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VERGOGNE ITALIANE: UNA DONNA IN COMA VIENE LICENZIATA PERCHE’ “INTRALCIA L’ATTIVITA’ PRODUTTIVA”

Pubblicato il 14 luglio, 2011 in Costume, Cronaca | No Comments »

Una donna incinta era stata ricoverata per un’aneurisma cerebrale: la figlia, in bilico tra vita e morte per quattro mesi, è nata prematura, con un parto cesareo, il 31 maggio del 2010. La stessa donna, però, non si risveglia: resta in stato vegetativo. E viene licenziata perché l’azienda dove lavorava come operaia da 16 anni – la Nuova Termostampi di Lallio, in provincia di Bergamo – rileva che ha effettuato 368 giorni di malattia più del dovuto.
“Ha superato il periodo di conservazione del posto di lavoro”, spiega la società. Che aggiunge: “La discontinuità della prestazione lavorativa crea evidenti intralci all’attività produttiva”. Per il marito, che poco prima del licenziamento aveva chiesto all’azienda che fosse concesso alla moglie di usufruire delle ferie accumulate negli anni, si tratta di una macroscopica ingiustizia. Così si rivolge alla Cgil di Bergamo per impugnare il licenziamento. Quello che chiede è semplicemente il rispetto della moglie in coma, e che venga riassunta.

La ditta, però, non vuole sentire ragioni. La Nuova Termostampi ha un’altra verità. Così l’amministratore delegato risponde al sindacato: “Preso atto del comunicato della Cgil, si ritiene che le informazioni siano altamente fuorvianti della realtà dei fatti e lesive dell’immagine aziendale. L’azienda provvederà a intraprendere tutte le iniziative del caso al fine di tutelarsi nelle opportune sedi”. Ma a dispetto delle “informazioni altamente fuorviani”, la donna è in coma e non ha più un lavoro.

TAV: E’ TORNATA L’ITALIA DEL NO, di Bruno Vespa

Pubblicato il 5 luglio, 2011 in Costume, Economia, Politica | No Comments »

E’ tornata in pista l’Italia del no. L’Italia che resta l’unica grande nazione d’Europa senza nucleare, ma non vuole nemmeno le centrali a carbone e blocca la costruzione dei rigassificatori, nell’illusione che le energie alternative possano darci da sole tutto il necessario per illuminare, scaldare, produrre a prezzi compatibili. L’Italia che boccia la partecipazione dei privati alle società pubbliche che distribuiscono l’acqua senza porsi il problema di chi tirerà fuori i 60 miliardi d’investimenti necessari a costruire una rete che non perda metà del prodotto. E adesso rispunta l’Italia del No Tav e del no alla gestione dei rifiuti in Campania con i criteri in vigore nel resto del mondo industrializzato.
Ci sono voluti 800 poliziotti in prima linea e 1.200 carabinieri di riserva per aprire lunedì 27 giugno il cantiere della Val di Susa dopo un decennio di scontri e di progetti variati: appena tre giorni prima del termine ultimo stabilito dall’Europa per non ritirare i 671 milioni del primo finanziamento. Ma intanto, nello stesso decennio, i francesi (che pure qualche mugugno hanno dovuto subirlo) hanno scavato tre gallerie per 9 chilometri. Perché da noi solo con i lacrimogeni e con presidi permanenti di forze dell’ordine si può raggiungere una faticosa normalità?

E Napoli? Dopo 15 anni di Rinascimento di Antonio Bassolino è cominciato un nuovo ciclo: la Rivoluzione di Luigi De Magistris. In una raffinata intervista ad Andrea Marcenaro per Panorama, il nuovo sindaco di Napoli si è collocato un gradino sopra Pier Luigi Bersani, Antonio Di Pietro e Nichi Vendola. Gli altri sono leader di partito, lui è un leader politico. Mentre guarda legittimamente a esportare a Roma la Rivoluzione napoletana, De Magistris deve affrontare lo sgradevole problema dei rifiuti. I cinque giorni in cui tutto sarebbe stato risolto, secondo le promesse elettorali, sono passati da un pezzo. Deve di nuovo intervenire il governo e non si sa come la storia andrà a finire. Il sindaco sostiene di avere bisogno solo di un paio di mesi per tamponare l’emergenza, poi la raccolta differenziata risolverà ogni cosa. C’è naturalmente da augurarselo, anche se in nessuna città italiana, nemmeno quelle che hanno avviato il percorso virtuoso da molti anni, la differenziata ha risolto da sola il problema, senza discariche e senza termovalorizzatori. De Magistris ha sposato in pieno la linea di Alfonso Pecoraro Scanio, l’ex leader dei Verdi la cui carriera politica è stata stroncata proprio dai rifiuti di Napoli. Dice contro ogni evidenza che l’impianto di Acerra (aperto a suo tempo dal governo Berlusconi con lo stesso spiegamento di forze richiesto dal cantiere No Tav) è sufficiente da solo, gli altri tre faticosamente previsti non servono. Che San Gennaro l’assista.
La tragedia italiana sta nel fatto che i no al nucleare, ai consorzi pubblici o privati per l’acqua, alla Tav, ai termovalorizzatori non sono l’eccezione, ma la regola. Sono la punta clamorosa di un iceberg che vede le lobby di ogni settore paralizzare la modernizzazione del Paese.

