Archivio per la categoria ‘Costume’

LA FINE DELL’IMPERO AMERICANO, l’editoriale di Mario Sechi

Pubblicato il 29 novembre, 2010 in Costume, Politica estera | No Comments »

Dopo la pubblicazione di migliaia di documenti provenienti dal dipartimento di stato americano, si apre una nuova stagione nei rapporti tra l’America e il resto del mondo. Ecco ne pensa il direttore de Il Tempo, Mario Sechi.

Washington, la Casa Bianca Benvenuti nel mondo reale. Cari lettori de Il Tempo, la pubblicazione dei report del Dipartimento di Stato da parte di Wikileaks è uno degli eventi che segnerà la storia delle relazioni internazionali e cambierà le regole del Grande Gioco. Quello che sta accadendo è preoccupante per la stabilità del sistema globale e della governance mondiale. Gli scricchiolii di questo apparato sono sotto gli occhi di tutti da molto tempo e non ci sono dubbi che siamo arrivati a un punto di svolta e servono leader dotati di mano ferma e fantasia per ridisegnare la mappa dei poteri. La politica estera statunitense messa a nudo, svelata nel suo crudo linguaggio, nella sua semplice e dura presa d’atto della situazione nei vari Paesi, è un trauma. Gli Stati Uniti sono la prima vittima di questo sconquasso e il Presidente Barack Obama è chiamato ad una sfida difficile: quest’uomo ha sulle sue spalle una responsabilità gigantesca. Con la sua presidenza finisce l’Impero Americano così come l’abbiamo conosciuto. Comincia un’altra era. E non sarà quella dell’oro.  Devo prima di tutto tornare a spiegare ai lettori che tipo di materiale è quello che pubblichiamo sulle nostre pagine. I report delle ambasciate americane nel mondo sono da considerare come una sorta di «materiale grezzo» della politica estera, sono la fase preliminare della lavorazione finale, sono «informazioni candide» – espressione usata ieri dalla Casa Bianca – prive delle sfumature proprie invece del minuetto diplomatico finale, il linguaggio felpato delle feluche in cui sembra che nessuno abbia perso la partita e vissero tutti felici e contenti. E invece la politica non è così. Da avido lettore di Machiavelli non ne sono sorpreso neanche un po’, ma dobbiamo immaginare l’effetto che quelle frasi provocano sulla politique politicienne, sulla politica politicante e sull’opinione pubblica. Viviamo in una società dove la politica è comunicazione allo stato puro e spesso poco altro. I report sono costruiti attraverso fonti dirette, l’analisi dell’intero spettro dei mezzi di comunicazione, contatti istituzionali al più alto livello. Sono per natura «confindenziali». Sono il più importante prodotto della diplomazia e per forza devono avere quel linguaggio.

Servono a preparare i politici, sono la bussola per prendere decisioni, sono il materiale che lo sherpa chiamato a trattare con i suoi corrispondenti esteri ha nella sua borsa di pelle, sono i dossier che si studiano prima di un duro round diplomatico. Finché questi documenti restano in valigetta, circolano nel ristrettissimo club dei professionisti della politica, tutto va secondo le regole del gioco. Ma se questi report finiscono nel dibattito pubblico, diventano materiale che scotta e possono cambiare la storia. Questi report girano su una rete internet dedicata, chiamata SIPRnet, utilizzata dal Dipartimento della Difesa e dal Dipartimento di Stato. Quella rete è stata bucata e i dati prelevati. Funzionari infedeli li hanno trafugati e sono finiti nelle mani di Wikileaks, un sito internet che ha come missione quella di pubblicare notizie e documenti coperti da segreto. Il patatrac globale nasce dalla violazione del sistema di sicurezza americano. E per gli Stati Uniti è davvero un altro 11 Settembre 2001. L’incendio è appena iniziato, siamo alle prime scosse. Le cancellerie degli Stati più responsabili sono già in movimento da giorni, i leader che hanno a cuore la pace e la cooperazione, si daranno da fare per mettere qua e là delle pezze su questa falla ciclopica. Ma siamo comunque a un turning point della storia americana e non solo, a un punto di svolta fino a qualche tempo fa incredibile persino da ipotizzare. E invece eccoci qua a raccontare e commentare la più grande fuga di notizie della storia.

I suoi contraccolpi li vedremo molto presto. L’informazione in tempo reale può essere più letale di qualsiasi arma, lo sviluppo della rete digitale l’ha resa potentissima, pervasiva, capace di raggiungere ogni singola istituzione e persona dotata di «connessione», online. Da molti anni seguo con passione e attenzione lo sviluppo di questo mondo parallelo, la sua capacità di cambiare le nostre vite e relazioni, la sua influenza sull’attività umana, la sua capacità di creare e distruggere lavoro, offrire opportunità, accrescere pericoli, diffondere sapere e nello stesso tempo rendere più forti e vulnerabili noi tutti. La sua «crescita esponenziale» è il dogma in cui gli Stati Uniti credono in maniera assoluta, è la forza dominante che permette a questo straordinario Paese di guidare il settore dell’innovazione tecnologica e dunque essere ancora la prima potenza mondiale. Ma gli Stati Uniti oggi sono stati traditi proprio dalla loro più grande invenzione: internet, la rete. La politica estera americana svelata in questa maniera è la fine di un mito e l’inizio di una nuova stagione. Gli antimericani in servizio permanente effettivo festeggeranno. Non sanno quello che fanno.

