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IL PASSATO CHE FERMA IL MOVIMENTO 5STELLE, di Antonio Polito

Pubblicato il 30 giugno, 2020 in Il territorio, Politica | No Comments »

Non risulta che durante gli Stati Generali il presidente Conte abbia messo al centro delle sue pur amplissime consultazioni la domanda: che dobbiamo fare del Mes? Singolare, no? Il dilemma più controverso sul futuro dell’Italia non pare essere stato oggetto di riflessione nella Villa in cui il premier si riprometteva di «reinventare il Paese» (parole sue, anzi di Baricco). Meno che mai lo è stato nella sede anche più appropriata del Parlamento, che anzi Conte ha finora accuratamente evitato.

La ragione è molto semplice: sul Mes Conte non ha la maggioranza. O meglio, ne ha un’altra. Quella di prima. La maggioranza giallo-verde. Se oggi si votasse alle Camere sul meccanismo europeo, che ci consentirebbe di avere prestiti fino a 36 miliardi con interessi quasi pari allo zero per finanziare la Sanità pubblica, vincerebbero i contrari. Lega e Cinquestelle tornerebbero insieme, come ai vecchi tempi.

Lo stesso vale per i decreti sicurezza. Varati quando Salvini stava al Viminale, la loro revisione era nei programmi politici della nuova maggioranza e in parte anche nelle raccomandazioni del capo dello Stato, per motivi costituzionali. Ma non si procede. Perché i Cinquestelle, anche su questo, sono quelli di prima: quei decreti li hanno votati. E lo stesso vale per la ormai annosa questione della concezione autostradale.

I pentastellati sono prigionieri del passato. Hanno cambiato alleati ma non cultura politica. Che è sempre la stessa: rispetto all’Europa, all’immigrazione, alle grandi infrastrutture, al rapporto con il mercato. Con un’aggravante: prima avevano un capo politico che poteva «forzare» il Movimento attraverso passaggi stretti ma necessari: con Di Maio digerirono la Tav. Ora sono una forza politica acefala, governata da una logica di veti reciproci che le rende impossibile adeguare i principi non negoziabili alle esigenze del governo. Per questo il Movimento ha finito per delegare in toto la governabilità a Conte; con il patto implicito che il premier ne eviti la spaccatura o almeno la procrastini. Il paradosso è che il partito di maggioranza relativa, nato come forza di protesta, non può più rischiare di perdere il governo ma non può neanche rischiare di governare.

Dal che deriva la domanda fatale per l’altro partner della maggioranza giallo-rossa: che ci faccio io qui? Il Pd, trascinato a viva forza dal transfuga Renzi al governo con i Cinquestelle, ha finito con il trovarcisi a suo agio. Prima di tutto perché ha ripreso una centralità che sembrava finita per sempre di fronte alla esplosione elettorale dei «due populismi». E poi perché un partito di amministratori in provincia ha bisogno quasi naturalmente di essere un partito di ministri e sottosegretari nella capitale. Ma Zingaretti sa che non può essere a ogni prezzo. Come può la forza politica che ha preso Gualtieri da Bruxelles per fare il ministro del Tesoro e ha mandato Gentiloni a Bruxelles a fare il commissario, respingere il Mes, accettando la logica anti-europea che sottintende e giustifica il «gran rifiuto»? Come può il partito che mandava i parlamentari a bordo delle navi sequestrate da Salvini tenersi ancora dopo un anno i decreti Salvini? E come può il centrosinistra che privatizzò le autostrade ridarle ora allo Stato? Ecco perché ieri ha cominciato, con la sua lettera al Corriere, a dire a Conte ciò che Conte non può dire: il Mes ci serve.

Si obietterà: ma la vera ragione di questo «connubio» tra giallo e rosso era scegliere il prossimo presidente della Repubblica. Movente e obiettivo del resto dichiarati. Però, se davvero i Cinquestelle sono rimasti quelli di prima, e se per giunta sono privi di una leadership, e se sono spaccati come sono, e se perdono pezzi quasi ogni giorno al Senato, può il Pd fidarsi di loro al momento delle votazioni a scrutinio segreto per eleggere il capo dello Stato? Per più di quarant’anni l’Italia è stata una democrazia bloccata, ma governata, perché il partito di maggioranza solo al governo poteva stare. In questa legislatura l’Italia è tornata a essere una democrazia bloccata, ma rischia di essere sempre meno governata. E pensare che la chiamarono Terza Repubblica. Antonio Polito, Il Corriere della Ser, 30 giugno 2020