I professori non vogliono essere giudicati e non accettano che i migliori di loro guadagnino di più. Di qui prima la lotta, poi la resistenza passiva alla riforma Gelmini alla quale si sono opposti fermamente anche i baroni universitari timorosi di perdere antichi privilegi di casta. Gli studenti fanno di malavoglia i test internazionali di valutazione. I medici si oppongono alla chiusura di tanti piccoli e inutili ospedali dove si fa un numero d’interventi così ridotto da non garantire una qualità minima, mettendo in pericolo la salute dei cittadini che pure si battono perché quelle strutture restino in piedi. Gli avvocati boicottano la mediazione obbligatoria che fa risparmiare ai cittadini anni di processi (e di parcelle).

I magistrati non vogliono sentire parlare di una riforma che sarebbe solo un timido avvicinamento all’organizzazione internazionale prevalente. I farmacisti fecero l’inferno quando Bersani stabilì che le aspirine si potessero vendere anche nei supermercati. L’Ordine dei giornalisti continua ad accettare iscritti destinati alla disoccupazione. E si potrebbe continuare. L’Italia è ferma. Viva il no! Bruno Vespa, Panorama

IL GELATO SPACCA L’ITALIA: AL NORD COSTA IL DOPPIO

Pubblicato il 29 giugno, 2011 in Costume, Cronaca | No Comments »

Chi rinuncerebbe a un bel gelato quando la temperatura sale a trentacinque gradi? Pochi, pochissimi. La stragrande degli italiani è infatti golosa e ama il cono anche se costa quasi come una pizza margherita. Già, perché il giro di affari attorno a cialde e coppette ha sfiorato i 2 miliardi di euro nel 2010 e c’è da scommettere che quest’anno la cifra sarà superata per i rincari che non guardano in faccia a nessuno. Ma gli appassionati sono capaci di rinunciare alla verdura o alla frutta o all’intero pranzo pur di gustarsi il loro alimento calorico preferito. E poi si sa, un gelato può sostituire il pasto. Purché sia buono e genuino. Purtroppo, più gli ingredienti sono sani e più il gelato costa. Ma il prezzo dipende anche da dove si acquista. E in fatto di gelati il federalismo è già diventato una realtà. Al Nord (manco a dirlo) si spende molto di più. Da un’indagine di Altroconsumo emerge che Milano è la città più cara dove concedersi un cono: qui i prezzi oscillano tra 1,70 e i 2,50 euro per un cono piccolo e tra i 2,20 e i 3 euro del cono medio. Per acquistare un chilo di gelato, invece, si possono spendere dai 14 ai 24 euro, quanto un chilo di pesce spada. Un vero salasso. Segue a ruota Sorrento, che si contende il primato del secondo posto con Santa Margherita Ligure. Seguono Rimini e poi Roma. Per risparmiare bisogna scendere al Sud, molto al Sud. E arrivare a Palermo, città godereccia dove un cono piccolo a due gusti si può rimediare a un euro, mentre per un cono medio si spende dall’euro e cinquanta ai due. E poi ci sono le vie di mezzo. La campionatura è stata effettuata su 7 capoluoghi (Milano, Roma, Napoli, Bari, Genova, Rimini e Palermo) e 5 località di mare (Lido di Ostia, Sorrento, Santa Margherita, Mola e Mondello). E il costo varia molto, con una differenza vicina al 40% tra prezzo minimo e prezzo massimo.

Un’ingiustizia vera e propria per i golosi indefessi. Che si consolano almeno sulla scelta. Sono circa seicento i gusti disponibili (ne hanno fatto uno anche al pollo, per gli amici a quattro zampe) e dunque si può spaziare dalla liquirizia al puffo, dalla crema di riso al croccantino.

I gusti preferiti? Tengono testa, senza rivali, i classici. I più gettonati rimangono cioccolato, nocciola, limone, fragola, crema e stracciatella. Le soluzioni più creative, compreso le misture alla frutta esotica e non, scendono in secondo piano. Regge bene il pistacchio, ma solo se genuino e se fatto con i famosi pistacchi siciliani di Bronte. E visto che l’offerta diventa sempre più creativa, la domanda cresce di anno in anno. Tra gelati artigianali e industriali, le famiglie italiane spendono in un anno 1,9 miliardi di euro, per un totale di 82 euro a famiglia. Al Nord si scuce mediamente di più. Qui, per una media di 94 euro a famiglia, la spesa rappresenta il 52,9% del totale. Quella del Mezzogiorno è invece il 24% della spesa nazionale e si scende al 17% nel Centro Italia.

IN RICORDO DI ALFREDO COVELLI, CONSERVATORE LIBERALE

Pubblicato il 29 giugno, 2011 in Costume, Politica | No Comments »

Riprendiamo dal Corriere dell’Irpinia questo  ritratto di Alfredo Covelli,   leader carismatico del partito monarchico  che fu costantemente impagnato a  costruire  una destra  democratica e unita, alternativa alla sinistra. L’ultima volta che lo incontrammo fu in occasione delle esequie di Ernesto De Marzio (1995)  insieme al quale Covelli aveva dato vita a Democrazia Nazionale. Ebbe per chi scrive  parole affettuose e di affettuoso ricordo delle battaglie condotte insieme all’insegna di quel grande sogno che appartenne e appartiene a tutti i moderati italiani: un grande  centro destra nel quale far confluire tutti i moderati, i liberali, i conservatori italiani, questi ultimi  nel solco del pensiero di Giuseppe  Prezzolini.  Tre anni dopo, nel 1998, la morte lo colse non più impegnato direttamente ma sempre attento  agli eventi politici che, proprio in quegli anni, volgevano a favore della realizzazione di questo grande sogno. Il ricordo del Corriere dell’Irpinia (Covelli nacque e morì a Bonito, paesino dell’Irpinia) è stato originato dalla presentazione della raccolta degli scritti e dei discorsi politci di Covelli patrocinata dalla Camera dei Deputati della quale Covelli fece parte ininterrottamente dalla Costituente  (1946) sino al 1979 partecipando con rara capacità e valente impegno alla vita politica nazionale. g.

