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BERLUSCONI: MEGLIO LE BELLE DONNE CHE I GAY; SGARBI: UNA BATTUTA ENTUSIASMANTE CHE APRE LA CORSA ALLE URNE

Pubblicato il 3 novembre, 2010 in Costume | No Comments »

di Vittorio Sgarbi

L’improvvisa, ma non imprevedibile, uscita di Silvio Berlusconi (parlo dell’uomo, prima che del presidente del Consiglio, trattandosi di dichiarazioni relative a gusti e inclinazioni personali) arriva al culmine di una vicenda che ha drammatizzato la situazione politica in maniera spropositata rispetto alla sostanza dell’episodio. Nel crescendo oratorio, Berlusconi prima avvisa quanti lo ascoltano, e li rassicura: «Non leggete i giornali, vi imbrogliano, non c’è nulla di grave perché hanno male interpretato la mia disponibilità ad aiutare chi abbia bisogno, per una ragazzata com’è nel caso di cui tanto si parla.

Vedrete, finirà nel nulla, essendo una tempesta di carta». Al culmine di questa affermazione, la battuta fulminante, così spontanea da sottrarsi a ogni prudenza imposta al «politicamente corretto»: «Meglio essere appassionato di belle ragazze che gay».
Ma gli è scappata o l’ha fatto apposta? Io mi sono entusiasmato, e sono convinto che, nella battuta, vi siano insieme spontaneità e calcolo. Spontaneità perché quello che Berlusconi ha detto è vero, intendo vero per lui, come per mio padre e per tanti italiani che si sono formati prima della liberazione sessuale, cresciuta all’inverosimile se si pensa alla diversa percezione che si ha dell’omosessualità rispetto a venti o trent’anni fa. Lo stesso Berlusconi, candidamente, chiosa: «È quello che ci hanno insegnato i nostri genitori». Di più, è quello che ci dice la Chiesa, indicando i rapporti fra uomo e donna come base della famiglia e respingendo, senza condizioni, le proposte di legittimazione delle unioni gay.
Berlusconi è nato nel 1936, e sembra voler ribadire il primato della eterosessualità come condizione «naturale». Il dibattito è ancora aperto, ma l’omosessualità è stata per lungo tempo considerata trasgressione o devianza. Un’analoga posizione ha assunto recentemente Rocco Buttiglione parlando di sessualità rispettabile ma sbagliata, di «errore», ovvero di «peccato», arrivando a paragonare l’omosessualità all’adulterio. Nella dottrina cristiana ci siamo.

Berlusconi ha quindi espresso una posizione semplice, e soprattutto personale. Ma non è escluso che ci sia stata intenzione e che, in questo continuo sconfinamento tra questioni pubbliche e questioni private, abbia, con quella battuta, voluto aprire la campagna elettorale. In che senso? Molti hanno visto semplicemente l’atteggiamento omofobo, e hanno osservato che Berlusconi avrebbe commesso l’imprudenza di alienarsi le possibili simpatie del mondo omosessuale coltivato e blandito, persino più che a sinistra, dalla ministra per le Pari opportunità Mara Carfagna. Troppo semplice. In realtà Berlusconi, forse inconsciamente ha indicato uno spartiacque, una scelta di campo per le (prossime) elezioni politiche, che egli afferma di non desiderare: il suo più probabile antagonista, infatti, è Nichi Vendola, paladino dell’orgoglio omosessuale, in maniera altrettanto naturale (anche se, fino ad oggi, più militante) quanto quella manifestata convintamente da Berlusconi con le sue dichiarazioni di orgoglio eterosessuale. Proviamo dunque a ribaltare la situazione senza privilegiare l’una o l’altra in nome dei diritti delle «minoranze» (?). Se Nichi Vendola avesse dichiarato: «Meglio essere appassionati di bei ragazzi che eterosessuali», chi si sarebbe stupito? D’altra parte Berlusconi parlava a un pubblico convenuto a una fiera del ciclo e del motociclo, con molte belle ragazze immagine. Perché dirlo «malato»? Visto l’argomento di cui parlano i giornali da una settimana, egli sta sul pezzo, manifesta la sua natura esuberante, continua a scherzare come quando, nello spirito di Amici miei, fa balenare al capo di gabinetto della Questura che Ruby possa essere la nipote di Mubarak. Puro Adolfo Celi, anche se è Berlusconi più affine all’inarrivabile conte Mascetti di Ugo Tognazzi (ma non ha perso tutto). D’altra parte egli è consapevole di essere come un fenomeno naturale, come un luogo di villeggiatura: da visitare, non da occupare. Come la Grotta Azzurra, come Taormina.

Così Ruby è passata, ha visto ed è andata via. Mentre, in altre situazioni, Elisabetta Tulliani si è insediata, ha occupato la sede vacante ed è rimasta con il fratello e con la famiglia presso il suo prescelto. Berlusconi, diventato libero, dopo la rivolta di Veronica, intende rimanerlo, e ha espresso la propria convinta posizione. Di chi contempla la bellezza femminile. È la posizione anche di Saffo. Mentre Pasolini preferiva i bei ragazzi. Ma la differenza è appunto tra «appassionarsi» ed «essere». La condizione gay impone una diversa visione del mondo che sconfina con l’ideologia. Berlusconi, cristiano, cristianissimo, esprime una visione pagana, di puro piacere, non ideologica. Difficile non condividere quel punto di vista. E se avesse detto: «Preferisco la carne al pesce?». Non diverso da: «Meglio essere appassionato di belle ragazze che gay». Il resto potrebbe essere il copione di una ribellione del compagno di Vendola che scrive a Repubblica dopo aver scoperto che il suo amato lo ha tradito. Scoppierebbe un Vendola-gate?
Allo stato quello che è accaduto in questo giorni, anzi, in questi mesi da Noemi in avanti, attiene alla sfera privata, come la frequentazione di giovani disposti a prostituirsi non ha in alcun modo riguardato il pensiero e l’impegno di Pierpaolo Pasolini. La differenza, rispetto al mondo omosessuale, è il clima di allegria, di divertimento, fin qui frainteso. La vicenda di Ruby, come oggi le dichiarazioni apparentemente scorrette hanno tutto l’aspetto di una burla, di un gioco. E Bersani e Di Pietro soffrono, per questa volta, di non essere fra i protagonisti di questa edizione di Amici miei. Niente di più, niente di tragico. Battute che Achille Campanile avrebbe apprezzato. Ma oggi abbiamo il triste Travaglio.