Gli Stati Uniti sono il baluardo della democrazia e perfino in questa vicenda sono stati un esempio. Avevano molti modi per impedire ad Assange e a Wikileaks di pubblicare quei file, ma alla fine tutto va in rete e i giornali americani e europei fanno il loro mestiere indisturbati. Altrettanto non sarebbe potuto accadere in Cina, in Russia, nei Paesi Arabi, tutti luoghi molto amati da chi sogna il crollo degli Stati Uniti. Anche gli antiberlusconiani esultano. I giudizi sul Cavaliere sono duri, la sua politica a Washington non è mai piaciuta, i suoi legami con la Russia e la Libia sono sempre stati visti come fumo negli occhi. Il linguaggio dei report è perfetto per gli speculatori – da oggi saranno in azione – e per chi sogna il regime change a Palazzo Chigi. Al loro posto non esulterei, lo sfascio sarà collettivo. E presto lo vedranno con i loro occhi. Siamo di fronte a qualcosa di ben più grande, le pietre rotolano a valle, la crescita esponenziale della tecnologia sta accelerando i processi storici, siamo all’inizio della fine dell’impero Americano. Mario Sechi, Il Tempo,29/11/2010

IL TRADIMENTO IN POLITICA

Pubblicato il 29 novembre, 2010 in Costume, Politica | No Comments »

Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini Bene ha fatto Berlusconi, uso com’è a dir sempre pane al pane e vino al vino, a rilanciare, rivolgendosi a Fini e ai finiani, l’uso del concetto di “tradimento” in politica. Ha fatto bene non solo e non tanto perché quel concetto si confà perfettamente all’ultima (per il momento) capriola del camaleontesco fondatore del neo-futurismo libertario in salsa rosso-nera, ma anche e soprattutto perché il suo impiego è stato di recente contestato persino da qualche ammiratore del Cav. al di sopra di ogni sospetto di tradimento e slealtà. Vedi – per fare l’esempio più abbagliante – il mio vecchio amico Giuliano Ferrara, secondo il quale il concetto di “tradimento”, nelle moderne democrazie, non avrebbe più nessun senso. Come se la presente età democratica, per quanto possa considerarsi diversa da tutte le precedenti, non fosse pur sempre soltanto un capitoletto della storia universale dell’umanità, nella quale è manifesto che il “tradimento” – politico e non – costituisce, per così dire, un ingrediente eterno e inestirpabile. L’espunzione del concetto di tradimento dal racconto e dell’analisi dei fatti attinenti alla vita delle moderne democrazie sembra fra l’altro implicare l’idea che a nessun politico del nostro tempo possa essere riconosciuta la stoffa del traditore. Al tipo del politico moderno sarebbe dunque negata in radice la capacità di tradire. Ciò che distingue il politico di oggi da quello di una volta non sarebbe insomma soltanto un insieme di differenze storiche, ideologiche, culturali e simili, bensì una differenza propriamente antropologica, definita appunto della privazione della facoltà di tradire.

Ma allora alle moderne democrazie non dovremmo attribuire soltanto tutti i caratteri che vengono loro abitualmente riconosciuti dagli storici e dai politologi ma anche una sorta di potere salvifico e palingenetico, attestato da quel loro sommo prodotto che sarebbe appunto il politico privo per definizione della facoltà di tradire: un angioletto non molto diverso dal famoso Uomo Nuovo sognato da tutte le utopie basate sul miraggio della paradiso in terra. Fossi Fini, in questo proposito di privarmi della qualifica di “traditore”, vedrei un misconoscimento del mio vero rango. E sventolerei con vigore l’onore di appartenere alla stirpe dei Bruto e dei Cassio. Insomma rivendicherei il mio diritto di iscrivermi all’albo d’oro dei tanti eroi che proprio con un atto di squisito tradimento hanno potentemente contribuito all’avvento di qualche evento epocale. Vedi quel famoso fellone, di nome Giuda, che col suo tradimento rese possibile la stessa nascita del cristianesimo. Che, come certo sanno anche quei geniacci di Futuro e Libertà, è assolutamente inseparabile da un atto che consistendo nella denuncia di Cristo a un organismo insieme religioso, politico e giudiziario quale era il Sinedrio ebraico, e avendo così provocato una sentenza di morte emessa da un organismo anch’esso politico quale era la prefettura di Roma in Giudea, fu anche, anzi forse soprattutto, un atto politico. Ruggero Guarini, il Tempo, 29 novembre 2010

PAGHE..RAI, di Filippo Facci

Pubblicato il 27 novembre, 2010 in Costume, Economia | No Comments »

….Non siamo stati i soli a protestare per l’assurda idea del ministro Romani di imporre il pagamento del canone Rai a chiunque sia titolare id un contratto Enel e di inserire l’importo direttamente in bolletta. Ecco la sottile ironia di Filippo Facci su Libero di oggi che commenta la “ideona” di Romani.g.

Che ideona, era proprio il momento economico e politico ideale: proporre il pagamento automatico del canone Rai per chiunque abbia un semplice contratto di energia elettrica, cioè per chiunque, appunto. Al ministero dello Sviluppo economico non hanno vie di mezzo: o sono pagati a loro insaputa o pretendono che a nostra insaputa paghiamo noi.
È un temerario, Paolo Romani: ha ripescato questa sua idea fissa – già bocciata tempo fa – anche se una parte della maggioranza non è d’accordo; chi non possiede un televisore dovrebbe essere lui a dimostrarlo (inversione dell’onere della prova: molto garantista) senza dimenticare che già oggi dovrebbe pagare il canone Rai chiunque possegga anche solo una videocamera, un I-pod, un videofonino, una macchina fotografica digitale, uno schermo di computer (anche senza computer) e persino un videocitofono.