I 5 STELLE. LA TRASFORMAZIONE, POTERE, POLTRONE E LUSSO, ALLA FINE SEDOTTI DAL PALAZZO, di Fabrizio Roncone

Pubblicato il 21 giugno, 2020 in Il territorio | No Comments »

Da annotare: chiusi, blindati hanno cominciato. Blindati finiscono.
Loro — quelli dello streaming, della trasparenza — laggiù, dentro lo sfarzo assoluto di Villa Doria Pamphili, distanti e impenetrabili in quel reality dell’economia chiamato Stati generali, e tutti noi, il pattuglione di cronisti, fotografi e cameramen, lasciati fuori dal cancello per una settimana, costretti a cercarci un sentiero che da via Aurelia Antica s’infilasse nella boscaglia, su per lo stesso pratone che nel 1849 risalirono i garibaldini della Repubblica Romana, le camicie rosse con i cannoni da puntare contro i francesi, noi con i teleobiettivi per capire almeno se il premier Giuseppe Conte avesse la pochette.

È arrivata la protesta ufficiale dell’Associazione stampa parlamentare e dell’Ordine nazionale dei giornalisti (con grande imbarazzo del Pd).
Ma è poi arrivata anche la polizia a cavallo.
Tutto questo fa molto casta. Proprio quella che Di Maio e Bonafede e tutti gli altri grillini di governo promettevano di combattere. E invece: risucchiati. Dentro fino al collo. Golosi di potere, cacciatori di poltrone, sensibili al lusso. Eccoli laggiù salire sulle loro auto blu, le scorte armate, i lampeggianti, un corteo dopo l’altro: e quando poi Di Maio l’altro giorno è arrivato a Mendrisio, Svizzera, in visita ufficiale, le autorità elvetiche hanno pensato bene di allestirgliene uno proprio di prima classe, con sette macchine seguite da tre furgoni.
Informalmente, lo scorso fine settimana Di Maio è invece andato a spiaggiarsi con la fidanzata Virginia Saba da Saporetti, a Sabaudia, sotto gli ombrelloni dello storico stabilimento del generone romano. Giuseppe Conte, qualche chilometro più in là, al Circeo. All’Hotel Punta Rossa, il preferito dagli oligarchi russi in vacanza.

Gli ultimi segnali di una mutazione ormai compiuta. Da valutare con rigore, senza cedere alla meraviglia, e cominciata forse la mattina in cui Rocco Casalino, entrando a Palazzo Chigi, osservò — lo sguardo che era un miscuglio di delusione e fastidio — la stanza che di solito veniva assegnata al portavoce del premier. «Ma è troppo piccola!», urlò, dopo lunghi secondi. I funzionari, mortificati, chinarono la testa: ora Rocco siede in una stanza adeguata, grande quasi come un campo da calcetto, adiacente a un ufficio dove alloggiano una ventina di collaboratori, alcuni dei quali si definiscono «sottoproletariato dell’informazione».
Dalla sua scrivania, ogni giorno, Casalino spedisce decine di whatsapp a decine di giornalisti. Rocco allude, promette, blandisce, annuncia, rimprovera, drammatizza, poi perdona e, quasi sempre, viene perdonato (ora vediamo come finisce il bisticcio con il sito Dagospia, «sebbene sia chiaro — diceva perfido un ministro grillino l’altra sera in un salotto con vista su piazza Campo de’ Fiori — che Casalino non conosca la barzelletta del “Cavaliere bianco e del Cavaliere nero” di Gigi Proietti»).

Il rapporto del M5S con i giornalisti è profondamente cambiato. Gianroberto Casaleggio teorizzava che se ne potesse fare a meno. Vito Crimi — ossequioso — esplicitò: «Mi stanno sul cazzo!». Beppe Grillo lanciò una vera fatwa contro i talk show. «Chi vi partecipa sarà scomunicato».
Vabbè.
Era per dire.
Ormai, ogni volta che cambi canale, trovi un grillino. Alcuni passaggi restano memorabili. Tipo quello dell’ex ministro per il Sud, Barbara Lezzi, che andò da David Parenzo su La7 a spiegare «come il Pil dell’Italia sia cresciuto grazie ai condizionatori d’aria». Solo nell’ultima settimana, Alessandro Di Battista è stato ospite sulla Nove e poi due volte a Retequattro. Dalla cronista di Quarta Repubblica ha finto di farsi sorprendere in strada, molto piacione come sempre, dico e non dico, ma poi dice, certo che dice, ormai tutti i cronisti conoscono la debolezza del Dibba, che adora comparire, sia pure in ruoli diversi: dissidente polemico, poi rivoluzionario in Chiapas, scrittore di reportage modesti, quindi aspirante falegname, provocatore e però eccolo subito di nuovo ragionevole e mansueto, non appena ascolta le promesse di Crimi e Patuanelli, Bonafede e Spadafora, tutti perfettamente a loro agio negli abiti scuri, nel caminetto da Prima Repubblica. Dove si decidono strategie, alleanze e — soprattutto — poltrone.