27/06/2011

Quando, nel Natale del 1998, l’onorevole Alfredo Covelli morì a Roma, a Palazzo Chigi c’era l’ex comunista Massimo  D’Alema che, nel suo messaggio di cordoglio alla famiglia, seppe efficacemente cogliere il principale elemento ispiratore della lunga missione politica e parlamentare del carismatico leader monarchico. Una missione cominciata nel 1946, a poco più di trent’anni, con la prima elezione a Montecitorio, dove fu protagonista attivo fino al 1979. Ponendo l’accento sul «lungo ed appassionato impegno politico, segnatamente nell’Assemblea costituente e nella costruzione delle forze politiche della destra italiana»,  D’Alema ne valorizzò il  ruolo di costruttore ante litteram di una possibile e credibile alternativa di destra conservatrice e non reazionaria nel sistema politico repubblicano. Una linea, a dire il vero, spesso appannata dalle componenti demagogiche e popolane del movimento (soprattutto nel Mezzogiorno, dove si trovava il maggior bacino elettorale della stella e corona che, non va dimenticato, si esprimeva anche attraverso l’anima del laurismo, politicamente meno colta e raffinata) ma che pure era efficacemente servita ad incanalare nel circuito democratico un consistente numero di italiani ancora ostili al regime repubblicano.  Questo merito gli venne significativamente riconosciuto dallo stesso presidente del Senato Nicola Mancino, che  volle rendere omaggio al suo antico avversario (da giovane democristiano, aveva combattuto tenacemente più i monarchici  che i comunisti), ricordandone la « passione di italiano, la  cultura, l’oratoria di rara efficacia, la lealtà nei confronti dell’ordinamento repubblicano, pur nella fedeltà all’istanza monarchica». Anche Giulio Andreotti lo salutò con affetto: «Non credo – disse al “Tempo”-  che Covelli abbia mai pensato alla restaurazione monarchica e so che ad un certo punto fu lo stesso sovrano a mettere un freno all’attivismo partitico dei monarchici», aggiungendo poi che il segretario dei monarchici ebbe anche «l’occasione di essere determinante: fu nel ‘53 quando gli alleati voltarono le spalle alla Dc e De Gasperi chiese al partito monarchico di lasciar passare alla Camera il suo ottavo governo».
Insomma, nel momento della scomparsa, il mondo politico italiano (naturalmente quello più attento alla storia politica della nazione) lo annoverò tra i padri nobili di quel progetto politico giunto ad effettivo compimento appena qualche anno prima, allorché la destra già missina e monarchica era riuscita ad entrare nella stanza dei bottoni. Non è un caso che sia stato proprio il presidente della Camera Gianfranco Fini a firmare la presentazione del volume che raccoglie gli scritti e i discorsi politici di Covelli, la cui pubblicazione è stata resa possibile grazie alla donazione del suo prezioso fondo documentario all’Archivio storico della Camera (il volume è stato presentato nei giorni scorsi a Bonito, grazie ad un convegno organizzato dal centro studi “Alfredo Covelli e Francesco Caravita”  in collaborazione con “L’Osservatorio sui processi di governo e sul federalismo” e la locale amministrazione comunale: dell’evento il  nostro quotidiano ha già offerto ampi resoconti)
L’impostazione critica del volume (che, oltre alla presentazione di Fini, contiene gli illuminanti saggi introduttivi di Francesco Perfetti e  Beniamino Caravita di Toritto) conferma, sul piano più eminentemente storico-critico, i giudizi già delineati all’indomani della morte di Covelli.
Colpisce, in particolare, il tentativo appassionato ma frustrato, perseguito soprattutto negli anni Sessanta, di coinvolgere il Partito Liberale nel progetto di fondazione di un polo democratico-conservatore alternativo all’egemonia politica ed economica del centrosinistra  ispirato da Aldo Moro e Pietro Nenni (non va mai dimenticato che Covelli fu eletto alla Costituente nella lista liberale dell’UDN di Francesco Saverio Nitti, Vittorio Emanuele Orlando e Luigi Einaudi). Di fronte al diniego di Malagodi e del suo partito, Covelli rispose con orgoglio: « rivendichiamo per noi non diciamo l’eredità, ma la continuità, di ciò che vi è di migliore, di ciò che vi è di vitale nella tradizione liberale italiana, da Camillo Benso, Conte di Cavour a Giovanni Giolitti».
Il tramonto del progetto e la progressiva erosione di consensi elettorali (era ormai venuto meno l’antico richiamo istituzionale) lo spinsero al forzato connubio con Giorgio Almirante, che ebbe un relativo successo elettorale nel 1972 ed ancora nel 1976, quando però si consumò la rottura traumatica tra i due leader (peraltro favorita dalla destra democristiana, in cerca di sponde alternative alla strategia del compromesso storico). A questo proposito, Perfetti  ha notato che «proprio nella chiave di lettura della formazione di una destra moderna, moderata e costituzionale va ricordata la partecipazione alla fondazione del Msi-Destra nazionale, di cui fu presidente, e la pur breve esperienza di Democrazia nazionale, dal 1976 al 1979».
Dal citato volume “Scritti e discorsi” proponiamo un ampio e significativo stralcio della lettera inviata a Giorgio Almirante all’indomani dello strappo. Lo scritto ribadisce efficacemente le convinzioni ideali di Covelli, costretto a prendere atto che il MSI-DN si ostinava a non intraprendere la tanto auspicata e sognata svolta liberale.
LE PAROLE DI COVELLI
Caro Almirante, al punto in cui sono giunte le vicende del Partito, dopo la drastica decisione presa ieri dall’Esecutivo, non posso che registrare la definitiva totale vanificazione di tutti i miei tentativi, di tutte le mie speranze. Ho creduto fino all’ultimo che si potesse salvare l’unità, convinto che questa valesse qualsiasi sacrificio. Mi sono purtroppo sbagliato: ne sono profondamente deluso ed amareggiato.
In queste condizioni non mi sento più a mio agio nel Partito che insieme a te avevo contribuito a rifondare in uno spirito unitario e di pacificazione che i nostri avversari ci avevano invidiato: non mi sento più a mio agio nel Partito che gradualmente ad opera dei tuoi più stretti collaboratori si è andato allontanando dalle posizioni che erano state fissate nel Congresso Nazionale del 1973 […] Intanto si intensificava alla base, ad opera di tuoi amici e collaboratori, una assurda campagna di linciaggio morale contro chiunque dissentisse, lasciando rispuntare offensivi motivi discriminatori che erano stati banditi all’atto della costituzione della Destra nazionale.
Ti confermo che non ero al corrente della decisione dei deputati di “Democrazia Nazionale” di entrare nella Costituente di Destra, accettando l’invito di quella organizzazione per la costituzione di un gruppo parlamentare autonomo. Prescindo dalle valutazioni formali e, riferendomi a un giudizio di merito, ritengo che quei deputati, aderendo alla Costituente di Destra, abbiano inteso, come hanno poi spiegato, riaffermare la loro convinzione circa la validità della scelta irreversibile del sistema costituzionale italiano, sistema di libertà e di democrazia.
Al tuo posto li avrei inseguiti, sissignori, li avrei inseguiti, per un’ultima amichevole spiegazione e per un’ultima amichevole contestazione, sempre con l’intento, fors’anche disperato, di salvaguardare l’unità del Partito: penso ancora oggi che sarebbe stata vieppiù nobilitata la tua funzione, sia che il tuo tentativo avesse sortito esito positivo, sia che avesse sortito esito negativo.
Invece su tua proposta, con una decisione che giudico a dir poco affrettata, hai fatto dichiarare quei deputati decaduti dalla qualità di iscritti al Partito, senza sentire il bisogno di convocare per questa decisione di così grave rilevanza il Comitato Centrale o la Direzione del Partito: l’Esecutivo, che è un tuo organo fiduciario, a mio avviso, non avrebbe potuto, non avrebbe dovuto, in questa occasione, assumersi una così pesante responsabilità con un provvedimento che non poteva non significare irreversibile rottura e quindi conclusione fatalmente negativa dei fini e delle speranze che erano stati indicati al momento della costituzione della Destra nazionale.
Sicché, caro Almirante, consentimi di dirti che il Partito che tu oggi  dirigi non è o non mi sembra più quello in cui io sono entrato nel 1972: per la qualità delle assenze che purtroppo oggi si debbono registrare dopo la decisione dell’Esecutivo e per la qualità di certe presenze che ne squilibrano l’asse politico interno.
Sono venute cioè a mancare le ragioni per le quali in piena coscienza e con il massimo entusiasmo io entrai nel Partito. Obbedii certamente allora ad un dovere politico e morale, entrando e facendo entrare insieme a me nel MSI-DN tantissimi amici monarchici: ritengo di obbedire oggi ad analogo dovere politico e morale dimettendomi dal Partito così come oggi appare caratterizzato.
Ti prego di credere che la mia decisione è accompagnata da profondo rammarico, posso dire da sincero dolore; non si possono dimenticare, infatti, nel momento del commiato, tanti amici con i quali si è combattuto assieme in una difficile ed esaltante trincea.
Continuerò la mia battaglia come e dove potrò, con i sentimenti e gli ideali per i quali e con i quali ci siamo incontrati: sentimenti ed ideali che se professati e sostenuti in buona fede, non potranno, io credo, io spero, non farci incontrare ancora.