DIECI MOTIVI PER SNOBBARE SAVIANO

Pubblicato il 24 ottobre, 2010 in Costume, Cultura | No Comments »

di Massimiliano Parente

Il “Corriere della Sera” accusa la destra di aver perso una grande occasione regalando un “eroe” civile alla sinistra Ma lo scrittore vip ormai è un membro della Casta: demonizza il libero mercato e poi chiede 200mila euro alla Rai. Vietato parlarne male: chi osa criticarlo tacciato d’invidia. E Dispensa consigli per “aprire gli occhi agli elettori

È davvero formidabile la capacità della destra italiana di moltiplicare i suoi nemici». Formidabile, e di cosa stiamo parlando? Dunque, secondo Pierluigi Battista, che in genere leggo sempre volentieri, «la destra» ha «uno straordinario impulso masochista nel regalare alla sinistra Roberto Saviano, che di sinistra non è». Così ieri, per infiocchettare il regalo, Battista ha regalato alla destra una bella torta con ciliegina molto istruttiva e che vorrei ricambiare con dieci candeline.
1) Sono costretto a precisare che, per quanto mi riguarda, da scrittore né di destra né di sinistra (faccio bellissimi disegnini porno sulle schede elettorali da anni), ogni mia critica motivata a Saviano mi ha portato centinaia di insulti che se Battista vuole gli giro via mail, tra i quali il classico, che io lo attacco «per invidia». Se la destra usasse lo stesso argomento in sede politica si potrebbe disinnescare ogni critica a Berlusconi dicendo che chi la muove è invidioso dei suoi soldi, a cominciare dalla Gabanelli, perché vorrebbe le ville a Antigua anche lei.
2) Mi sarebbe piaciuto che Battista avesse fatto dei nomi, e non solo quello di Roberto Saviano rapportato a un’entità generica: la destra. Chi? Può fare qualche nome? Il bello è che quelli come Battista parlano sempre da un pulpito super partes, gli altri sono la destra, la sinistra. Intanto ricordo a Battista i saggisti o gli scrittori che hanno criticato Saviano nel merito del suo unico romanzo (sebbene, intervistato a Annozero, l’autore nomini pomposamente «i miei libri», e continua a sfuggirmi l’opera di Saviano, il cui valore poggia su meriti esclusivamente extraletterari). Per esempio Aldo Busi, non certo uno scrittore di destra, ha definito Gomorra «un romanzo di cassetta», e nessuno ha fiatato, mentre le critiche del sociologo di sinistra Alessandro Dal Lago, identiche alle mie ma con due anni di ritardo, sono state riprese dal Corriere della Sera, dove lo stesso Battista commentava elegantemente che criticare Saviano deve essere legittimo e non un tabù.
3) Saviano non è di sinistra, è vero, lo ha dichiarato proprio Saviano da Michele Santoro: «Io parlo anche agli elettori di destra, per aprirgli gli occhi quando vanno a votare». Sono gli elettori di destra imbecilli che votano a occhi chiusi senza sapere cosa votano, aspettano l’illuminazione di Saviano pagato con i loro soldi sul servizio pubblico. Dovendosene oltretutto, il telespettatore di destra o di sinistra, sentirsene rassicurato, perché «essere pagati è la garanzia di poter fare bene il proprio lavoro», e con meno di duecentomila euro effettivamente si lavora male per la causa comune, ecco perché anche un operaio paga il canone Rai.
4) Che poi Saviano sia di destra o di sinistra non capisco cosa cambi, anzi per me potrebbe anche essere fascista, vista la criminalizzazione che Saviano fa del libero mercato, al quale rende contigua, consequenziale e consustanziale l’esistenza della camorra, basta leggere Gomorra o i suoi articoli su Repubblica. Con Mussolini, in effetti, la mafia se la passava male.
5) Secondo Battista la destra non sa che Saviano è stato «fatto oggetto dei peggiori insulti sui siti e sui blog anti-imperialisti» per aver espresso solidarietà a Israele, dando quindi per scontato che la sinistra sia anti-israeliana, pur elogiando i viaggi di Fini in Israele come una conversione post fascista.

6) Secondo Battista la destra «è una curva che vede comunisti dappertutto» e Saviano non sarebbe di sinistra perché è riuscito a convincere i lettori «ad acquistare I racconti della Kolyma di Varlam Salamov, uno dei più sconvolgenti capi d’accusa contro i Gulag e “le atrocità del comunismo” (parole di Saviano) su cui “è calato il silenzio da troppo tempo” (parole di Saviano)». Quindi secondo Battista la sinistra italiana, oltre a essere antisemita, ha bisogno di essere convinta perfino per leggere Salamov, in altri termini la sinistra è ancora sovietica (parola di Battista, non di Berlusconi).
7) A proposito di libero mercato, scrive Battista, Saviano viene considerato «un avversario così spregevole da pretendere addirittura di essere pagato per una trasmissione televisiva (ma come, non si era detto che il mercato non doveva essere demonizzato?)». Appunto, ma chi lo demonizza? Io? La destra? O Saviano?
8) Secondo Battista «gli scrittori non sopportano che un loro collega vada troppo in televisione, perché andare troppo in televisione fa troppo “berlusconiano”». Anche qui, se non fa i nomi, parli per sé, per quanto mi riguarda nell’ultimo mese non ho fatto che rifiutare inviti televisivi perché sono troppo occupato a scrivere, e oltretutto, al contrario di quanto crede Battista, uno scrittore non ha colleghi, e se li ha non è uno scrittore ma un impiegato.
9) Il sottoscritto, è noto, ha attaccato negli ultimi anni, su Libero e sul Giornale, in nome della letteratura e in opposizione alla logica delle classifiche di vendita e del mercato quando si tratta di valore artistico, molti colleghi di Saviano, da Niccolò Ammaniti a Wu Ming a Alessandro Piperno, quest’ultimo non certo un’icona della sinistra, piuttosto un’icona del Corriere della Sera, secondo il quale sarebbe «il Proust italiano». Poiché sono autori Mondadori, l’anno scorso dopo essere stato accolto con grandi onori a Segrate, sono stato messo gentilmente alla porta «per quello che hai scritto su Saviano», con la motivazione che Saviano è una grossa fetta del fatturato di Segrate e il mio nome avrebbe messo i dirigenti in difficoltà. Se Battista vuole, anche qui, gli fornisco privatamente i dettagli, quando ho raccontato l’episodio su Dagospia non mi pare gliene fregasse granché, la libertà di stampa vale solo per chi già ce l’ha. Al dirigente ho detto «Capisco», ho preso armi e bagagli e me ne sono andato alla Newton Compton, e questo mentre Saviano, su Repubblica, firmava appelli sulla libertà di stampa, copyright Agenzia Santachiara, in prima pagina sopra la pubblicità di Gomorra, copyright Mondadori, e tra poco su Rai Tre, copyright Endemol.
10) È curioso perché a difesa dei duecentomila euro chiesti da Saviano, demonizzatore del libero mercato, sono arrivate perfino Norma Rangieri, direttrice del Manifesto, e Concita De Gregorio, direttrice de l’Unità, proprio in nome del libero mercato, perché l’audience, l’ascolto, il successo commerciale, sono diventati un criterio perfino sul servizio pubblico. Concita ha anche concitatamente puntualizzato che «è come per i calciatori», e a Gianluigi Paragone è stato detto che mille euro a puntata per lui sono già troppi. Se il principio è questo basterebbe mettere L’isola dei famosi contro Annozero e vedere chi vale di più, e bisognerebbe anche chiedersi quanto ascolto fanno, tradotto in copie vendute, l’Unità e Il Manifesto, e anche quanto ascolto fa l’eterno lupus in fabula, Silvio Berlusconi, tradotto in voti.