In Italia ferve il dibattito perché abbiamo il canone e pure gli spot, perché non si sa più che cosa sia un servizio pubblico, perché il mercato è cambiato, perché la gente è incazzata nera, soprattutto perché la Rai è uno spaventoso carrozzone con un passivo di centinaia di milioni e diecimila dipendenti, tremila precari, dirigenti nullafacenti, direttori disoccupati, società esterne, case di produzione, e amici, parenti, mamme, amanti, future ministre: avevamo solo il problema di rifinanziare tutto questo. Molto popolare, molto deregulation, molto governo del fare.

….Non siamo stati i soli a protestare per l’assurda idea del ministro Romani di imporre il pagamento del canone Rai a chiunque sia titolare id un contratto Enel e di inserire l’importo direttamente in bolletta. Ecco la sottile ironia di Filippo Facci su Libero di oggi dire la sua in proposito.

LA “LEGALITA” SECONDO I FINIANI: URSO, DA VICEMINISTRO, NOMINA CONSULENTE DEL MINISTERO A 54 MILA EURO PER SETTE MESI IL SOCIO DELL’AZIENDA DI FAMIGLIA.

Pubblicato il 27 novembre, 2010 in Costume, Politica | No Comments »

Adolfo Urso, viceministro dimissionario e coordinatore nazionale del partito di Fini

articolo di Gian Marco ChiocciMassimo Malpica per il Giornale

Addio sì, ma con sorpresa. Il finiano Adolfo Urso ha mollato, come tutti gli esponenti del governo in quota Fli, la poltrona di viceministro allo Sviluppo economico lo scorso 15 novembre. Ma al ministero (come ha scoperto il Mondo, rilanciato ieri dal sito Dagospia) è rimasto qualcuno a lui molto vicino.

Uno dei consulenti, ben pagati, del dicastero ha infatti un nome noto, molto vicino ai finiani e a Urso in particolare. Si tratta dell’imprenditore emiliano (ma di origini siciliane) Rosario Cancila, che siede nel consiglio di fondazione di Farefuturo ed è anche socio (al 10 per cento) della società agricola «Lo Schioppo», insieme all’imprenditore Enzo Poli e a Pietro, Dario e Paolo Urso, figli e fratello dell’ex viceministro.

Dello «Schioppo» si era parlato pochi mesi fa, a settembre, quando saltò fuori che la società dei parenti di Urso aveva comperato nel 2005 per 2 milioni di euro una tenuta agricola (che si chiama «Schioppo», appunto) tra Terni e Spoleto: 455 ettari di campagna umbra con monastero, pronto a essere riqualificato grazie a una variante al piano regolatore chiesta (e ottenuta) al comune di Terni. Un affare tutto portato avanti tra familiari di Urso e amici d’area. I primi a comprare la tenuta, nel 2005, sono il fratello di Urso, Paolo, e un imprenditore, Vincenzo Rota, che fa parte dell’osservatorio parlamentare di Urso. Anche il «farefuturista» Giancarlo Lanna, poco dopo, entra in società. Ma lo «Schioppo» cambia assetto societario nel 2008, quando Lanna e Rota lasciano, ed entrano appunto Enzo Poli (che compra il 50 per cento delle quote della tenuta da sogno per appena 125mila euro, come rivelò a settembre il Fatto quotidiano) e Rosario Cancila.

Insomma, l’imprenditore emilian-siciliano è in affari con la famiglia di Urso. Ed è molto attivo anche nella fondazione cara all’ex viceministro: il 25 febbraio del 2008 fu proprio lui, Cancilia, a organizzare la presentazione bolognese di Farefuturo, come racconta il sito web dello stesso think tank finiano, ricordando che «padroni di casa» dell’evento erano Gianfranco Fini e Urso.

La consulenza a Cancila da parte del viceministro è arrivata la scorsa primavera: sette mesi, dal primo giugno al prossimo 31 dicembre, per un corrispettivo lordo di 54mila euro, non proprio spiccioli. Oggetto dell’incarico, come riporta l’anagrafe delle consulenze del ministero, l’«attività di raccordo tra il gabinetto dell’onorevole ministro e la segreteria del sottosegretario di Stato onorevole Adolfo Urso, nonché di collaborazione nel settore dell’internazionalizzazione, con particolare riguardo all’approfondimento delle tematiche dell’internazionalizzazione della politica commerciale italiana». Un incarico mirato, legato alla segreteria del viceministro. Che però, adesso, non c’è più.

PRIVATIZZARE LA RAI? CERTO, ANZI NO

Pubblicato il 25 novembre, 2010 in Costume, Economia | No Comments »