Con i più cordiali saluti.  Alfredo Covelli.



RIFIUTI A NAPOLI: CARO DE MAGISTRIS, ARRANGIATI O DIMETITTI

Pubblicato il 28 giugno, 2011 in Costume, Cronaca, Politica | No Comments »

Caro sindaco di Na­poli, Luigi De Magi­­stris, vorrei avere la cittadinanza na­poletana e spero che lei me la possa concedere. Mi serve allo scopo di par­lare schiettamente della monnezza senza rischia­re di essere accusato di antinapoletanità. Ri­schio che oggi, per me co­me per tutti coloro che ne discutono, è una certez­za. Recentemente ho par­tecipato a una puntata di Annozero. Michele Santo­ro è stato gentile e rispet­toso, in linea di massima, ma quando ho discettato di rifiuti che minacciava­no, già un mese fa, di soffocare la città, ho argui­to che non gradi­va le mie argo­mentazioni. Le solite: bisogna che le ammini­strazioni locali provvedano da sé a smaltire la sozzeria; non possono sempre, oggi co­me anni fa, puntare sul­l’aiuto del governo cen­trale, dello Stato, di altre regioni. Neanche avessi bestemmiato in chiesa. Il conduttore, spazientito, ha commentato: questo significa che tu abbando­neresti volentieri Napoli al suo destino, quello di soccombere all’immon­dizia. Non era questo il senso del mio discorso. Al contrario, ero e sono convinto che in casi di emergenza tutta l’Italia debba intervenire a Na­poli e altrove per dare una mano ai compatrioti in difficoltà. Che cos’è l’emergenza? È un fatto eccezionale che una sin­gola città o regione non è preparata ad affrontare autonomamente. Ma le lordure partenopee non sono assolutamente una calamità che ha colpito al­l’improvviso il Comune. Altrimenti saremmo de­gli incoscienti a non anda­re in soccorso dei fratelli napoletani.

