MALTEMPO E MALA TEMPORA, di Vittorio Feltri
Pubblicato il 12 febbraio, 2012 in Costume, Politica | No Comments »
Forza lupi, son tornati i tempi cupi. Rinevica a Roma, ma stavolta Gianni Alemanno non spala: fa la spola tra una televisione e l’altra procurandosi molti nemici e – lui crede, d’altronde è fascista – molto onore.
Ma è più probabile che stia dissipando molti consensi, ammesso che non ne avesse dissipati già abbastanza per garantirsi la sconfitta alle prossime elezioni. Qualcuno scommette. Se il sindaco riproporrà la propria candidatura, non supererà il 35- 37 per cento. Si consoli: essere battuti dal generale Inverno non è biasimevole. È successo anche a Napoleone e a Hitler, può succedere anche a lui.
Il fatto che in gennaio e in febbraio faccia freddo non dovrebbe sorprendere. Invece sono stupiti perfino gli scienziati. Ho letto su vari quotidiani che il pianeta non corre più il rischio del surriscaldamento e che l’effetto serra è una benedizione del cielo: ci salverà dalla glaciazione. Gli ecologisti della domenica, e della politica, come commentano questa faccenda, cioè che il guaio non è più il caldo bensì il freddo? Tacciono. Forse stanno riorganizzando le idee.
Mi piacerebbe conoscere in proposito l’opinione di Fulco Pratesi, guru del Wwf, che anni fa scrisse sul Corriere della Sera un editoriale memorabile, in cui spiegava come affrontare l’emergenza siccità (era estate e non pioveva da un paio di settimane, capirai che dramma). O, meglio, raccontava con dovizia di particolari il protocollo che egli aveva personalmente adottato, consigliando i lettori di fare altrettanto: evitare con cura di lavarsi, non azionare lo sciacquone del water, cambiarsi la biancheria (calze, mutande) ogni due o tre giorni. Con rispetto parlando, una porcata pazzesca.
Leggo sulla Repubblica che i clochard, abituati a pernottare al binario 19 della stazione Termini di Roma, non vogliono saperne, nonostante la temperatura siberiana, di trasferirsi al dormitorio pubblico, dove, se non altro, funziona il riscaldamento. Preferiscono morire assiderati (e, difatti, alcuni sono morti e probabilmente altri ne moriranno). Se fanno certe scelte, avranno le loro buone ragioni, ma le tengono per sé e continuiamo a non capire perché rifiutino ogni aiuto. Cosicché invece di suscitare in noi un sentimento di pena, ci fanno pensare che abbiano qualche filo staccato. Per non violare la loro libertà di campare come gli pare, assistiamo sbigottiti al loro suicidio. Chi avesse un suggerimento per convincerli a farsi dare una mano, non esiti a comunicarlo al Giornale. Provvederemo a inoltrarlo a chi di dovere.
Mentre in Italia si trema per il clima polare, in Vaticano si trama. Niente di nuovo. I preti sono uomini e ne hanno tutti i difetti, forse alcuni di più, tra cui un alto tasso di ipocrisia. E la notizia che un cardinale va in giro a dire (e a scrivere) che c’è un piano per uccidere il Papa viene minimizzata, nascosta, presa sottogamba. Gran parte dell’informazione laica (democratica, antifascista eccetera) intuisce che le alte gerarchie della Chiesa non gradiscono sia data pubblicità all’indiscrezione ( vera), e si presta al gioco. Giornali e tv rinunciano a gridare e parlano del progettato delitto con un fil di voce, in modo che pochi odano e, soprattutto, che all’ombradel Cupolone nessuno si irriti. Missione compiuta.
Ratzinger è angosciato, sta male? Conviene non amplificare. Il Vaticano, pur nel suo declino, rimane un potere. Chi gli si è messo contro si è sempre strinato. E non parlo per sentito dire.
Tanto per stare allegri, un accenno alla Grecia. Da un anno è sull’orlo della catastrofe e, a forza di ripeterlo, non ci facciamo più caso. Il problema è che adesso non è sull’orlo, ma sta precipitando. Questione di giorni. I conti dello Stato ellenico sono un cimitero. La gente, anziché rimboccarsi le maniche, scende in piazza a protestare, come se servisse a qualcosa. Il Paese si paralizza e non produce neanche quel poco che potrebbe.
Il default non è un pericolo: ormai è una realtà.