Gli specialisti sono Stefano Buffagni e Riccardo Fraccaro. Buffagni gira proprio con una cartellina rossa. Dentro ci sono i dossier per decidere, o condizionare. Eni, Enel, Poste, Terna, Leonardo, Alitalia. E Rai. I vertici del Movimento ormai vengono interpellati anche per la nomina di un caporedattore qualsiasi. Così è ripartita la vecchia liturgia romana inaugurata dai satrapi socialisti al tempo dorato (per loro) che fu. Li trovavi seduti ai Due Ladroni in piazza Nicosia, o da Fortunato al Pantheon. Li salutavi, un sorriso da tavolo a tavolo, c’è gente che ci ha costruito carriere. Adesso conduttori ambiziosi e showgirl disoccupate sperano di incontrare la nomenklatura grillina nei locali della movida, da Maccheroni o da PaStation, il ristorante del figlio di Denis Verdini, a sua volta suocero di Matteo Salvini. Incurante delle parentele ingombranti, ci capita anche la senatrice Paola Taverna, quella che si alzava nell’emiciclo di Palazzo Madama e urlava: «Io so’ der popolo e ve lo dico in faccia: a zozzoniiiii!» — vestita come se stesse al Tibidabo di Ostia, zatteroni di sughero e jeans strappati, mentre oggi invece gira tutta in ghingheri, con la sua Louis Vuitton d’ordinanza.

All’inizio, nemmeno entravano alla buvette di Montecitorio. «Noi — dicevano schifati i deputati a 5 stelle — il caffè ce lo andiamo a bere al bar, come cittadini normali». Però dopo qualche settimana erano già tutti lì al leggendario bancone, perché il caffè in se è una ciofeca, ma poi le papille iniziano a sentire un certo retrogusto dolciastro e stordente, sorseggi e sai di poter fare cose importanti: per esempio, sistemare nella tua segreteria i vecchi compagni di scuola (Di Maio li fa arrivare quasi tutti da Pomigliano d’Arco e Acerra).
Così adesso nessun parlamentare vuole tornarsene a casa. Secondo il sacro limite dei due mandati, a fine legislatura dovrebbero trovarsi un posto di lavoro in tanti: da Bonafede a Fico, dalla Castelli a Fraccaro, a Di Stefano, Crimi, Ruocco, Toninelli, Taverna e Di Maio. Che infatti ha cercato di scardinare la regola cominciando a introdurre per i consiglieri comunali il «mandato zero».
«Giggino, scusa, ma cos’è?», chiese, ingenuo, Crimi. «Che cos’è? Semplice: il primo mandato non lo contiamo più», rispose Giggino (con freddezza andreottiana)
. Fabrizio Roncone, Il Coriere della Sera, 21 giugno 2020

CORONAVIRUS, I CENTO GIORNI CHE CI HANNO CAMBIATO LA VITA, di Antonio Polito

Pubblicato il 15 giugno, 2020 in Il territorio | No Comments »

Coronavirus, i cento giorni che ci hanno cambiato la vita (e ci hanno reso più digitali e impauriti)

Cento giorni del Covid hanno cambiato gli italiani. Ma non tutti. Ci hanno reso diversi. Ma più diseguali. Migliori e peggiori, allo stesso tempo. Quasi tre Italie in una. Nel lungo lockdown cominciato cento giorni fa ci sono stati quelli «che hanno continuato a vivere nella povertà, che hanno tenuto i bambini in 40 metri quadrati, che erano abituati ad andare a fare la spesa dove le cose costavano meno», oggetto della commozione in tv del virologo dal volto umano, Giuseppe Ippolito dello Spallanzani. Insieme a loro — aggiungiamo noi — quelli che hanno dovuto uscire di casa ogni mattina perché fanno gli infermieri, i medici, gli addetti alle pulizie, i poliziotti, i rider, i postini, i benzinai, gli spazzini. Gente che ha tenuto in piedi l’Italia, e chissà quanto ci metteremo a dimenticarci il debito di riconoscenza che abbiamo nei loro confronti.