Le suddette lordure purtroppo sono una ma­lattia endemica, fanno parte da qualche lustro della normalità, del pae­saggio vesuviano, esatta­men­te come i pini maritti­mi delle famose cartoline illustrate. Se­gno che i sinda­ci, le giunte e la cittadinanza non sono stati capaci di preve­nire il fenome­no né di repri­merlo e si sono rassegnati a su­birlo, confidan­do­nella collabo­razione di altre ammini­strazioni. Finora in effetti è stato così.

Alcuni anni orsono, Ro­mano Prodi «regnante», esplose il dramma mon­nezza, la stessa situazio­ne odierna. Il governo di centrosinistra, totalmen­te disarmato, fu costretto a prenderne atto, chie­dendo una mano a varie regioni affinché si impe­gnassero a realizzare ciò che la Campania non era in grado di fare: smaltire il grosso della spazzatu­ra. Il che avvenne solo parzialmente. Di lì a po­co, Prodi cadde; e comin­ciò la campagna elettorale, protagonista Silvio Berlusconi, che promise: sistemerò la questione in fretta. Fu di parola. La Protezione civile si prodigò e compì il miracolo. Strade linde, niente più pile di lerciume né cattivi odori.

Trascorsi tre anni, ci risiamo: solita scena, schifezze in ogni luogo. Perché? Ovvio. Come sostenevo all’inizio, un conto è gestire l’emergenza (e il premier la gestì in modo appropriato, col capo della Protezione, Guido Bertolaso), un altro è creare le premesse organizzative affinché non se ne presenti più un’altra. A chi toccava crearle? È evidente. Agli enti territoriali, secondo un modello consolidato e che funziona dalle Alpi alla Sicilia: ogni comunità, dalla più piccola alla più grande, smaltisce i propri rifiuti.

Tutti gli italiani si sono adeguati alla regola eccetto i napoletani. Che sono però le prime vittimedell’inefficienza dei loro rappresentanti democraticamente eletti. Vittime anche della camorra, afferma qualcuno, la quale briga per mantenere lo status quo al fine di ottenere l’appalto (ricco) del trasporto e dell’eliminazione del pattume. Sarà vero? Non sono addentro alla segrete cose della criminalità, ma so che essa nasce e si sviluppa nelle zone in cui il tessuto sociale è marcio. La camorra, come la mozzarella di bufala, è un prodotto campano tipico e non viene importato da Lugano o da Pordenone. Se inoltre analizziamo la grana immondizia sulla base delle cifre a disposizione, ci accorgiamo che la tassa comunale sui rifiuti di Napoli è la più alta d’Italia, però circa l’80 per cento della popolazione la evade, giustificandosi in maniera apparentemente corretta: il servizio non c’è, scemo chi lo paga.

Il concetto è limpido. Ma la riflessione si può rovesciare: finché la gente non paga un servizio, non ne usufruirà mai. Chi è nel giusto e chi sbaglia? Lo chiediamo a lei, signor sindaco, visto che ha vinto le elezioni puntando proprio su questo problema e giurando di risolverlo all’istante. Le ricordo una sua battuta imprudente: votatemi, e in cinque giorni renderò Napoli linda quanto non lo fu mai. Concordo con lei che in campagna elettorale qualche spacconata è lecita. Cinque giorni sono un’inezia? Facciamo dieci. Massì, largheggiamo: quindici. Poi però è necessario fare qualcosa di concreto, tangibile. E lei invece fin qui si è limitato a piagnucolare, dando la colpa a tutti, perfino a Berlusconi, del lerciume che continua a essere l’elemento di maggior spicco in città.

Mi domando come le sia venuto in mente di sbilanciarsi tanto: cinque giorni e vi restituirò la metropoli nel suo splendore. Ma chi credeva di essere,San Gennaro?Tra l’altro lei, bullismo a parte, ha sbandierato una ricetta a suo dire miracolosa, in realtà insensata: imporrò ai napoletani la raccolta differenziata e le sconcezze spariranno.

Termovalorizzatori (inceneritori), neanche a parlarne. Perché danneggiano la salute e sono inutili. Udendo queste sciocchezze le confesso di essere rimasto basito. Un quesito. Diamo per buono che lei sia all’altezza di pretendere la raccolta differenziata. Poi che se ne fa? Dove la nasconde, sotto il tappeto? La getta in mare o nel cratere del Vesuvio? La spedisce a Nichi Vendola? Oppure a Giuliano Pisapia (Roberto Formigoni non se la piglia, si metta il cuore in pace)?

Differenziata o no, l’immondizia o si brucia negli impianti appositi oppure giace lì e, come dice il leghista Matteo Salvini, tocca mangiarla.