Il lettore obietterà: e io che ci posso fare? Nulla. Ma è opportuno tener presente che se la Grecia si schianta, e si schianterà a breve, la seguirà a ruota il Portogallo che si trascinerà appresso la Spagna. Tre nazioni fuori dall’euro, indebitate e non in grado di restituire i soldi che si sono fatte prestare, faranno implodere l’Unione europea. Addio moneta unica, addio sogni unitari. Addio Merkel e addio Sarkozy. Ciascuno tenterà di limitare i danni tagliando i ponti con i ruderi della Ue. Si tornerà al nazionalismo. E Mario Monti con i suoi professori? Auguriamo loro di non smarrire la sinderesi. Ci sarà bisogno di calma e sangue freddo. Che, data la stagione, non è impossibile avere. Vittorio feltri, Il Giornale, 12 febbraio 2012
.……Un pò di sana ironia e di altrettanto sano sarcasmo non fanno male, specie nei tempi bui che stiamo vivendo. E per fortuna non siamo ancora giunti ai livelli da tragedia della vicina Grecia dove proprio in queste ore gli affamati delle Merkel e di Sarkozy tengono sotto assedio il Parlamento per costrinerlo a non votare le misure deliranti imposte ai greci. A proposito di tragedia, alcuni decenni fa, quando la “meglio” gioventù di destra non aveva ancora trovato la sua musa nell’ex ministro Meloni, nei raduni giovanili missini si raccontava una barzelletta che pare attuale ancora oggi. Un papà e un ragazzino visitano Montecitorio e guardano dall’alto l’ampia Aula dell’Assemblea. Passano alcuni giorni, il ragazzino, tornando da scuola, interroga il papà: qual’è la differenza tra guaio e tragedia? E il papà, dopo averci riflettuto appena un attimo risponde: ti ricordi l’aula di Montecitorio che abbiamo visitato? Ebbene è crollata e sono morti tutti. Oh Dio, esclama il bambino, che tragedia! E il papà: è questo è il guaio, che non succede mai! g.


Roma bloccata per neve, Berlusconi chiude per sempre con Palazzo Chigi, Monti apre la partita dell’articolo 18. Cos’hanno in comune questi tre fatti? Una sola parola: l’emergenza, metafora dell’Italia di ieri e di oggi. Mentre passeggiavo per le vie della Capitale imbiancata, con la mente sospesa tra la poesia dell’inverno e la prosa del caos pensavo che sul nostro Paese fiocca senza pietà un po’ di tutto. È la nostra storia. Terra di conquista per gli imperi, poi divisa in staterelli con un «volgo disperso che nome non ha» e infine unita nel segno del campanile e della fazione. Eppure gli italiani in fondo riescono a cavarsela sempre, anche quando la loro sorte dipende da un inesorabile stato d’eccezione: la crisi politica, quella economica, la disoccupazione, l’ondata di freddo. Roma congelata, simbolo di un Paese che si risveglia quando c’è lo shock. E allora ecco che nei 280 chilometri di coda, nel traffico in tilt, nei bus senza gomme da neve, nel Grande Raccordo Anulare paralizzato, si consuma la nostra storia collettiva, si realizza la dimensione piccola e grande del nostro «carattere nazionale». Lo ritroviamo nel bene e nel male ogni volta che la cronaca ci offre il materiale buono per la rotativa, la prova, l’evidenza, l’indizio da seguire per capire come siamo fatti e disfatti, apparentemente vinti, perduti e invece mai domi e infine ritrovati. Ieri il naufragio del prode Capitan Schettino che scappa dalla nave Concordia, oggi la nevicata polare sulla Città Eterna. Abbiamo sempre una «via di mezzo» per separarci, unirci, litigare e poi fare la pace. Scuole chiuse, no aperte a metà, perché non si sa mai e in fondo serve a trovare il riparo per i figli, far andare la macchina sulla neve, discutere sul posto di lavoro della gran tormenta e poi la Roma non giocherà e accidenti nevica, governo ladro. E provate voi a spiegare tutto questo a quel buontempone che alla Balduina s’è improvvisato Alberto Tomba, ha messo gli sci, gli occhiali e s’è buttato in slalom tra le macchine parcheggiate. Ma quali Suv, macchè Cortina, questa è l’Italia. I sessantottini non hanno mai capito nulla: qui la fantasia è al potere da sempre. Mario Sechi,Il Tempo, 4 febbraio 2012