Un giorno si e l’altro pure da ogni parte si alzano voci che vogliono privatizzare la Rai. Una per tutte? Quella del grillo parlante della politica italiana, cioè l’on. Fini che non passa ora del giorno che non salomoneggi ora su questo, ora su quello, per cui non poteva mancarne una sulla RAI. E per una volta siamo d’accordo con lui. Già, perchè di una Rai, falso servizio pubblico come questo non se ne può più. Di una Rai, per esempio,  che sperpera quattrini pubblici a proprio piacimento; o di una Rai che non è mai asettica e terzista, come dovrbbe essere un servizio pubblico; o di una Rai i cui programmi di approfondimento sono in verità solo vetrine dei conduttori che li usano per autoesaltarsi; o di una Rai che è una vera e propria fabbrica di nepotismo, anzi di un vero e proprio “familismo amorale” (è appena il caso di ricordare il caso della suocera dell’on. Fini, casalinga elevata a ruolo di impresaria televesiva….). E poi i compensi stratosferici che elargisce: due milioni di euro a Fabio Fazio la cui unica capacità è quella di balbettare frasi che non riesce mai a concludere; 800 mila euro a Santoro per fare processi mediatici a chi non può difendersi….già, un servizio pubblico che dà la parola ai fautori della eutonasia e quando le associazioni che sostengono il diritto alla vita chiedono di poter replicare si sentono respingere la richiesta da funzionari che si trasformano in padroni. E potremmo continuare  con questa Rai, servizio pubblico nel senso che appartiene a pochi. Allora è davvero il caso di privatizzarla la Rai, come in America. In America, compresa quella di Obama, che tanto piace ai democratici del nostro Paese, non esiste una TV pubblica, pagata con i soldi pubblici. Non ci hanno neanche mai pensato a farla perchè gli americani,  che i soldi li sudano, anche quando ne hanno molti, farebbero la rivoluzione, tutti, democratici e repubblicani, perchè gli uni e gli altri considerano la informazione uno dei pilastri della libertà e quando più la stampa è libera, cioè sottratta al controllo del potere  pubblico, tanto più ne guadagna la libertà di tutti. E ovviamente non c’è nessun canone da pagare. Ecco una tassa, il canone TV, che gli americani mai pagherebbero benchè  non si sottraggano al pagamento delle tasse, anche perchè in America l’evasione fiscale non si paga con  le sanzioni pecuniarie, anche con quelle,  ma anche finendo in galera. Al Capone, per dirne una, che fu uno dei gangster americani più pericolosi,  lui che era responsabile di crimini efferati ma dei quali non si riusciva a trovare le prove,finì in galera,  per dieci anni, perchè non aveva pagato le tasse. Ritorniamo al canone TV, perchè mentre da tutte le parti (ma lo si dice da anni e anni) si vuole privatizzare la Rai e conseguentemente abolire il canone TV che insieme all’ICI è la tassa più odiata dalgi italiani, al neo ministro dello Sviluppo Economico, Romani, è venuta una bella idea: far pagare il canone TV all’interno della bolletta della luce. Cioè, all’inizio dell’anno, magari con la bolletta di febbraio, tutti gli italiani titolari i di bolletta elettrica  si troverebbero all’interno di quella bolletta anche il canone della TV, a prescindere se la TV ce l’abbiano o meno e anche a prescindere se  vedano o meno i canali RAI, i quali quando sarà a regime il sistema del digitale terrestre si troverebbero ad essere in piccolissima  percentuale rispetto ai canali TV privati, molti dei quali si vedranno gratuitamente e  alcuni servizi,  chi li vuole, si sottolinea, chi li vuole, dovrà pagarli, e in questo caso eserciterebbe una scelta consapevole. Così non è per la Rai che propina a proprio piacimento programmi francamente ignobili, alcuni squallidi, altri orribili, e benchè non li si veda si è costretti a pagarli obbligatoriamente e preventivamente. Francamente questa iniziativa del ministro Romani ci lascia senza parole, specie perchè viene da un ministro che proviene dal mondo della comunicazione privata e che per primo dovrebbe considerare sacro il diritto all’autodeterminazione delle scelte di ciascuno. Speriamo che ci ripensi visto la assurdità di questa proposta e che invece lavori davvero per la privatizzazione della RAI, liberando gli italiani da certi imbarazzanti personaggi che nella TV libera faticherebbero a trovare platee  artificiosamente plaudenti. Significativo il caso Santoro che  quando lasciò la Rai per emigrare nelle reti Mediaset dell’odiatissimo Berlusconi collezionò bruttissime figure e bassissimi indici di asclto. Perchè  la TV libera rende liberi. Anche  da Santoro e compagnia cantando. g.

UNIVERSITA’: PROVE DI SCONTRO

Pubblicato il 25 novembre, 2010 in Costume, Politica | No Comments »