Il Giornale 24 ottobre 2010

quelli che imprecano contro il regime ma prendono soldi da Berlusconi

Pubblicato il 21 ottobre, 2010 in Costume, Politica | No Comments »

di Tony Damascelli

In principio c’era Sant-oro,poi vennero gli altri mar­tiri a pagamento, i messaggeri della libertà del sette e quaranta, i depositari dell’informazione dura e pura, i soli a difendere il Paese dal regime «demo plutocratico» che lo opprime e lo comprime, lentamente, inesorabil­mente. «Vieni via con me» è il leit motiv di una dolce canzone dell’avvocato Paolo Conte ed è iltitolo dell’ulti­ma trasmissione boicottata dalla Rai, la barricata dietro la quale Fazio-Saviano-Benigni, i rivoluzionari del bru­maio italiano, rischiano di non poter agire, parlare, di non potere sventolare la bandiera della libertà, dopo aver ripiegato l’assegno bancario, vogliono spiegare al pubblico che non esiste soltanto il Grande Fratello (in onda su Canale 5 in contem­poranea con lo show censurato su Rai 1) ma anche un Paese fuori dalla Casa, il Paese che rifiuta Ber­lusconi, il popolo che non accet­ta la sua politica, il suo essere, il suo esistere anche.

«Vieni via con me» è prodotto anche da Endemol una cui fetta, almeno per il momento, è di pro­pr­ietà del succitato Cavaliere dit­tatore. Come direbbe Veltroni «ma anche»Il Grande Fratello ha la stessa fabbrica produttrice alle spalle, dunque il conflitto di sha­re, non soltanto di interessi, è pa­­lese, fastidioso, volgare. Il budget di «Vieni via con me» si presta, con la p minuscola, a vari com­menti critici: la Rai avrebbe offer­to a Benigni 250mila euro, 100mi­la in meno di quanto l’Oscar del cinema aveva incassato per la performance al festival di Sanre­mo. Benigni ha fatto sapere, attra­verso il suo Procuratore, con la P maiuscola, di essere disposto e di­sponibile a lavorare gratis, a con­dizione però di avere ampia facol­tà di dire e di fare su qualunque tema. Cosa che avviene, mi sem­bra, dalla fondazione dell’impe­ro televisivo, su qualunque cana­le ma non su qualunque tema, semmai su un tema unico, Berlu­sconi e la sua orchestra però ge­nerosa alla voce Medusa, distri­butore di Pinocchio, film del 2002, del regista attore toscano. Roberto Saviano, altro protagoni­sta d­i questa vicenda sofferta e an­tidemocratica, non si sente sicu­ro, avverte l’aria pesante attorno alla trasmissione, «ci hanno mes­so in condizioni terribili» ha det­to lo scrittore che ha visto aumen­tare, raddoppiare, moltiplicare gli introiti propri e della casa edi­trice Mondadori, anche questa, mannaggia, di proprietà dello stesso Berlusconi di cui sopra. «Vieni via con me»andrà comun­que in onda, ci saranno Paolo Rossi e Antonio Albanese, altri dissidenti, in manifesta opposi­zione al regime ma, ogni tanto, a braccetto dello stesso, quando è ora di sottoscrivere un contratto e di ritirare il dovuto dal despota e dai suoi gerarchi. Il dilemma eti­co ha sconvolto intelligenze illu­stri, alla voce Mancuso che ha an­nunciato la fuga, ma lo stesso struggente dubbio ha poi ritrova­to la luce, come i minatori cileni, nelle persone di Odifreddi, uno che sa quanto valgono i numeri, quelli di vario tipo, e ancora, in Za­grebelsky Gustavo e le sue opere di legge per Einaudi, tormentato ancora dalla perplessità morale ma non da quella contabile e di pubblicità garantita; ma lo stesso dilemma è stato sconfitto soprat­tutto dalla De Gregorio Concita che per Mondadori ha scritto e di cose profonde. Mi auguro che la casa di Segrate non sia il Malamo­re da cui il titolo di uno dei suoi testi. Si potrebbe aggiungere di Scalfari di cui è manifesto il con­flitto, di idee, non di interessi.

Nelle ultime ore al corteo si è ag­giunta anche Raffaella Carrà il cui programma, previsto per gen­naio, in cinque puntate, sempre su Rai 1, è rinviato a data da desti­narsi. Il contrattempo ha costret­to il regista e autore Sergio Japino a denunciare che «in Rai non c’è serenità».

È un momentaccio, i mantenu­ti­di Silvio non sopportano la sud­ditanza, quella psicologica si in­tende, mentre quella contabile garba loro moltissimo; non ce la fanno ad andare avanti tra lacci e lacciuoli, si sono santorizzati tut­ti, padroni del microfono, sciolti dalla rete (Rai), liberi di pensare, ci mancherebbe, di dire e di male­dire, di lanciare appelli, di racco­gliere firme, di sensibilizzare il po­polo cloroformizzato ma, strana­mente, improvvisamente,reatti­vo quando è chiamato all’aduna­ta.