Tertium non datur . A meno che lei non abbia in testa un’idea strana che le consiglio subito di accantonare in quanto irrealizzabile: e cioè impacchettare per bene la sporcizia e inviarla in Germaniaperché i tedeschi si incarichino, dietro compenso, a incenerirla. Nell’eventualità, chi salderebbe le fatture? Lo Stato ovvero tutti noi? Se lo scordi.Per quale motivo l’Italia intera sacrifica risorse ingenti per smaltire in casa tonnellate di monnezza, e solo Napoli – dato che a lei non piacciono i termovalorizzatori – reclama il diritto a rifilarla ad altri gratis o comunque a spese della collettività?Caro sindaco, è risaputo che adesso lei attenda fiducioso l’approvazione di un decreto che la tolga dai guai in cui si è ficcato da sé, garantendo ai suoi concittadini di possedere virtù soprannaturali. Può darsi che Berlusconi le venga incontro, e che Bossi mandi giù un’altra palata di pattume, giusto per dimostrare a chi l’ha votata di essere più bravi di lei. Ma se le lanceranno una scialuppa di salvataggio, sappia che è l’ultima. Dopo di che imparerà ad arrangiarsi oppure a ( dignitosamente) dimettersi. VITTORIO FELTRI

LA GIUSTIZIA BORDELLO DEL PM AMMAZZA BERLUSCONI

Pubblicato il 28 giugno, 2011 in Costume, Cronaca, Giustizia | No Comments »

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Due ragazze, una delle quali con precedenti esperienze di sesso a pa­gamento, riescono a farsi invi­tare a una serata ad Arcore. Ce­nano con altra gente assieme a Berlusconi, poi tornano subi­to a casa non senza ringrazia­re via sms per la squisita accoglien­za e la bella espe­rienza. Sette mesi dopo leggono sui giornali dell’in­chiesta Ruby e, as­sistite da una avvo­catessa dell’Italia dei Valori, si fan­no­ avanti per chie­dere i danni mora­li, in quanto turba­te da quanto visto e letto.

La questione puzza lon­tano un miglio di furbata, ma non per il tribunale di Milano che ieri ha accolto la loro ri­chiesta di costituirsi parte civi­le. Se questo è l’inizio del pro­cesso al Bunga Bunga, figuria­moci la fine. Una sentenza di fatto già scritta, che per colpire Silvio Berlusconi passa anche attraverso Emilio Fede, Lele Mora e Nicole Minetti, tutti e tre colpevoli di essere amici del premier e di aver frequentato Arcore con assiduità.

Ma ieri, prima udienza, i Pm sono andati anche oltre, definendo l’abitazione del pre­mier un bordello. Offesa a par­te, cosa ne sa un magistrato dei bordelli? Quando la sera un Pm si ritira a casa sua con l’amica che maga­ri ca­mbia ogni set­timana, la sua abi­tazione come la si definisce? Quan­do il medesimo è in libera uscita con l’amante, che succede? Commet­te un reato o sem­plicemente eserci­ta a modo suo le li­bertà fondamen­tali e individuali, comprese quelle di divertirsi e fornicare?

Il vero bordello è quello che, su più fronti, sta combinando la magistratura etica che vuole stabilire ciò che è reato non in base ai fatti ma alla morale piegata a scopi po­litici. Così alla sbarra finisco­no i rapporti tra maggiorenni consenzienti. Credo che pochi magistrati salverebbero la fac­cia da una simile gogna. Lo so per certo. Il Giornale, 28 giugno 2011

L’AMORE PIU’ PURO E’ QUELLO AUTARCHICO, di Marcello Veneziani

Pubblicato il 27 giugno, 2011 in Costume | No Comments »

La palma d’oro della settimana va al Te­st­imonial Universale e valoroso onco­logo Umberto Veronesi che ha detto: l’amore più puro è quello omosessuale, perché è fine a se stesso e non mira a pro­creare. Capisco il professor Veronesi, e non mi riferisco all’età grave, ma con la sua fama di tombeur de femmes e di pa­dre plurimo aggravato, con tanti figli, for­se vorrà scusarsi di aver ingravidato trop­po. Da estremista solitario, radicalizzo la sua tesi e la porto alle conseguenze estreme: se è così, l’amore più puro è quello del masturbatore che non conta­mina eros con i corpi ma vive la passione erotica allo stato ideale, nell’immagina­zione, appena aiutato da una mano. Ev­viva Onan, che non è la posizione eroti­ca del nano capovolto, ma è il biblico per­sonaggio che amava il sesso solitario, o se vogliamo elevarlo, il vizio leopardia­no. Quella sarebbe la vera purezza, pro­fessore, il sesso autarchico e idealista, al­tro che quel groviglio di corpi, quel pa­sticcio di saliva, sudore e sperma. Per non gettare il bambino con l’acqua spor­ca, Veronesi getta il bambino, così l’ac­qua torna pulita.

A nobilitarla, la sua tesi è l’applicazione della teoria di Scho­penhauer: per lui l’amore è una trappola della specie, si serve dell’istinto sessua­le per perpetuarsi tramite gli arrapati. Ma la teoria di Schopenhauer è caduta miseramente sul preservativo: con il condom, la pillola o la spirale, si aggira l’astuzia della specie per riprodursi, ep­pure non è cessato l’impulso erotico. Il suo messaggio, professore, è brutto, in una società senza figli e con famiglie in crisi. E non perché sia una marchetta ai gay, ma perché degrada il ruolo dei genitori e la procreazione.