Ieri Roma e non solo, è stata teatro delle prove generali dello scontro per lo scontro. La scusa è stata la riforma dell’Università, predisposta dal ministro Gelmini, approdata alla Camera dopo innumerevoli e superati ostacoli legislativi, giunta infine alla volata finale. Sul fil di lana, ecco che uno sparuto nucleo di contestatori è sceso in piazza, anzi, è salito sui tetti,  per impedire con la forza che si giunga al voto finale. Non entriamo nel merito del disegno di legge, che chiunque può valutare per proprio conto ma una cosa ci sentiamo in obbligo di dire e cioè che gli unici che dovrebbero scendere in campo sono i baroni universitari, quelli che da sempre hanno trasformato gli Atenei in “cosa loro”, obbligando tutti, in primis gli studenti, a subirne le decisioni. La riforma Gelmini mette la parola fine a questo andazzo e a riconoscerlo sono anche illustri docenti universitari, conclamatamente di sinistra, che hanno dato non solo il loro assenso ma anche il loro qualificato contributo alla definizione della legge. Eppure, è proprio la sinistra a cavalcare la  ingiustificata protesta degli studenti, il che fa supporre che non è la legge in sè che non va, quanto il fatto che a vararla sia il Govenro Berlusconi e il suo corazzato benchè minuto Ministro dell’Univerrsità. E così a “far visita” sui tetti della Facoltà di Architettura di Roma sono andati nell’ordine: Bersani, Di Pietro e Vendola,  tutti e tre faticosamente issatisi fin lassù per dare man forte e solidarietà agli autori di una inqualificabile violazione  all’interno del Senato, di una ancor più inqualificabile violenza ai danni  di funzionari dello Stato, uno dei quali costretto a ricorrere alle cure ospedaliere, e di una ancor più squallida agressione ai danni dei carabinieri e della polizia di Stato. Episodi questi ultimi che si sono ripetuti questa mattina, mentre quelli che si dicono preoccupati del Paese, e della sua immagine, invece di prendere le distanze da queste prove tecniche di insurrezione, nello stesso Parlamento, come ha fatto il segretario del PD, Bersani, si è esibito in una specie di ricatto contro il Governo, che in  verità ha mostrato tutti i limiti di un personaggio politico che aspira a fare il premier e si è mostrato mentre tenta di accattivarsi qualche giovinotto che forse più che della riforma ha paura degli esami universitari, quelli seri e non quelli del 18 garantito, come ai tempi, ormai lontani e irriproducibili del ‘68. Come sono lontanti e irriproducibili i tempi, anch’essi lontani, di Genova ‘60, quando per far cadere un governo, il Governo Tambroni, che aveva l’appoggio esterno del MSI di Arturo Michelini, la  città fu messa a ferro e fuoco dai portuali comunisti agli ordini del PCI, allora come sempre, alternativo agli interessi del Paese. Il PCI non voleva che il Paese,  che viveva allora una straordinaria e felicissima età dell’oro, il  cosiddetto boom  economico, che mai più si sarebbe ripetuto nei decenni successivi,  fosse governato da un Governo di centro che per la prima volta, dopo la guerra, rilegittimava una parte politica sino ad allora esclusa, cioè la Destra. E così scese in piazza, con la copertura complice di quella parte della DC che già allora inciuciava con la sinistra, per costringere Tambroni e la Dc “centrista che guardava  a destra” , a capitolare. E così fu. La Dc di Tambroni capitolò e da allora iniziò la scivolata a sinistra che doveva portare alle convergenze parallele, al centrosinistra, al compromesso storico, giù, giù, sino  alla miserabile fine del partito dei cattolici, sotto le macerie di tangentopoli. Doveva arrivare Berlusconi perchè la marcia del PCI verso il potere, iniziata in quel caldo luglio del 1960 a Genova, fosse bloccata e da allora segni il passo, nonstante  abbia divorato la parte sinistra della DC. Ora gli ex pci, trasformatisi in “democratici” ci riprovano, grazie anche alla inaspettata svolta finiana e ci riprovano con il solo strumento che conoscono, la violenza delle piazze, sotto le quali tenteranno di costringere il Governo Berlusconi a ritirarsi. Come accadde a Genova. Ma non siamo più a Genova. Non siamo più nel 1960. Gli italiani pavidi e rinunciatari che 50 anni fa voltarono la testa dall’altra parte rifiutandosi di capire che a Genova non si calpestavano soltanto i diritti di un partito ma si violentavano la legge e le regole, oggi non sono più disposti a subire senza reagire i tentativi di sovvertire l’ordine dello Stato usando la violenza di piazza, ieri dei portuali (i quali ormai votano a destra e per Berlusconi), oggi quella di pseudo studenti che non hanno voglia di studiare. I tempi sono diversi e la democrazia italiana ha sufficienti ed efficaci  anticopri per mandare all’aria i piani del nuovo soviet. g.

A PROPOSITO DI VALORI, l’editoriale di Alessandro Sallusti

Pubblicato il 25 novembre, 2010 in Costume, Politica | No Comments »

Una vettura di lusso, valore cento­mila euro, acquistata da An e messa a disposizione di Gianfranco Fini. Pec­cato che An non esisteva più da mesi e quindi sorge il problema di chi e per­ché ha speso tanti soldi (sottratti a bi­sogni più nobili e urgenti) che sono parte del patrimonio di un ex partito affidato, dopo la fusione col Pdl, alle cure di una Fondazione. Che quanto­meno ci sia sotto un pasticcio, è prova­to dal fatto che ieri, appreso che il Giornale stava per pubblicare la sto­ria, la berlina di lusso, una ammira­glia Bmw, è stata riconsegnata in fret­ta e furia dal presidente della Camera ai legittimi proprietari, cioè la Fonda­zione.

Non vogliamo girare il coltello nella piaga, né metter­la giù più dura di quello che è. Dirimere la que­stione sarà pro­blema­dei custo­di della cassafor­te aennina. La vi­cenda ci incurio­sisce perché è l’ennesimo tas­sello di un mo­do di concepire la politica ben lonta­no dai retorici e roboanti proclami moralisti, etici e legalitari di Gianfran­co Fini e della sua fresca squadra di compagni di avventura. Prima la que­stione dell’appalto Rai (un milione e mezzo di euro) che il presidente della Camera ha fatto avere alla suocera, una anziana signora che l’unica tv che conosce è quella del suo salotto di casa. Poi si è scoperto il caso Monte­carlo, un appartamento del partito svenduto al cognato via società of­fshore. E adesso pure la fuoriserie gra­tis. Se aggiungiamo che il giornale del Fli Fini se lo fa pagare da noi, con sol­di pubblici sottratti ai fondi per il vo­lontariato, direi che il nuovo che avan­za sa molto di vecchio. Il vecchio me­todo dei politici di vivere al di sopra delle loro possibilità a babbo morto. Cioè a spese altrui, a volte dello Stato, altre del partito (e non andiamo ol­tre).

Egregio presidente della Camera, la prossima volta che aprirà la bocca sui valori della nuova destra europea che lei pensa di incarnare, provi alme­no un filo di vergogna. Case, macchi­ne e televisioni Berlusconi, come tut­ti i suoi elettori, se li paga di tasca sua.

.……Ha ragione Sallusti, non per giurare il coltello nella piaga ma Fini, prima di aprirbocca sui Valori, i nostri, quelli del centrodestra, si guardi allo specchio e poi, come dice(va) spesso e volentieri l’ex ministro Ronchi, “si taccia”, non per sempre, ma almeno su argomenti sui quali il “tacer vale un tesoro”. g.