È il bello della diretta e della re­g­istrata, è il bello dei nostri dissi­denti che altrove, nei cosiddetti regimi democratici dei líder mas­simi e del potere del popolo, fini­scono in galera mentre dalle no­s­tre parti finiscono in prima sera­ta. È la parte gioiosa della dittatu­ra berlus­coniana che serve per ti­rare sino a fine mese, a fine anno e oltre, ma resta maledetta, da battere e da abbattere. La popola­rità e il benessere conquistati per meriti propri e per intuizione al­trui, sono valori prosaici, la televi­sio­ne è malvagia anche se è servi­ta a farsi conoscere, a farsi una fa­miglia, a farsi un conto in banca, il denaro non olet e non dolet, non puzza e non fa male mentre il pagatore è infame. La Rai ci ha messo del suo, più realista del re, vecchia nelle teste dei dirigenti e giovane soltanto nelle gambe del­le ballerine, pronta a complicare storie semplici, a trasformare gli asterischi in scoop, a creare vitti­me, prima, eroi, dopo.

«Vieni via con me, entra e fatti un bagno caldo,c’è un accappa­toio azzurro, fuori piove un mon­do freddo, it’s Wonderful».Musi­ca e parole di Paolo Conte, l’avvo­cato. Trattasi di una canzone. Fi­no al prossimo otto di novembre.

Poi, prego, presentarsi alla cassa.

IL GIORNALE 21 OTTOBRE 2010

L’ITALIA NELLO SGOMENTO

Pubblicato il 16 ottobre, 2010 in Costume, Cronaca | No Comments »

Ieri è stato un giorno spiacevole. Due episodi, gli ultimi, che insieme a tanti altri ci lasciano sempre più sgomenti e senza parole. A Roma la giovane infermiera rumena colpita al volto  qualche giorno fa da un pugno di un giovane ventenne ha cessato di vivere dopo essere rimasta in coma per alcuni giorni. Un banale litigio, una banale discussione su chi doveva per primo acquistare un biglietto della metropolitana finisce in tragedia. Una vita spenta, quella della giovane infermiere, una vita dannata, quella del ragazzo che è ora imputato di omicidio preterinzionale, cioè un omicidio che non voleva commettere ma che ha commesso. E’ certo che il ragazzo non voleva uccidere, ma è accaduto  e la vittima ha pagato con la vita un episodio che sa di assurdo. Non è la prima volta che accade e forse non è neanche l’ultima. Ma non si può nascondere l’orrore per una vita spenta per una semplice “precedenza”. L’altra notizia ci ha raggiunto a notte inoltrata, da Manduria. La Procura della Repubblica di Taranto ha sottoposto a fermo giudiziario, anticamera dell’arresto vero e proprio, la cugina della quindicenne Sarah Scazzi, sparita il 26 agosto e ritrovata dopo 45 giorni in un pozzo dove l’aveva seppellita lo zio che ha confessato di averla uccisa e violentata, forse prima o, orrore, dopo l’omicidio. Ieri una improvvisa svolta. Lo zio assassino avrebbe dichiarato che a tenere ferma la ragazza mentre egli la strangolava sarebbe stata la figlia, cioè la cugina di Sarah, la stessa che durante i 45 giorni della disperata ricerca della ragazza lanciava messaggi e appelli alla cugina perchè ritornasse  a casa,  o agli eventuali rapitori perchè la  liberassero.  Ieri sera  un programma in TV  stava seguendo momento per momento l’evolversi della situazione dopo che la cugina della vittima era stata portata in caserma e sottoposta ad interrogatorio,  quando il conduttore della trasmissione ha diffuso una prima indiscrezione sulla nuova verità; confessiamo che  abbiamo avuto una immediata reazione di rifiuto a credere a questa notizia. Non poteva essere possibile che la ragazza, coetanea e cugina della vittima, poteva aver parteciapto al suo assassinio e poi all’occultamento del cadavere. Ci siamo arresi stupiti e inorriditi quando è stato letto il comunicato ufficiale della Procura di Taranto che ne dava formale comunicazione. Ci siamo arresi,  pur nella naturale speranza che questa verità non sia tale per l’evidente orrore che essa suscita,  ma siamo rimasti senza parole. Non solo uno zio-padre assassino e seviziatore di una giovane vita, ma, secondo la Procura di Taranto,  anche una cugina-amica del cuore, partecipe di un fatto odioso, orrendo, disumano, terribile e inaccettabile per la nostra coscienza. E forse, secondo giornalisti e opininionisti, non saremmo ancora alla  fine del dramma, altre terribili verità potrebbero esserci dietro l’angolo. Nei prossimi gorni un confronto tra padre e figlia potrebbe fornire nuove notizie e magari una verità diversa da quella che oggi ci ammutolisce. Ma  ugualmente  lo sgomento  coglie non solo la piccola comunità in cui il dramma si è svolto, ma l’intero Paese che si domanda angosciato verso quale terribile approdo va la società italiana. g.

IN ITALIA I GIORNALISTI DI SINISTRA HANNO DIRITTO AL RISPETTO, QUELLI DESTRA AL DILEGGIO, di Vittorio Feltri

Pubblicato il 15 ottobre, 2010 in Costume, Politica | No Comments »

