immagini che fanno da trionfo della architettura razionalista, un’architettura geneticamente imparentata con il fascismo.

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E basterebbe citare i nomi di Pier Maria Bardi, di Giuseppe Terragni e di Giuseppe Pagano (che durante la Seconda guerra mondiale divenne un militante clandestino dell’antifascismo, venne arrestato e torturato per poi morire nel lager di Mathausen a pochi giorni dalla fine della Seconda guerra mondiale). O anche nomi di architetti nettamente antifascisti come Attilio Calzolara, ai quali ras illuminati del fascismo avevano dato commissioni importanti. E qui andrebbe ricordata e studiata la figura notevole del ministro dei Lavori Pubblici, il barese Araldo di Crollalanza.

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Non la faccio lunga, E del resto le parole sono poca cosa rispetto alla forza di quelle fotografie, di quelle cartoline talmente amate dal demoniaco Sturani. Accanto al mio testo, Dago ve ne offre una selezione. Guardate e trattenete il fiato. E magari, se siete in vena di fare del bene, regalate una copia di questo libro alla Boldrini.

Ps. Dimenticavo. Qualche imbecille ebbe il buon gusto, nel 1945, di fare arrestare Moretti per le sue collaborazioni con il regime. Il geniale architetto rimase in carcere per alcune settimane, non so esattamente quante.

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LA STORIA DI MIO PADRE, di Stefano Zurlo

Pubblicato il 7 maggio, 2018 in Costume, Politica | No Comments »

Ventuno giugno 1993. Gabriele Cagliari scrive dal carcere di San Vittore alla moglie Bruna: «Comincia l’ estate, oggi è il primo giorno. Ho passato qui l’ intera primavera e alcuni giorni di inverno. Chi l’ avrebbe mai detto?». L’ epilogo è vicino e, col senno di poi, quel punto di domanda sgomento sembra già scandagliare la vertigine dell’ abisso.

L’ ex presidente dell’ Eni, travolto dal ciclone Mani pulite, sta meditando la scelta irrevocabile. Il 5 luglio, dopo altre due settimane di supplizio, si rivolge ai figli Stefano e Silvano con parole definitive. Il suicidio è stato stabilito e lui sa che i ragazzi leggeranno dopo. Dopo aver asciugato, se mai ci riusciranno, le lacrime. Dopo le polemiche e tutto il resto. «In una lunga lettera a voi tutti e che ho indirizzato alla mamma – è la comunicazione struggente e lucidissima, animata da una sovrumana forza di volontà – ho spiegato le ragioni di questo mio andarmene. Non me la sono più sentita di sopportare ancora a lungo questa vergogna e questa tortura, mirata a distruggere l’ anima».

Parla di se al passato, l’ amico di Bettino Craxi. È solo questione di giorni. La goccia che fa traboccare il vaso arriva nel filone Eni-Sai, parallelo a Mani pulite. Il pubblico ministero Fabio De Pasquale, almeno secondo l’ avvocato Vittorio D’ Aiello, promette un parere positivo sugli arresti domiciliari, ma poi si arrocca sul no. È finita, anche se il giudice deve ancora pronunciarsi. Gabriele Cagliari ha esaurito la pazienza e le energie e pensa che quel gesto di ribellione sia l’ unico modo per preservare la propria dignità.

La mattina del 20 luglio si chiude in bagno bloccando la porta con un pezzo di legno, infila la testa in un sacchetto di plastica, lo lega intorno al collo con un laccio di scarpe e si uccide in quel modo cosi crudele e fragoroso. Venticinque anni dopo, Stefano Cagliari prova a rielaborare quelle ferite, personali e di un intero Paese, in un libro misurato e sofferto, ma senza nemmeno una goccia di rancore, scritto con Costanza Rizzacasa d’ Orsogna: Storia di mio padre (Longanesi, pagg. 264, euro 18,80).

Dentro c’ è la ricostruzione, sommessa e mai urlata ma attenta al dettaglio, di quei mesi drammatici del terribile Novantatrè. Un padre chiuso per 134 giorni nel «canile di San Vittore», come lui lo chiama senza sconti nelle sue missive. E una famiglia un tempo potente precipitata nell’ angoscia, frastornata, colpita da una successione inarrestabile di lutti. Non solo. Il volume propone la corrispondenza, in buona parte inedita, partita dal carcere o spedite da casa al detenuto.

C’ è insomma, la progressione di una tragedia sullo sfondo di un Paese lacerato e incattivito che ha smarrito la propria anima nel tentativo di purificarsi. Perfino il funerale diventa un problema: «Il parroco della chiesa di San Babila non c’ era, il vice si rifiutò e cosi il vicario di Carlo Maria Martini all’ Arcivescovado». Allora il cardinale che è in Francia chiama il cappellano di San Vittore, don Luigi Melesi, e lo prega di celebrare la funzione al posto suo. Ma quel momento di pietà viene sconvolto e funestato: «La chiesa era gremita, la gente si accalcava fuori. Arrivò la notizia del suicidio di Raul Gardini, ci guardammo. Era tutto più grande di noi».

Un quarto di secolo dopo, questo testo abbraccia l’ umanità, allora calpestata. E fa un passo decisivo sulla strada di una pacificazione che non sia solo la spugna del tempo. La prefazione, sorprendente, porta la firma autorevole di Gherardo Colombo, uno dei magistrati del Pool che chiesero l’ arresto di Cagliari. E Colombo, senza rinnegare nulla, con toni altrettanto sobri, compone una critica del sistema giudiziario, peraltro abbandonato nel 2007.

Dunque, in qualche modo fa autocritica: «Il magistrato si concentra sulle esigenze della giustizia – termine che inserisco fra molte virgolette – ma cosi facendo, non si rende conto delle conseguenze che i suoi atti producono su coloro che le investigazioni subiscono». Schiacciati in celle anguste, esposti alla gogna feroce – il ‘93 diventa un calco dell’ originale 1793 giacobino- con interrogatori diluiti sul calendario con il contagocce, oggi per fortuna meno di allora. «Bisogna riconoscere – ammette ora Colombo -la persona. Vedere il volto dell’ altro». Allora, e non solo allora, andò in un altro modo. Stefano Zurlo, Il Giornale 7 maggio 2017

…A 25 anni di distanza, il figlio di Gabriele Cagliari, presidente dell’Eni, racconta la storia di suo padre, rinchiuso nel “canile di S. Vittore2 come lo stesso Cagliari lo defnisce nell’episstolario con la famiglia, e nel quale si tolse la vita fiaccando la testa in un sacchetto di plastica, non riuscendo più a sopportae la carcerazione, specie dopo che, sostenne il suo avvocato, il magistrato prima promise e poi cambiò idea sulla concessione deglia rresti domiciliari. Fu una pagina sconvolgente di quella immensa saga di robesperriana memoria che  passò sotto il nome di Tangentopoli che fece tante vittime e non cambiò il mondo. Il figlio di Cagliari, racconta Zurlo che ne ha recensito il libro, racconta i fatti con estrema misura e con linguaggio più che soburio, non cervcando vendetta ma solo chiarezza. Illuminante nel libro quanto scrive nella prefazione firmata da Gherardo Colombo che del pool di ani pulite faceva parte. Ammette Colombo sia l’eccessivo zelo sia la mancanza di attenzione per le persone, molte delle quali risultarono innocenti ma distrutte nell’animo e nel corpo. Come Cagliari, appunto.  g.