PROMEMORIA

Pubblicato il 21 novembre, 2010 in Costume | No Comments »

Si ricorda a sbadati e finti tonti, che Gianfranco Fini, presidente della Camera nonché leader di Futuro e libertà, risulta tuttora indagato per truffa aggravata in relazione alla vendita della casa di Montecarlo: è in attesa che il gip si pronunci sulla sorprendente richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura di Roma. Si ricorda altresì che sono 22 giorni che lo stesso Fini manca alla parola data agli italiani. Aveva promesso di dimettersi dallo scranno più alto di Montecitorio qualora fosse «emerso con certezza che Tulliani è il proprietario della casa di Montecarlo». Tale certezza è stata raggiunta quando la Procura ha depositato gli atti, ma Fini ha fatto lo gnorri. Complimenti al grande mancatore di parola, che vorrebbe  dare lezionidi etica agli altri. Ma va là!

IL VERO SAVIANO? ECCO DUE ARTICOLI CHE LO RACCONTANO, SPOGLIANDOLO DALL’AUREOLA DI UN EROISMO DI FACCIATA

Pubblicato il 18 novembre, 2010 in Costume, Cronaca | No Comments »

1- FENOMENOLOGIA SFIGATA DI SAN SAVIANO
Gian Marco Chiocci e Pier Francesco Borgia per “Il Giornale

SAVIANO

Se il buongiorno si vede dal mattino, ieri Roberto Saviano non vedeva l’ora di andare a dormire. Per l’imbarazzo. Perché lo schiaffo ricevuto a metà pomeriggio dal ministro Maroni è di quelli che stordiscono i più accecati detrattori del governo Berlusconi, a cominciare dallo scrittore di Gomorra che in tv ha catechizzato gli ascoltatori sulla connection fra la Lega e le ‘ndrine del nord.

Schiaffo bissato da un ceffone ancor più doloroso se si pensa che ad arrestare il boss Antonio Iovine, ci ha pensato l’ufficio guidato da un poliziotto coraggioso nella lotta al crimine quanto impreparato a difendersi dall’accusa di«lesa maestà»: parliamo del capo della Squadra Mobile di Napoli, Vittorio Pisani, che per aver osato dubitare sull’urgenza di una maxi scorta allo scrittore, è stato crocifisso dai fan dello scrittore casertano, già sgomenti per l’archiviazione dell’inchiesta sul fantomatico attentato natalizio sbandierato a mezzo stampa anche se mai pensato dalle cosche:

Fazio Benigni e Saviano a Vieni via con me

«Dopo gli accertamenti sulle minacce che Saviano asseriva aver ricevuto – confessò lo sbirro impenitente di cui Repubblica chiese l’allontanamento – demmo parere negativo sull’assegnazione della scorta. Resto perplesso quando vedo scortare persone che hanno fatto meno di tantissimi poliziotti, carabinieri, magistrati e giornalisti che combattono la camorra da anni».

Il castello di carta può non scricchiolare ma basta un debole alito per farlo crollare. Mettere insieme pezzi disordinati di inchieste (giornalistiche o giudiziarie poco importa), condirli con retorica deamicisiana e azzardare teoremi suggestivi, è una ricetta vincente per un gourmet della cattiva informazione. Partiamo dall’origine, da “Gomorra”.

Roberto Maroni, ministro dell’Interno

Nessun politico è promosso, tranne uno: Lorenzo Diana, già parlamentare Ds, membro nella commissione antimafia, ora dipietrista convinto. Eppure secondo alcuni suoi lontani trascorsi ripresi in interpellanze parlamentari (che a politici come Cosentino non sarebbero perdonati) vien fuori che alla fine degli anni Settanta, Diana era in giunta a San Cipriano d’Aversa con Ernesto Bardellino (fratello del super­boss Antonio) e Franco Diana (arrestato e ucciso in cella per un regolamento di conti).

Niente di grave, per carità. Ma se in una giunta simile ci fosse stato Cosentino? La risposta è scontata. Saviano, per dire, non ha perdonato all’ex sottosegretario nemmeno certe scomode parentele che nelle piccole comunità sono la regola: «Un fratello di Cosentino è sposato con la sorella di Giuseppe Russo, detto Peppe il Padrino, esponente dei casalesi e della famiglia Schiavone!» E poco importa che anche don Diana, il sacerdote ucciso dalla camorra e che Saviano celebra ogni volta che può, avesse parentele scomode come quelle di Cosentino: «Il parroco era mio parente da parte di papà – racconta a verbale Carmine Schiavone, killer pentito – mentre la sorella Maria ha sposato Zara Antonio, figlio di Schiavone Maria e di Schiavone Vincenzo».

E importa ancora meno che il prete, sempre a detta del collaborante, si fidasse del futuro sottosegretario all’Economia tanto da non far mistero di votare per lui. Quello che vale per gli altri, insomma, non vale per sé. Saviano non ha il copyright dell’anticamorra in “Terra di Lavoro”, non è l’unico cronista a battersi per la verità sco­moda ai clan. Dei dodici colleghi­eroi senza scorta e senza ribalta, a cui i casalesi hanno bruciato l’auto, sparato a casa, recapitato resti di animale in redazione, Saviano non parla. Trova piuttosto il tempo di attaccare quei quotidiani locali per certi titoli a effetto che lo scrittore esula dal contesto (un verbale, una testimonianza) e definisce infami.