Negli anni Settanta i giornalisti non comunisti se la cavavano: bastava che si proclamassero antifascisti e la passavano liscia. Al Corriere della sera, quando si trattava di assumere un giovane cronista, il comitato di redazione (che contava molto di più del direttore, dato che i sindacati lo tenevano in ostaggio e lo ricattavano: o fai come diciamo noi oppure addio pace sociale) pescava perfino all’Avvenire, proprietà vescovile, tanto per gettare un po’ di fumo negli occhi a chi criticava la tendenza a reclutare soltanto compagni.
In una circostanza, dal giornale della Cei arrivarono in via Solferino addirittura due ragazzotti sotto i trent’anni con l’etichetta di cattolici osservanti. Di lì a pochi mesi, entrambi si iscrissero al Pci e la loro carriera fu brillante: uno fu subito promosso caposervizio, l’altro, dopo un breve periodo di gavetta, cooptato nel gruppo degli inviati, considerati degni di ogni privilegio, tra cui quello di non avere orari né l’obbligo di frequentare la redazione.
Altre assunzioni avvenivano prevalentemente tra i comunisti organici dell’Unità, raramente di altre testate. Io fui ingaggiato dal Corriere per errore. Infatti avevo lavorato alla Notte di Nino Nutrizio, che era di destra, ed ero quindi sospettato di simpatie fasciste. Sennonché un amico corrierista garantì per me: «Feltri è socialista». E nessuno mi ostacolò. Questo dimostra che al tempo la nostra corporazione era abbastanza democratica. Se confessavi di non essere comunista, beh, non eri amato però ti tolleravano; se invece osavi ammettere di essere anticomunista, allora addio, eri destinato all’emarginazione.
Oggi che il comunismo è un reperto archeologico, paradossalmente le cose sono peggiorate. Se non sei di sinistra, o non ti comporti come lo fossi, i colleghi progressisti ti guardano con disprezzo e si sentono autorizzati a liquidarti così: incolto, rozzo, servo, venduto, killer, per citare gli epiteti più gradevoli. Il problema è capire che significhi essere di sinistra e non esserlo. La soluzione è semplice. Se non sei berlusconiano, nel senso che non riconosci al Cavaliere legittimità politica, hai diritto alla patente di democratico (ormai sinonimo di progressista); se invece in qualche modo accetti che Silvio Berlusconi possa esercitare funzioni istituzionali, e magari hai votato centrodestra in qualche occasione, ti infliggono il marchio di berlusconiano, un’infamia. E non c’è verso di cancellarlo. A meno che non ti decida pubblicamente ad abiurare. Nel qual caso puoi sperare in una riabilitazione dopo un lungo periodo di quarantena necessario per purificarti.
I pentiti d’ogni genere in Italia godono di grandi favori. Quelli che si offrono volontari nei salotti televisivi, per recitare tutte le litanie dell’antiberlusconismo di maniera, sono i più richiesti e applauditi. Così, con relativa facilità, nel giro di qualche mese da buzzurro sei promosso a intellettuale con i requisiti indispensabili per accedere al club dei lib-lab. Se invece ti ostini a pensare che in politica non si debba scegliere il meglio (che non c’è), ma il meno peggio, e che il meno peggio non stia nel centrosinistra bensì nel centrodestra, ti può succedere qualsiasi disgrazia. Intanto, l’Ordine dei giornalisti ti tiene in osservazione e, se gli dai il minimo pretesto, ti frega perché dispone di poteri illimitati, tra cui quello di condannarti alla disoccupazione temporanea o definitiva.
Il giornalista «eretico», a differenza di quello progressista ortodosso, non ha protezioni politiche: nel centrodestra, la prevalenza del cretino impedisce ogni iniziativa in appoggio agli scribi più in sintonia col Pdl che col Pd. Strano, ma vero. Risultato, i redattori in conflitto con le bandiere rosse di risulta sono mazziati e cornuti. Basta vedere quanto è successo nelle scorse settimane.
Panorama, Libero e Il Giornale si sono dedicati con scrupolo all’appartamento monegasco ereditato da An grazie a una nobildonna (la cui volontà era che servisse a finanziare una buona causa nel partito), svenduto da Gianfranco Fini e attualmente abitato dal cognato di questi, Giancarlo Tulliani. Una vicenda oscura; forse non è stato commesso un reato, ma una scorrettezza sì. Ebbene, mentre le tre testate citate si davano da fare per completare le loro inchieste, i giornaloni tipo Repubblica e Corriere della sera (e non contiamo le emittenti televisive), dei quali è nota la pendenza a sinistra, si spremono onde minimizzare il lavoro dei concorrenti di segno politico opposto, arrivando a deriderli: tanto chiasso per poi un affaruccio immobiliare.
Parecchi si sono domandati come mai Gianfranco Fini fosse difeso dalla stampa che fino a un anno prima lo riteneva un abusivo del Parlamento, un ex fascista da scansare. La risposta è ovvia: da quando il presidente della Camera si è trasformato da conservatore bigotto («Dio, patria e famiglia») in fiero oppositore di Berlusconi è stato iscritto d’ufficio al circolo degli eletti. Fosse rimasto ciò che era, una camicia nera stinta, l’avrebbero massacrato. Invece hanno massacrato gli inchiestisti che hanno svelato le sue «disattenzioni».
E che dire di Maurizio Belpietro, sfuggito a un attentato terroristico in casa? Pur di banalizzare il fatto, l’apparato mediatico insinua che il caposcorta del direttore di Libero si sia inventato l’agguato e abbia sparato a un fantomatico aggressore così, per sport, per fare un po’ di casino.
Questa è la situazione. Cambierà? Sì. In peggio, naturalmente.

SORPRESA:PER 9 ITALIANI SU 10 IL PM CHE SBAGLIA DEVE PAGARE PER SUOI ERRORI

Pubblicato il 11 ottobre, 2010 in Costume, Giustizia, Politica | No Comments »

Separazione delle carriere e del Csm, e responsabilità civile dei magistrati: due punti cardine di quella riforma della giustizia tanto voluta dalla maggioranza quanto avversata dalla sinistra e dai giudici, che da sempre si oppongono a qualsiasi ipotesi di cambiamento all’urlo di «attacco al sistema democratico». Chissà cosa diranno ora le toghe di fronte ai risultati del sondaggio realizzato da Ferrari Nasi & Associati sulla «responsabilità civile dei magistrati». Probabilmente, scoprendo che circa il 70% degli italiani è d’accordo all’idea che i pm siano controllati da un organo indipendente e non composto da loro colleghi, resterebbero di sasso. E forse, scoprendo che addirittura poco meno del 90% dei cittadini concorda col fatto che «un magistrato che sbaglia dovrebbe essere responsabile della propria azione», proverebbero anche un po’ di timore. E magari, episodi come la perquisizione del «Giornale» di giovedì scorso, non si verificherebbero più.

ERA MIO PADRE ED E’ MORTO DA BAMBINO

Pubblicato il 9 ottobre, 2010 in Costume | No Comments »

Marcello Veneziani, scrittore e saggista, biscegliese di nascita, l’altro ieri ha perduto il papà, preside in pensione, che aveva 96 anni. Al suo papà Veneziani ha dedicato  sulle pagine de Il Giornale di cui è prestigioso collaboratore un ricordo accorato e struggente che ci piace pubblicare perchè potrebbe essere il ricordo accorato e struggente di ciascuno  di noi del proprio papà. E’ anche un modo per essere vicino affettuosamente   a Marcello Veneziani, il più noto e di certo il più valente intellettuale di Destra, col quale condividiamo idee e speranze.