Ascolti «nonno Mario», faccia una cosa utile a sé, agli italiani e all’umanità che ancora riesce a ridere e inorridire: licenzi su due piedi il soggetto che è riuscito a mettere nel sito della presidenza del Consiglio, sotto lo stellone della Repubblica, una lettera in cui si sostiene che una bimba di due anni (povera innocente) la riconosce come «nonno Mario, quello che dice le cose giuste per il futuro». Perché vede, gentile Signor presidente del Consiglio, senatore a vita e professor Mario Monti, esiste un limite al rincitrullimento, ma mettere in bocca queste cose a una bimba di quell’età, solennizzarle in una pubblicazione governativa, porta con sé un ridicolo potente, talché, nel breve volgere di poche ore, lei potrebbe divenire assai meno sobrio del suo predecessore. E non so se mi spiego. Credo, voglio credere, e voglio chiarirlo in modo inequivocabile, che lei non c’entri nulla. Che certi zelanti leccapiedi uno se li trova sulla strada e neanche li riconosce. Sono sicuro, voglio esserlo, che lei non ha mai visto quella pagina vergognosa (questo è l’indirizzo: http://www.governo.it/GovernoInforma/dialogo/estratti.html, controlli e agisca in prima persona). Ma ciò non toglie che ora noi la stiamo informando e che lei è tenuto a provvedere subito, al volo, prima che si possa anche solo supporre un qualche suo compiacimento. Perché in un Paese civile quella roba non è consentita. E se non provvederà a tambur battente sarebbe autorizzato il sospetto circa il passo successivo: chiedere alla bambina di denunciare i genitori, ove non assolvano onestamente agli obblighi fiscali o commettano una quale che sia infrazione al codice del vivere in pace con la legge. A utilizzare quel sistema fu Pol Pot, in una sfortunata Cambogia. Confesso di non avere fatto una ricerca specifica, ma credo d’indovinare se affermo che neanche in quel disgraziato regime nessuno s’è mai spinto a immaginare che i bimbi da usare come spie potessero avere meno di tre anni. Immediatamente prima del citato, e disgustoso, messaggio se ne trova un altro, adulto, di chi afferma d’averla vista ospite di Lucia Annunziata e di averne dedotto che lei è persona degna di fiducia. Per quel che può contare, lo penso anch’io. Ma penso anche che se il suo predecessore avesse pubblicato messaggi di tale natura sarebbe stato sommerso da meritate pernacchie. E siccome non posso escludere che l’abbia fatto, ove così sia gli dedico anche la mia. Sentitamente. Però, oggi, in quel posto c’è lei, e, oggi, è lei a prendere spazio nei salotti della televisione di Stato, che quando cesserà di essere tale sarà sempre troppo tardi, ed è oggi che il sito della presidenza del Consiglio pubblica, sotto la dicitura “dialogo con i cittadini”, roba di tal fatta. La faccia rimuovere. Sul serio, e ci faccia sapere che il responsabile sarà assegnato a compiti più consoni alla sua natura, possibilmente non pagati con i soldi delle nostre tasse. A proposito di mestieri, la bambina di due anni non ha scritto la lettera a lei indirizzata, perché, com’è facile intuire, se fosse di così prodigiosa intelligenza e precocità non si dedicherebbe ad un’adulazione così rozza e imbarazzante. A riportare il suo (presunto) pensierino è, così si firma: «una coordinatrice pedagogica di una cooperativa sociale». Faccia cosa di cui tutti le renderanno merito: individui tale sabotatrice d’infanzia, smascheri quest’agente provocatore e, assieme a chi ha messo in pagina cotanto delirio, li avvii verso il loro destino. Servirà anche a chiarire che non sempre strisciando e sbavando s’ottiene il risultato di commuovere e usare il potente di turno. Chiudiamo questo capitolo, attendendo che lei provveda. Grazie, ci faccia sapere. Più in generale, però, occorre guardarsi da un mondo che, come sempre, pratica il servo encomio in attesa di dedicarsi al codardo oltraggio (sintesi perfetta che dobbiamo ad Alessandro Manzoni, il quale discettava di Napoleone, mica cotiche). Mario Monti gode di ottima stampa, e non è difficile supporre che gli faccia piacere. Farebbe piacere a chiunque. Ma il potere è una strana bestia, una mantide che pratica l’amore preparando la morte. Se quando lo spread arriva al 420 i giornali scrivono che va alla grande, che bene