Non ha mai parlato delle rivelazioni che il Giornale mandò in stampa il 18 marzo 2009 dal titolo: «Così Saviano ha copiato Gomorra». Interi brani ripresi, senza citarli, da «corrispondenze di guerra» di cronisti con l’elmetto da sempre. Nulla da dire nemmeno sulla citazione per danni da mezzo milione di euro di Simone Di Meo, segugio di Cronache di Napoli che solo dopo aver ottenuto la correzione e la citazione della fonte (il suo nome) a partire dall’undicesima ristampa di Gomorra , ha deciso di soprassedere. Nessuna citazione per le numerose disgrazie del centrosinistra nel regno del nemico «Sandokan».

Un esempio, decine di esempi. La giunta dell’ex presidente della provincia di Caserta, Sandro De Franciscis, è finita nei guai per i lavori affidati a ditte del boss stragista Giuseppe Setola e lo stesso ex presidente è stato intercettato mentre parlava di protezioni della «camorra di Casale».

cosentino

Nessuno sputtanamento mediatico sul modello di quelli riservati ai big del centro-destra. È ovvio che poi Saviano non può pretendere di passare, a prescindere, per «credibile». È scontato che poi gli invidiosi ironizzino sulle improbabili confidenze liceali con Pietro Taricone nonostante i quattro anni di differenza. Ed è normale che il destino si accanisca anche a commento del suo annuncio di darsi alla boxe come Pietro Aurino («il mio mito»), purtroppo per Saviano arrestato perché picchiava chi non pagava il pizzo. La verità, insomma, è più prosaica di un’informazione «spettacolare».

carmine schiavone

2- LA TV TRIBUNIZIA – SAVIANO E L’EUTANASIA: E IL CAMPIONE DI LEGALITÀ ELOGIÒ LA NON-LEGGE
Domenico Delle Foglie per “Avvenire”

Sappiamo bene che criticare un “mostro sacro” è una partita a perdere, ma si potrà pure dissentire con Roberto Saviano senza passare per camorristi, fascisti o disfattisti. Se un intellettuale, nel caso uno scrittore coraggioso, vuole vestire i panni del maître à penser televisivo, del faro che illumina le coscienze, sa di dover fare i conti non solo con il mezzo, ma anche con i telespettatori. Milioni di persone diverse, ognuna con una sensibilità propria eppure tutte con un mondo di valori di riferimento dall’inevitabile base comune: la vita e la morte non tollerano giochi di parole ed esercizi concettuali spericolati e irrispettosi.

E qui ci permettiamo di inserire il rammarico: argomentare contro le mafie di ogni colore è un grande merito civile che unisce il Paese, tirare conclusioni politiche è un esercizio di libertà (e chi lo compie dovrebbe sapere di poter essere chiamato a renderne conto), ma schierarsi a favore del suicidio assistito e dell’eutanasia è un azzardo che come minimo squassa le coscienze e divide il popolo.

Noi sappiamo solo in parte – per quel po’ che ci hanno fatto sapere – che cosa hanno pensato e patito le migliaia di donne e uomini in carne e ossa che tutti i giorni accudiscono in famiglia un malato terminale o un grave disabile senza risparmio di energie, sentimenti e risorse finanziarie, nel sentirsi dire con la forza della parola televisiva che quella vita lì, proprio quella, non è degna di essere vissuta.

Paolo Rossi

Lunedì sera, a “Vieni via con me”, è andata in scena una pagina sconcertante di quella «dittatura dei sentimenti» che sembra ormai voler legittimare ogni tragitto individuale e anche ogni scelta estrema, fuori da un contesto comunitario, al di là del sentire comune, persino oltre i confini della razionalità umana.

Ragione umana che viene invocata per opporsi alle mafie, ma non viene messa in campo se è in gioco la vita di un essere umano nella condizione di massima fragilità. Saviano, con la sua performance, si è reso colpevole del più grave degli addebiti che si possano avanzare nei confronti di un cultore della laicità: ha eliminato con un tratto di penna la cultura del dubbio. Secoli di severa laicità, di continuo sbattuta in faccia ai credenti, bruciati in pochi minuti. Così Saviano ha mostrato all’improvviso il volto del moderno giacobino che oscura la ragione: «Quella di Piergiorgio Welby non era più vita».

MARCO TARQUINIO, direttore di Avvenire

Ecco, questo nostro tempo è pieno di tradimenti della ragione e ci dispiace scoprire che l’ implacabile accusatore dei più feroci camorristi non si faccia scrupolo nel liquidare ferocemente una vita, nascondendosi dietro l’idolo assoluto della libertà senza vincoli di solidarietà. Sino al punto di suggerire a tanti altri, uomini e donne, di seguire la strada che porta al darsi e al dare la morte.

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Lo rimbeccano i dati di realtà, che tradiscono meno degli intellettuali: dopo i drammi di Eluana Englaro e di Piergiorgio Welby, abbiamo assistito a un solo caso di suicidio assistito, con una donna italiana accompagnata a morte in Olanda. Eppure ci è toccato ascoltare, dalla voce di Saviano, la “certificazione” (già tentata in tv da altri) che negli ospedali italiani, con una manciata di euro, è possibile effettuare un’eutanasia.

Lui che è un professionista della legalità (e non è il solo) perché non fa denuncia alla magistratura? Forse condivide questa scorciatoia, e tacita la coscienza? Come può chiedere ai taglieggiati di ribellarsi alle mafie se spinge, lui, a calpestare la legge dello Stato che non consente eutanasia né suicidio assistito e persegue chi li favorisce con il reato di omicidio del consenziente? Ci sono leggi che secondo il maestro Saviano, e con lui Fazio, il campione dei sornioni, si possono violare senza pagare dazio? Che differenza c’è fra loro e quanti cercano leggi “ad personam”, o giustificano chi non si sottomette alla legge?