Mio padre aveva gli occhi azzurri e guardava la vita con tenerezza celeste. Non reggeva la sua durezza, ne fuggiva le asprezze e si rifugiava nel mare, nel sole, nella scuola e nelle letture. Curava i suoi libri come si curano le piante, face­va giardinaggio filosofico. Animo genti­le prima che gentiluomo, amava dimet­tersi e pagava in anticipo per non avere mai debiti. Rimase per una vita nel pae­se natìo, non conobbe paesi stranieri, metropoli, traffico e affanni. Barattò il proprio tempo per il proprio luogo, pre­ferì Socrate all’automobile. Gli bastava Kant per conoscere il cielo stellato, senza mai sa­lire su un aereo. In età grave non sopporta­va più la vita che si era fatta buia, sorda e pesante, e lui aveva la leggerezza degli spiriti delicati. Alla fine il suo corpo si era adeguato al­la fragilità del carattere; le sue piume di cristallo si era­no scheggiate. Scrivo di mio padre ma so di parlare di ogni padre perduto, non c’è cosa più universale degli af­fetti privati. E se il mondo ti istiga a rendere pubblico ciò che è intimo, tanto vale esibire gli affetti più intimi. La notte dopo il funerale ho voluto dormire nel suo letto. Era il letto nuziale, più di sessant’anni di notti con mia madre. In quel let­to son nato, là in mezzo a loro ho dormito i miei primi anni. Approfittando della loro assenza, volevo torna­re nella loro stanza, tra i lo­ro oggetti, il comodino gre­mito di lui, i suoi vecchi ar­nesi per vivere e per spera­re, sotto quel Gesù che si af­faccia sul letto e benedice i dormienti. Ho rivisto un mondo, nella veglia e nel sonno. Ho ricordato ogni cosa, dalla borsa calda che ci passavamo tra i piedi ai racconti prima di dormire, accarezzandomi la testa. Penso alle ultime volte che ho camminato con lui. Mano nella mano a mio pa­dre, come cinquant’anni prima. Ma il bambino sta­volta era lui; non vedeva e non sentiva quasi più, e non sapeva più camminare da solo. Stava svanendo la sua mente e a volte, dopo una giornata trascorsa in ca­sa, chiedeva di tornare a ca­sa. Non era demenza seni­le, ma una traccia estrema di lucidità e una richiesta di­sperata di aiuto: chiedeva di tornare in sé, di ritrovare il suo corpo e la sua mente, e usava la metafora più ele­mentare, la casa, per invo­care il ritorno. Era una spe­cie di Ulisse a rovescio che non era mai partito da Ita­ca, ma la sua mente era par­tita da lui, in un’odissea sen­za ritorno, facendolo senti­re straniero in casa sua. Vo­leva ritrovare Penelope, il telaio e la trama perduta della sua vita. E rincasare tra i suoi libri e le sue abitu­dini. Pochi anni fa aveva tra­dotto il de Senectute ; ora in­vece lo attraversavano a vol­te allucinazioni brevi e gen­tili, si chinava a cogliere qualcosa di prezioso o tira­va con l’indice e il pollice un filo invisibile che solo lui vedeva: raccoglieva fiori metafisici, gemme platoni­che, avrebbe detto lui stes­so quando insegnava filoso­fia. Quando perdeva lucidi­tà il suo sguardo era una la­vagna cancellata da ogni traccia di sé, e pure la bocca sembrava perdersi nelle ru­ghe del vuoto. Ha riacqui­stato da morto la dignità si­gnorile della sapienza. La mente offuscata gli donava tuttavia il candore dei cin­que anni, il suo viso era co­me liberato da novant’anni di vita e tornato bambino come nella foto vestito da marinaretto, sgombro da pensieri e memorie. È dol­g ce scoprire in un vecchio do­ve si nasconde il bambino, snidarlo negli sguardi e nei modi di atteggiarsi. Ma è un esercizio che costa a chi lo ama, perché se lo vedi bam­bino vedi svanire dal suo volto la vita e la storia da cui tu discendi, l’incontro con tua madre, la tua famiglia, la paternità, i libri e la me­moria di te. Rinunci a quel che di te c’è in lui pur di sal­varlo dall’oltraggio della vecchiaia. Dai bambino, apri gli occhi, non scherza­re con la morte. Una delle ultime volte che venni a trovarlo era se­duto sulla sua poltrona inondata dal sole e aveva gli occhi socchiusi. Mi se­detti accanto a lui, gli sfio­rai le mani e gli sussurrai qualcosa all’orecchio per avvertirlo della mia presen­za. Lui mi guardò appena, muto e vago, poi mi chiese chi fossi. Dissi ad alta voce il mio nome, e lui biascicò sottovoce come parlando a invisibili terzi: ah, è il fratel­lo… Ma sono tuo figlio, guar­dami, alzai la voce. Mio pa­dre accennò di traverso uno sguardo, tacque, poi ri­salì dal silenzio e mi chiese come se fosse tornato alla normalità: hai visto sul gior­nale se c’è la notizia della mia morte? Gli presi le ma­ni e gridai: babbo, che dici, sei vivo, stai a casa tua. Co­me redarguito, mio padre girò leggermente la testa dall’altra parte, serrò le lab­bra come un portone anti­co mentre due lacrime bril­lavano alle estremità dei suoi occhi perduti nella not­t e. Alla fine in ospedale, gli massaggiavo a lungo la spal­la, ormai scheletrita, per dargli un estremo conforto e per riceverlo. Era l’ultimo modo per stabilire un con­tatto con lui. Vivendo lonta­no, non l’ho accudito come hanno fatto i miei fratelli; gli ho solo cucito vestiti di parole. Ma a quegli abiti lui ci teneva. Ho perso il mio primo e più affezionato let­tore, ho perso il mio primo e indispensabile autore. In uno dei momenti di se­rena lucidità, la sua badan­te gli stava raccontando che sarei partito in barca per un viaggio. Poi gli disse: «Presi­de, perché non vai pure tu con lui inbarca?» Ero vicino a scrivere, mi fermai per guardarlo, lui si illuminò in viso e più volte ripetè riden­do: «Io in barca…». Sorride­va come un bambino e soc­chiudeva gli occhi azzurri, il padre mio. Chissà cosa so­gnava: la vita che si riapre al largo, il passato che riemer­ge dai flutti, una carezza di vento in alto mare. Alla fine è salpato da solo. Però mio figlio ha gli oc­chi azzurri. Marcello Veneziani