Se l’omoses­sualità è pura, la paternità è sporca. Leg­gevo la battuta di Veronesi la mattina del 24 giugno. Era San Giovanni e per la prima volta nella mia vita non potevo fa­re gli auguri a mio padre e sentire ogni anno più flebile e accorato il suo ringra­ziamento. Se non ci fosse stato il suo amore impuro con mia madre, non sarei qui. E così i miei figli, e voi tutti, e lei, professore. Se quell’amore era impuro, preferisco vivere in una sporca società. Al diavolo la purezza. Il Giornale, 27 giugno 2011

MIRACOLO IN ITALIA: ANCHE IL PD VUOLE ABOLIRE LE PENSIONI VITALIZIE AI PARLAMENTARI

Pubblicato il 24 giugno, 2011 in Costume, Cronaca | No Comments »

Anche la sinistra s’è accorta che i costi della politica vanno ridotti. Il Partito democratico presenterà ai primi di luglio un ordine del giorno al bilancio interno di Montecitorio per abolire la pensione vitalizia dei parlamentari eletti a partire dalla prossima legislatura. A preannunciarlo, da Bruxelles, è stato il segretario Pier Luigi Bersani, che sarà primo firmatario del testo. Lo scopo, equiparare i costi della politica italiana con quelli europei e tagliare molti dei 125 milioni che figurano sul bilancio di quest’anno di Montecitorio. «Non intendo concedere nulla all’antipolitica», ha assicurato, «ma rivendico una maggiore sobrietà per la politica italiana. Quindi viene tolto quello che non è conosciuto in Europa, tipo i vitalizi dei parlamentari». Meglio tardi che mai…
……Sarà vero? Noi ai miracoli dei politici non prestiamo fede ma saremmo pronti a ricrederci se dalle parole si passasse ai fatti…..g.

I SANTORO VANNO VIA E LA RAI RISORGERA’….

Pubblicato il 11 giugno, 2011 in Costume, Politica | No Comments »

Si dice in giro che sia cominciata l’agonia della Rai.L’uscita di Miche­le Santoro, spesso vanamente an­nunciata in passato, stavolta è avve­nuta davvero, e vari menagramo colgono in essa i segnali di una catastrofe imminen­te. Che sarà inevitabile – aggiungono – se oltre al capitano di Annozero dovessero tra­slocare (a La7) anche Milena Gabanelli, Giovanni Floris, Fabio Fazio e Serena Dan­dini. Vero o falso? Non sono un aruspice (un indovino) e quindi non mi abbando­no a previsioni. Ma, avendo un certo uso di mondo, mi sia consentito guardare al futu­ro attraverso la lente dell’esperienza.

La Rai- già Eiar- è vecchia come il cucco, però ha ancora una fibra fortissima che le ha permesso di resistere a qualsiasi scosso­ne. Nel corso degli anni ha servito mille pa­droni, ciascuno dei quali l’ha sfruttata a piacimento, eppure ha conservato la pro­pria credibilità, almeno in parte. La Demo­crazia cristiana la saccheggiò per anni, ap­p­rofittando del fatto di essere l’unico parti­to che comandava. Poi cedette quote di po­tere ai socialisti cooptati nella maggioran­za di centrosinistra ( inizio anni Sessanta) e al Pci che, pur essendo all’opposizione, era in grado di farsi sentire dall’alto di un 25-30 per cento di consensi nel Paese. Dal canale unico degli albori, le reti di­vennero tre e si aprì il festival della lottizza­zione: tre poltrone a te, due a me, una a lui.

L’organico dell’ente radiotelevisivo si gon­fiò a dismisura, imbottito di raccomanda­ti, parecchi asini e alcuni (pochi) bravi pro­fessionisti. Se oggi vuoi sapere quanti sia­no i dipendenti del mastodonte «antennu­to » devi affidarti a stime giornalistiche: 10mila? 12mila? 13mila? Sempre troppi ri­spetto alla quantità e alla qualità del servi­zio offerto. In ogni caso al numero impres­sionante delle persone a libro paga biso­gna sommare la pletora di collaboratori esterni e di produttori autonomi, cioè ditte che vendono alla Rai programmi confezio­nati. Ora, è impensabile che – considerate le dimensioni di un’azienda simile-lefortu­ne dell’ex monopolio siano legate alla pre­senza in video di quattro o cinque divi del tipo appunto di Santoro, Gabanelli, Floris, Fazio e Dandini. Sarebbe un assurdo tecni­co. Significherebbe che oltre il 90 per cento del personale è puro contorno e ruba lo sti­pendio. Mi rifiuto di crederlo. Se morto un papa se ne fa un altro, forse si potranno rim­piazzare anche quattro o cinque conduttori per quanto abili sia­no (cosa sulla quale è lecito discu­tere, se non altro perché i gusti so­no gusti). Ma non è questo il pun­to. È già successo che taluni big del piccolo schermo, considerati mo­numenti nazionali, siano spariti dalla circolazione o addirittura dal­la faccia della terra.

Sulle prime si è detto: «E adesso che ne sarà di noi poveri orfani?». E giù lacrime. Vole­te qualche esempio? Corrado, do­po essere stato uno dei padri nobili della radio postbellica, divenne un cardine, un simbolo della televisio­ne garbata, un parente catodico amato e stimato dalle famiglie ita­liane. Ma anche lui, a un dato mo­mento, fu vittima dell’evento più probabile della vita: la morte. Con lui se ne andò via uno stile cui era­vamo abituati e affezionati. La tele­visione soffrì e lo spettatore anche. Finì un’epoca e sivoltò pagina con qualche rimpianto, ma senza di­sperazione. Altri uomini e di diver­sa impostazione esordirono – mi viene in mente Marco Columbro ­e l’audience non precipitò affatto. E che dire dell’immarcescibile Mike Bongiorno? Lo abbiamo am­mirato giova­ne e americaneggian­te presentatore radiofonico e quin­di televisivo. Da Lascia o raddop­pia? a Rischiatutto ( sorvoliamo sul resto andato in onda sulle reti Me­diaset), avevamo maturato la cer­tezza che le nostre serate non aves­sero senso senza un quiz a premi, ovviamente propinato dal fondato­re della tivù d’intrattenimento. Morto anche lui. Ma prima di lui defunse il genere cui era legata la fama di Mike. E veniamo a Pippo Baudo, al­tro campione. È vivo e vegeto, e ce ne rallegriamo. Però abbiamo scoperto che la nostra esistenza, e quella della Rai, procede de­centemente anche se egli ha dira­dato le sue presenze in video si­no a renderle inapprezzabili.