Bagnasco

La coscienza, Saviano pretende a suo modo di insegnarlo, è un tempio interiore da salvaguardare. Ma lo è sempre, sia dinanzi alla mano omicida del camorrista sia dinanzi a quella che si erge, presuntuosa e autoritaria, ad affamare e assetare l’inerme. Uno come noi e come lui. O no?

I DUE ARTICOLI SONO STATI RIPRESI DA DAGOSPIA

FINI DA FAZIO SPROLOQUIA E ANNOIA, PERO’….

Pubblicato il 16 novembre, 2010 in Costume, Politica | No Comments »

….predica onestà e dignità: perchè non la cerca in RAI e a Montecarlo?

di Marcello Foa

La destra è la destra, la si­nistra è la sinistra. Una è al go­verno e rappresenta la mag­gioranza degli elettori, l’altra all’opposizione in difesa del­le idee e degli interessi di una minoranza. Si chiama demo­­crazia, da sempre o, perlome­no fino a ieri sera. Il duo Fazio-Saviano ne ha battezzata una nuova versione, molto televi­siva benché poco berlusco­niana, nella quale la destra non è più la destra e staall’op­posizione. Con la sinistra. Ma si presenta lo stesso sotto l’effigie della destra. E la sini­stra fa di tutto per essere un po’ moderna, dunque un po’ di destra. Storditi? Disorientati? Come non esserlo…

Ieri sera a Vieni via con me , su Raitre, è andata in onda una trasmissione singolare, suggestiva e forse profetica. Quella della democrazia paritaria e al contempo, selettiva. Ci spieghiamo. Per giustificare l’esclusione di Berlusconi e di Bossi, Fazio ha letto l’elenco sterminato dei partiti italiani, sostenendo che non poteva invitarli tutti in una volta, anzi in due puntate. Il ragionamento non fa una grinza: il Pdl votato da anni da oltre il 30% degli italiani e la Lega Nord, scelta dal 10%, valgono quanto «Io sud» o i partitini di Sbarbati, Nucara, Staderini. Dunque possono essere esclusi. Una par condicio assoluta, esemplare. Eppure non esaustiva; poiché non vale per alcuni partiti. Non vale per Bersani, che, per ragioni che ieri non sono state spiegate, ha titolo per rappresentare tutta la sinistra. E non vale per Gianfranco Fini, verosimilmente per diritto divino.

Il suo Futuro e libertà non ha affrontato nemmeno una volta il giudizio delle urne, eppure viene considerato l’unico degno di spiegare al popolo italiano che cosa sia la destra. Il tutto secondo una schema ormai collaudato. Il secondo intervento della serata, letto da Silvio Orlando, è una sequenza di battute scontate e di allusioni alle «macchine del fango». Il terzo viene affidato a Roberto Saviano, che dopo le sbandate su Falcone, ha puntato sui temi che lo hanno reso famoso, quelli della camorra e della ’ndrangheta , che si infiltra a nord e che, naturalmente, gode di ampie e consolidate complicità politiche. Di chi? Ma della Lega, naturalmente. Cita un vertice delle cosche durante le quali i boss avrebbero deciso di avvicinare e dunque di arruolare un politico locale. Quale, Saviano non lo dice, ma precisa che è un esponente del partito di Bossi. E poi allude, ammicca, sempre in una sola direzione. Ascoltandolo l’ascoltatore ha l’impressione che il nord sia nella mani della mafia e che in fondo Varese o Milano o Brescia non siano così diverse da Napoli o Reggio Calabria o Caserta.

Il mondo è marcio, anche il nord è marcio. I politici sono pavidi e corrotti. Tutti i politici, anche, soprattutto, quelli di destra, di questa destra, che non ha diritto di cittadinanza. Perché solo lui, solo gente come lui, combatte davvero il male. Parola di uno scrittore trasformatosi in guru, ma a cui il successo non ha dato profondità, né spessore culturale. E poi sono arrivati loro, Bersani e Fini; l’eterno perdente e l’eterna promessa. Tre minuti di frasi fatte, buone per ogni stagione. Buone, soprattutto, per strappare l’applauso a una platea amica ed entusiasta. Sentite Bersani: «La sinistra è che se guardi il mondo con gli occhi dei più deboli lo rendi migliori», «stai bene se anche gli altri stanno bene». Giura, leggendo come uno scolaretto, che «il lavoro non è tutto, ma questo può dirlo solo chi il lavoro ce ce l’ha». La malavita? Ovviamente «fa male all’economia». Bisogna «lasciare il pianeta in condizioni migliori di come lo abbiamo trovato». Sembrava di ascoltare Ferrini di Quelli della notte . E poi è toccato a Fini, il quale anziché elencare, parla, illustra, con toni da letterina natalizia delle buone intenzioni. Ma le finalità sono chiaramente politiche. Più che un elenco di valori sembra un mini comizio elettorale.

Calibrato male, però. Fini, di solito oratore efficace, annoia, affoga nelle banalità. Debutta dichiarando che «per la destra è bello, nonostante tutto, essere italiani». La ragione? «Abbiamo un patrimonio paesaggistico e culturale». Profondo e, soprattutto, originale. Secondo il presidente della Camera l’uomo di destra è «generoso e altruista », «combatte gli abusi e i malcostumi», «respinge i clientelismi e le ingiustizie».

Assicura che «chi sbaglia deve pagare, gli onesti devono essere premiati» e che «senza istituzioni non c’è democrazia». Il concetto di patria, a cui un tempo era molto affezionato, è cambiato. Ora le priorità sono altre: «Il figlio degli immigrati deve diventare l’italiano di domani». Sono le stesse parole di Bersani. E forse non è un caso.