Poi c’è stata l’Italia di mezzo: quelli che hanno potuto restare a casa ma hanno perso il reddito, la gente che ha un negozio, un ristorante, un bar, un albergo, uno studio di avvocato o un salone di bellezza, o che non ce l’hanno ma ci lavorano. Mesi di risparmi bruciati e tanta paura per ciò che verrà. Per loro il peggio comincia ora.

E infine ci sono quelli che se la sono cavata: i «colletti bianchi» che hanno conservato posto e stipendio, hanno il Wi-fi e Netflix, fanno lo smart working e il bike sharing. A casa hanno riscoperto gli affetti, la lentezza, la gastronomia, i figli, l’amore coniugale. E quasi quasi ci sarebbero restati ancora un po’. Gli inglesi distinguevano, in mezzo alla tragedia dell’ultimo conflitto, coloro che avevano avuto una «good war». Stavolta, per fortuna, non sono pochi.

Queste tre Italie, rese anche più diverse di prima dalla pandemia, vanno ora riunificate. Altrimenti rabbia e risentimento le metteranno l’una contro l’altra, e tutte e tre contro il Palazzo. Non sarà un pranzo di gala, né un buffet a Villa Pamphilj. Bisognerà forse partire da ciò che ci ha invece unito.

Abbiamo visto il lato oscuro della Natura, la morte in faccia, un virus senza cure e vaccini. La nostra presunzione di invulnerabilità, l’idea che ormai si possa morire solo per un fallimento della medicina, ne è uscita a pezzi. Ora sappiamo, e vogliamo essere curati meglio, chiediamo ospedali e ambulatori più efficienti, con più dottori e meno politica. Diteci quanto costa e non badate a spese.

Sappiamo stare in fila. Mai visto niente del genere. Non è chiaro perché servizi essenziali come banche, poste e uffici pubblici funzionino ancora con il razionamento, ma lo accettiamo e stiamo in fila. È un patrimonio su cui costruire. Il rispetto delle regole è stato sorprendente per un popolo di solito così individualista. Vuol dire che c’è un capitale di responsabilità, di senso del dovere, consapevolezza che la libertà di ciascuno deve coesistere con quella di tutti gli altri.

Non che abbiamo imparato chissà che, né che la banda sia diventata così larga. Ma abbiamo capito qualcosa da cui difficilmente torneremo indietro: si possono fare tante cose, perfino una visita medica, senza spostarsi fisicamente. Senza prendere la macchina, salire su un aereo, viaggiare per ore, aspettare un bus, arrivare in ritardo. È una cosa buona. Ci saranno grandi risparmi per le aziende, meno pressione sull’ambiente e più flessibilità per tutti, per conciliare tempo di vita e tempo di lavoro. Siano perfino diventati più puntuali: le conference call, chissà perché, cominciano precise, senza il quarto d’ora accademico. Ma è anche una cosa pericolosa. Può trasformarsi in pigrizia, assenteismo, illusione di una vita in infradito. Soprattutto non può sostituire il lavoro in presenza lì dove è indispensabile: la scuola, l’università, i servizi agli anziani, dai quali non si può pretendere un collegamento su Zoom.

Otto milioni di italiani hanno perso un anno di scuola o giù di lì, per quanto encomiabili siano stati gli sforzi di didattica a distanza. C’è chi ha perso di meno e chi di più, perché la «DAD» ha funzionato solo nelle famiglie con un buon livello di istruzione, molti device e un ottimo collegamento in rete. Dunque ha eroso il sistema educativo nazionale e la sua funzione di coesione sociale. Guai a perdere pure l’appuntamento di settembre.

Le bandiere italiane sono comparse numerose ai balconi delle case, manco fossimo ai Mondiali: un modo di tenersi su, «stringiamoci a coorte». Grandi folle si sono radunate per guardare le Frecce Tricolori. Ampi consensi hanno sostenuto la difficile azione del governo. Ma attenzione: gli italiani che hanno investito nel tricolore saranno anche i primi a sentirsene traditi, se ne avranno motivo. Non ce lo possiamo permettere.

(Ps: cento giorni dopo, questo è anche il mio ultimo «Taccuino dal virus». È ora di raccontare il dopo.) Antonio POLITO, Il Corriere della Sera, 15 giugno 2020