IL SIGNOR FINI IN TULLIANI HA PIAZZATO IN RAI LA SUCOERA E ORA VUOLE CACCIARE I PARTITI

Pubblicato il 8 ottobre, 2010 in Costume, Politica | No Comments »

di Giancarlo Perna

Dicono i criminologi che è tipico del colpevole aggirarsi sul luogo del delitto. Il detto si attaglia perfettamente a Gianfranco Fini. Se almeno stesse zitto non ce ne saremmo accorti. Invece è da mesi il presidente della Camera che più parla a vanvera della storia repubblicana, per darsi ogni volta la zappa sui piedi.
Ieri, intervistato da Michele Santoro ad Annozero ha avuto l’impudenza di concionare sulla Rai. Col solito cipiglio del moralizzatore in servizio permanente ha detto che i partiti non devono più metterci becco e che la tv pubblica va privatizzata. Ha aggiunto che il suo partito, Futuro e Libertà, presenterà provvedimenti per raggiungere l’obiettivo. A parte che se ne parla da decenni senza fare niente, che ora sia lui a riesumare l’argomento mostra la sua inguaribile facciatosta.
Fini ha rimpinzato la Rai di uomini suoi e li ha spremuti come limoni per ottenere quello che gli fa comodo. Le cronache degli ultimi mesi sono piene dei suoi pesanti interventi per favorire il parentado acquisito dei Tulliani. La suocera, una casalinga che profittando della liaison tra Gianfry e la figlia si è trasformata in produttrice tv, ha ottenuto un contratto milionario. Il cognatino Giancarlo, quello dell’appartamento di Montecarlo, ha intrigato per oltre un anno cercando prebende radiotelevisive. Ha bussato a tutte le porte dei finiani in Rai, al motto: «Mi manda Gianfranco di cui sono il plenipotenziario per le faccende radiotelevisive». Ha rotto le scatole con arroganza e preteso l’impossibile. Finché, stufi di vederselo tra i piedi, anche i radiofonici legati da stretta amicizia con Fini lo hanno mandato a farsi benedire. Così, vista l’insaziabilità dei Tulliani e l’incapacità di Gianfry di tenerli a freno, il presidente della Camera ha perso tutti gli appoggi che aveva in Viale Mazzini. Tanto che il contratto con la suocera, già siglato, è stato annullato e il cognatino intrufolone espulso dagli studi tv come persona non grata.
Uno che ha alle spalle una simile indecenza familista, dovrebbe perlomeno mettersi un tappo in bocca prima di profferire parola in tema di audiovisivi. Fini invece, malamente cacciato dalla Rai per via del parentame, ha ora l’ardire di ergersi a riformatore della stessa. Con quale credibilità, siano i lettori a giudicare. Sta di fatto che la sua uscita ad Annozero è stata accolta da oceanici sberleffi.
Oceanici ma non universali. La sinistra infatti – e gli antiberlusconiani in genere – gli tengono bordone. La vicenda di Montecarlo è esemplare. Ormai si sa tutto. E non è davvero una bella storia. In sintesi, Fini, affidatario di un bene del partito, lo ha fatto incamerare ai Tulliani a un prezzo cinque volte inferiore a quello di mercato. An si è depauperata, i parenti si sono arricchiti. Ma poiché la sinistra fa orecchie da mercante, Fini si sente a sua volta autorizzato a fare lo gnorri. Una cosa evidente e conclusa, sembra ancora aperta e da provare.
Con la storia di Montecarlo, Fini ha definitivamente perso la faccia. Lo sanno tutti, compresa la sinistra che ormai lo tiene in ostaggio. È per questo che Gianfy è costretto ogni giorno ad alzare il tiro contro gli ex alleati del centrodestra. Finché si mostrerà il nemico numero uno del Cav, i cattocomunisti lo grazieranno. È il suo viatico e la sola ancora di salvezza. Ecco perché non potrà mai riconciliarsi col suo antico mondo e ogni tentativo di accordarsi con lui è destinato al fallimento. In caso contrario, i primi a sbranarlo sarebbero gli attuali falsi amici che lo condannerebbero alla – già adesso più che meritata – damnatio memoriae.

Fa però cascare le braccia che, pur sapendosi in bilico, Fini mostri una così sfrontata faccia di tolla. Ricordate il suo monologo on line di due settimane fa? Era sepolto dalla massa di rivelazioni sulla casa monegasca e con le spalle al muro. Aveva un solo modo dignitoso di uscirne: scusarsi. Meglio con qualche lacrima e le dimissioni immediate. Invece, non solo non le ha date rinviandole alla prova definitiva – che in realtà già c’era – dello scippo cognatesco ma si è messo addirittura a catoneggiare. Ha parlato di «campagna ossessiva», ha fantasticato di «dossieraggio» ai suoi danni, si è autoproclamato solo politico mai sfiorato da sospetti, proprio mentre ne era al centro, e dei più infamanti. Per poi aggiungere – lo ricordo perché valutiate l’impudicizia di cui è capace – che l’accusa sulla casa era una ripicca per le sue virtù. Testuale: «A qualcuno (il Berlusca, ovvio, ndr) dà fastidio che da destra si parli di cultura della legalità, di leggi uguali per tutti, di riforma della giustizia che serve ai cittadini e non per risolvere problemi personali». L’insieme condito da sprizzi di odio per «il giornale della famiglia Berlusconi», come se gli intrallazzi del cognatino fossero colpa del Giornale e non del suo irresponsabile nepotismo.
Ed è appunto questo impancarsi predicatorio, mentre arranca nel fango, che più indispone della debole personalità finiana. Non rispondere mai dei propri peccati, facendosi scudo di quelli altrui, è tipico di chi fa politica al solo scopo di conservare il cadreghino. Esattamente come il ladro, che avendola fatta franca, torna sul luogo del furto per assaporare sorridente l’impunità.

IL BLUFF DI FINI SULLA CASA DI MONTECARLO

Pubblicato il 9 settembre, 2010 in Costume | No Comments »

Franco Bechis per “Libero

Il manuale è uscito nella sua ultima edizione alla fine del 2004, presentato dal ministro degli Esteri dell’epoca, Gianfranco Fini. Porta il titolo “Guida alla notifica all’estero degli atti giudiziari ed extragiudiziari in materia civile e commerciale”. Poche pagine, per spiegare agli uffici giudiziari italiani come si fa una rogatoria paese per paese.

Manuale utilissimo oggi per quella procura di Roma a cui Fini ha affidato – tempo qualche mese – l’accertamento della verità sulla reale proprietà della casa di Montecarlo lasciata in eredità ad Alleanza nazionale dalla contessa Anna Maria Colleoni e oggi abitata dal cognato del presidente della Camera, Giancarlo Tulliani.

Elisabetta Tulliani e Gianfranco Fini a Mirabello

Basterebbe sfogliare quel manuale che probabilmente Fini conosce a memoria per avere una certezza: si può fare con successo una rogatoria alle Bahamas, in Belize, in Bostwana, in Kirghizistan, alle Seychelles, perfino a St Vincent e Grenadine. Ma non nell’isola di Santa Lucia: non ha alcuna convenzione bilaterale con l’Italia, non aderisce alle convenzioni internazionali dell’Unione europea, non ha messo la sua firma né sotto la convenzione de L’Aja del primo marzo 1954 né sotto il testo successivo che l’ha riformata il 15 novembre 1965.