così, che solo ora si respira, poi sarà difficile spiegare che a quei livelli facciamo rotta verso il naufragio. E siccome i lecchini odierni saranno feroci, proprio perché vili, domani scriveranno che il governo ha fallito, laddove, invece, la questione era, è e sarà del tutto diversa: o si ristruttura l’euro e l’Unione europea o nulla di quel che vediamo è destinato a durare. Se quando il governo annuncia che si farà un’autorità nazionale per stabilire quante licenze taxi ci vogliono a Bari i giornali scrivono che questa è l’alba delle radiose liberalizzazioni, domani saranno pronti a gettare l’onta del fallimento su chi ebbe l’idea bislacca di chiamare in quel modo ciò che somiglia, più che altro, ad un incubo centralista, statalista e programmatore. Se per mettere le tasse si procede decretando e per cancellare il rudere del valore del titolo di studio si avvia una «consultazione pubblica» (ma che è?), mentre chi commenta omette d’osservare che la cosa è vagamente dissennata, va a finire che il massimo delle contestazioni si concentrerà su quel che non esiste, resuscitando l’estremismo sconclusionato. Se si lascia che il presidente del Consiglio continui a ripetere, con un vezzo di falso imbarazzo simile alla pudicizia dell’amante focoso, che pare, sembra, mi dicono che nei sondaggi il governo è popolarissimo, e nessuno fa mostra di volere ricordare che le democrazie non funzionano con l’applausometro, va a finire che quando poi si vota e il Parlamento si riempie d’antagonisti taluno, per non ammettere la propria imbecillità, sosterrà essere colpa del governo in carica. Con tutti i suoi pregi, che ci sono, e i suoi difetti, che non mancano punto, il governo Monti è il migliore possibile in questo scorcio di legislatura. Sappiamo tutti che non ha legittimazione elettorale, mentre è affollato d’ambizioni politiche. E passi. Ma è un grave errore lasciarsi cullare dal dondolio del consenso acritico e un po’ buffonesco, perché è vero che nessuno resiste all’adulazione, ma è anche vero che chi si lascia andare con tanta lascivia rischia di precipitare in un incubo. Quindi, gentile «nonno Mario»: le si offre una ghiotta occasione, consistente nel far vedere che certe cretinerie non le sono solo estranee, ma anche odiose. Che le ripugna anche la sola idea si possa praticare questo genere di pedofilia lecchina e che, quindi, il responsabile va a casa. Davide Giacalone, Il Tempo, 31 gennaio 2012
Dell’uomo e del politico Oscar Luigi Scalfaro sono stato a lungo tra gli estimatori e amici. Di un’amicizia da lui ricambiata e rafforzata da una comune disavventura, al termine del congresso nazionale della Dc nel 1976, conclusosi con l’elezione diretta di Benigno Zaccagnini a segretario. Alcuni scalmanati, di notte, ci attesero all’uscita per deriderci e gridarci: «Per voi borghesi è finita». Io lavoravo al Giornale. Lui si era inutilmente speso per l’elezione di Arnaldo Forlani. Memore anche di quella notte, stentai a riconoscerlo nei panni di presidente esordiente della Repubblica nella primavera del 1992. Fui talmente sorpreso, diciamo pure traumatizzato, dal contributo che il nuovo capo dello Stato decise di dare, sotto l’effetto delle indagini e degli arresti per Tangentopoli, allo sconfinamento delle Procure della Repubblica che mi rifugiai in un’allucinazione. Pensai e scrissi che quello in attività al Quirinale fosse un sosia di Scalfaro, essendo stato quello vero sequestrato da qualche misteriosa banda. Fu naturalmente anche la fine della nostra amicizia. L’ombra del sosia mi comparve la prima volta il giorno in cui seppi che il Presidente, alle prese con gli incontri politici di rito per la formazione del primo governo della legislatura uscita dalle urne del 5 e 6 aprile di quell’anno, aveva ritenuto di consultare anche il capo della Procura della Repubblica di Milano, Francesco Saverio Borrelli, per informarsi sulle indagini note come “Mani pulite”. E ne ricavò la convinzione che Bettino Craxi, per quanto destinato a ricevere i primi avvisi di garanzia solo a fine anno, dovesse sin d’allora pagare pegno. Al suo posto egli mandò a Palazzo Chigi Giuliano