Sic­ché viene il sospetto che il desti­no della tivù prescinda da quello degli uomini che la fanno e che la sparizione o il declino di que­sti coincida con l’esigenza di mu­tare registro, o almeno di rinno­varlo. Santoro si eclissa o cambia cana­le? Fazio di trasferisce ad altra emit­tente o si ritira per godersi i gettoni accumulati? La Dandini va altrove a guadagnarsi i dindini per campa­re? E chissenefrega. Il mondo non si fermerà, e neppure la mangiato­ia di viale Mazzin­i e dintorni roma­ni smetterà di nutrire i professioni­sti capaci di condurre programmi più o meno graditi. Massì, siamo sinceri.

A forza di vedere i soliti vol­ti, i soliti ospiti, le solite liti, e di udi­re le solite sovrapposizioni di voci stridule, le banalità dei soliti satiri­ci, che hanno sostituito gli ideolo­gi, ci siamo stufati. Uffa, che barba, che noia. Dateci qualcosa di diverso e di più eccitante o di più rilassante. Da­teci gente fresca che ci accompagni dal dopocena alle braccia di Mor­feo con qualche gradevole sorpre­sa. Coraggio, regalateci un paio d’ore interessanti e poco stressanti. Nossignori. La fine degli spetta­coli di Santoro e di tutti i santorini non seppellirà la Rai, ma la aiuterà a rinascere. Più bella e più superba che pria. Sperèm. Vittorio Feltri, 11 giugno 2011

LIBERI, SERVI E TESTIMONI DI SINISTRA

Pubblicato il 7 giugno, 2011 in Costume, Politica | No Comments »

Domani, dalle 10, al Teatro Capranica a Roma,  ci si rimette in gioco per amore del Cav., a due passi da Montecitorio. Partecipano Libero, il Tempo e il Giornale. Ogni proposta è benvenuta e l’ingresso è libero, anche per Berlusconi

Domani, al teatro Capranica, i servi liberi e forti del Cavalier Silvio Berlusconi si rimetteranno in gioco perché, sì, a Milano s’è perso, ma non si può accettare di avvizzire così. E mentre altrove si affilano coltelli e si ripassan motti legalitari – col dubbio che si finisca, alla prima occasione, in una baruffa fratricida – al Capranica, dalle 10 del mattino, la stagione concertistica lascerà spazio alla “Festa per il caro amico Silvio. Libera adunata dei servi del Cav.”. Ci sarà, come si conviene, anche il festeggiato, che farà capolino a mezzogiorno e dirà la sua.

Apriranno la discussione gli interventi di quelli che, con orgoglio e sprezzatura, rivendicano l’ossimoro di “libero servo” del berlusconismo. Inizierà Giuliano Ferrara, seguito dai direttori del Giornale, Alessandro Sallusti, del Tempo, Mario Sechi, e di Libero, Maurizio Belpietro e Vittorio Feltri. Si andrà avanti fino al primo pomeriggio con gli interventi. L’ingresso, ovviamente, è libero e il teatro è a due passi da Montecitorio.

Ma non sarà una seduta di psicoanalisi collettiva né un raduno per nostalgici che non si rassegnano alla fine dello spirito del ’94. Ci saranno testimonianze politiche di sinistra: Piero Sansonetti, direttore del settimanale gli Altri, Ritanna Armeni, columnist del Riformista, e la giornalista femminista Marina Terragni prenderanno la parola. “Dirò che non si può uscire dalla crisi di questa egemonia culturale guardando indietro, sarebbe come se la sinistra degli anni 90 avesse invocato un ritorno al ’75”, dice Ritanna Armeni, che parlerà “perché credo che chi mi ha invitato non si aspetti nessuna compiacenza e perché non sono abituata a rifiutare il dialogo”. “Ho una scarsissima speranza che Berlusconi possa andare avanti e trovo che discuterne sia molto utile”, dice Marina Terragni. “Il tentativo di andare oltre Berlusconi è una grande occasione per la sinistra, che ormai ha mutuato tutti gli aspetti del Cav., tranne il garantismo, che di per sé sarebbe tipicamente di sinistra”, dice Sansonetti.

Dalle colonne di questo giornale si sono proposte le primarie, si è chiesto al Cav. di vincere la riluttanza a essere se stesso, si è provato a indicare possibili sfidanti. Domani, con chi viene, si continua. Perché, come insegna Baldassarre Castiglione, anche il servo può rendere virtuoso il principe. Basta che, con i suoi consigli, si assicuri che “sempre sappia la verità d’ogni cosa, e s’opponga agli adulatori, ai malèdici ed a tutti coloro che machinassero di corromper l’animo di quello con disonesti piaceri” (“Il cortegiano”, IV, XLVI). Fonte: Foglio quotidiano, 7 giugno 2011