Amato, facendolo proporre dallo stesso segretario del Psi. La seconda volta l’ombra del sosia mi comparve nel 1993, quando il Quirinale annunciò che Scalfaro aveva negato la firma a un decreto legge appena varato dal governo per la cosiddetta uscita politica da Tangentopoli. Eppure l’allora Guardasigilli Giovanni Conso riteneva di avere concordato ogni cosa direttamente o indirettamente con il capo dello Stato. Ma, tra le decisioni del Consiglio dei Ministri e l’annuncio del diniego della firma del presidente della Repubblica, vi fu una clamorosa protesta pubblica del capo della Procura di Milano in persona. Si era ormai passati dalle Procure della Repubblica alla Repubblica delle Procure. Di lì a poco l’ombra del sosia tornò a farmi capolino con un messaggio televisivo del presidente della Repubblica contro il tentativo mediatico da lui ravvisato di coinvolgerlo in una brutta storia di fondi segreti passati anche per le sue mani, o i suoi uffici, negli anni in cui era stato il ministro dell’Interno di Craxi. A chiamarlo in causa erano stati alcuni funzionari finiti sotto indagine e in carcere. Ai quali poi nella Procura di Roma, anche a costo di contrasti interni rivelati in un libro da Francesco Misiani, che ne aveva fatto parte, si decise di reagire contestando loro il reato gravissimo di attentato al funzionamento delle istituzioni. «Io non ci sto», gridò il capo dello Stato nel pieno della bufera davanti alle telecamere. Ma per uscire davvero dalla vicenda, riproposta con un esposto giudiziario dal suo ex amico ed ex guardasigilli Filippo Mancuso, egli dovette aspettare la fine del suo mandato presidenziale. Un’altra volta ancora l’ombra del sosia mi comparve nella primavera del 1994. Fu quando il capo dello Stato, non potendo proprio fare a meno di conferire l’incarico di presidente del Consiglio a Silvio Berlusconi, uscito vittorioso dalle urne del 27 e 28 marzo, decise e annunciò di accompagnarne la nomina con una lettera quanto meno inusuale di indirizzo politico. Il nuovo capo del governo avrebbe dovuto attenervisi nella sua azione, al di là degli stessi vincoli parlamentari connessi alla fiducia. Impertinente e ossessiva, quell’ombra tornò dopo qualche mese ad allungarsi. E trovò anche una descrizione nei racconti di Umberto Bossi. Che rivelò, in particolare, la cordialità e gli incoraggiamenti ottenuti al Quirinale nella preparazione della prima rottura con il Cavaliere. Fu sul Colle che il leader leghista si sentì assicurare che una crisi di governo non sarebbe sfociata nelle elezioni anticipate, temutissime allora dalla Lega. Esse infatti seguirono non di pochi mesi ma di più di un anno il primo allontanamento di Berlusconi da Palazzo Chigi e la sua sostituzione con Lamberto Dini: il tempo necessario perché la sinistra e il centro post-democristiano si organizzassero sotto l’Ulivo di Romano Prodi e vincessero le elezioni del 1996. Tre anni dopo si concluse il mandato presidenziale di Scalfaro. Ed io mi illusi che fosse finito anche l’incubo del sosia. Ma mi sbagliavo. Anche da ex presidente, o presidente emerito della Repubblica, continuarono a mischiarsi e a sovrapporsi impietosamente nella mia immaginazione i due Scalfaro: quello buono di una volta, scampato con me alla «fine dei borghesi», e quello irriconoscibile del Quirinale. E di Palazzo Madama, dove egli continuò a ritenersi mobilitato contro il Cavaliere, sia quando questi era di suo all’opposizione, sia quando questi tornò al governo. E osò varare nel 2006 una riforma della Costituzione con una maggioranza inferiore ai due terzi del Parlamento, per cui fu necessaria la verifica referendaria. A guidarne la campagna fu proprio Scalfaro, avvolto sulle piazze nella bandiera di una Repubblica e di una Costituzione a suo avviso minacciate dal Cavaliere. Se quella riforma non fosse stata bocciata, avremmo potuto avere già adesso, fra l’altro, meno parlamentari e un bicameralismo differenziato. Un’occasione quindi mancata grazie anche a lui. La cui morte merita naturalmente rispetto, ma non l’ipocrita partecipazione ad un coro d’elogi sperticati. Francesco Damato, Il Tempo, 30/01/2012