La rogatoria sulla casa a Montecarlo farebbe quindi un buco nell’acqua, perché nessuno sarebbe tenuto a rispondere o dare assistenza giudiziaria alla procura della Repubblica di Roma. Quella “fiducia” nei giudici manifestata da Fini davanti alle telecamere di Enrico Mentana è quindi un clamoroso bluff del presidente della Camera, che da ex ministro degli Esteri sa perfettamente come il segreto di quella casa sia stato blindato in uno dei pochi posti al mondo in cui la magistratura nulla può.

Se proprio avesse voglia di perdere tempo e soldi la procura di Roma potrebbe inviare la rogatoria all’unica rappresentanza diplomatica ufficiale italiana che ha giurisdizione su Santa Lucia: l’ambasciata di Caracas, in Venezuela. Che al massimo ha il potere di inviare una raccomandata con ricevuta di ritorno al ministero della giustizia di Santa Lucia, nella città di Castries, che non ha alcun obbligo di risposta. Non sarà mai per via giudiziaria che si potrà conoscere la verità sulla vendita di quella casa a Montecarlo.

E non potrà essere nemmeno per altre vie ufficiose ogni tanto utilizzate attraverso la cooperazione di fatto delle polizie finanziarie (ad esempio nella guerra internazionale contro il terrorismo). Perché le due società protagoniste della vendita della casa nei paradisi fiscali, la Printemps Ltd e la Timara ltd, hanno azioni intestate fiduciariamente al portatore.

Sono quindi di chi ha in tasca, in mano o in un cassetto della scrivania in questo momento le azioni. Per cambiare azionista non c’è bisogno di grandi transazioni: basta vedersi in un bar e passare di mano quella intestazione fiduciaria e le azioni al portatore. Non esiste documentazione sulla costituzione della società, non esiste passaggio bancario che sia in grado di provare alcunché.

La casa di Montecarlo lasciata in eredità ad AN e finita nella disponibilità del “cognato” di Fini, cioè il fratello della sua compagna.

Non si potrà mai provare ad esempio, se il nome Timara è sigla di “Tulliani immobiliare a responsabilità anonima” o di “Turturro immobiliare a rogito anonimo“,per seguire possibili acronimi in lingua italiana. L’intervista di Fini a Mentana dunque nasconde un consapevole bluff, indegno di un leader politico e ancora di più del rappresentante della terza carica istituzionale della Repubblica italiana.

Ma se è possibile trasferire di mano le azioni al portatore a un cavaliere bianco pronto a presentarsi azioni in mano davanti alla stampa italiana, perché Fini non ha scelto subito questa strada? Per due ragioni ovvie. La prima è che deve essere d’accordo chi in questo momento ha in tasca quelle azioni al portatore. La seconda è invece una ragione squisitamente economica. Chi si presentasse alla stampa con le azioni in mano, è in quel momento l’unico reale proprietario della casa di Montecarlo. Ha tutti i poteri per vendere l’immobile.

GIANCARLO TULLIANI, “cognato” di Fini

Le agenzie immobiliari valutano quella casa intorno ai 25-30 mila euro al metro quadrato. Un abitante dello stesso palazzo ha rivelato di avere offerto fino a 1,5 milioni di euro per comprare la casa che fu di An. Se la transazione avvenisse quel milione e mezzo finirebbe ovviamente nelle tasche del venditore. Se il venditore fosse solo un prestanome, quella cifra finirebbe nelle sue tasche beffando il proprietario reale. Senza cambio di portatore, è chiara però una cosa.

Tutti possono nascondersi dietro la Timara ltd, meno la famiglia Tulliani. Perché è chiaro che non si può ricevere un bene a 300 mila euro e ottenere una plusvalenza da 1,2 milioni di euro destinati alla famiglia del primo venditore. Una ipotesi per la sua rilevanza penale più che politica talmente grave da dovere essere esclusa senza ombra di dubbio.

CHI E’ IL VERO AVVERSARIO: GHEDDAFI O AHMADINEGJAD?

Pubblicato il 1 settembre, 2010 in Costume | No Comments »

Domanda: chi è il nemico? L’Iran o la Libia? La storia si occupa sempre di rimettere le cose a posto, anche le idee sbagliate. Per queste ultime ci vuole un po’ più di tempo, ma alla fine i fatti hanno il sopravvento e diventano più importanti delle persone e delle loro balzane idee. Nel momento in cui la buoncostume del politicamente corretto fa strillare le sirene dello scandalo per le hostess del colonnello Gheddafi, da un’altra parte del mondo, dall’Iran teocratico, arriva in picchiata una di quelle notizie che fanno un falò della propaganda dei benpensanti in terrazza: un giornale non proprio estraneo al regime degli ayatollah chiede la morte di Carla Bruni, consorte del presidente francese Nicolas Sarkozy. Di cosa è colpevole la premiere dame? Per gli islamici radioattivi, la Bruni non doveva fare un appello per salvare la vita a Sakineh Mohammadi-Ashtiani, la donna iraniana che rischia la vita perché accusata di adulterio.
Secondo i simpatici redattori del quotidiano Kayhan, vicino alla suprema guida iraniana, Carlà è «prostituta e immorale». Lezione di bon ton a parte, siamo in presenza di un fatto che dovrebbe far riflettere le presunte teste pensanti del Belpaese che in questi giorni hanno sprecato il loro tempo ad attaccare Muammar Gheddafi. Accecati dall’antiberlusconismo, i moralisti e radical chic a contratto hanno, ancora una volta, sbagliato bersaglio e perso un’occasione non per tacere – cosa che non auspico – ma per ragionare seriamente, sulla base di dati oggettivi, sulla politica estera. Dov’è il cattivo? Sta nel regime teocratico di Ahmadinejad che auspica la morte di Carla Bruni perché ha difeso una povera donna dalle brutali leggi islamiche o il colonnello Gheddafi che a Roma ha regalato il Corano a qualche centinaio di ragazze? Chi è più pericoloso? Il satrapo iraniano che sta costruendo la bomba atomica e dichiara al mondo che vuol cancellare Israele dalla carta geografica o il colonnello che ha rinunciato al suo programma di armi di distruzione di massa, chiede di fare business e porta investimenti pesanti in Occidente? Chi fa più paura? Il presidente di una nazione che attraverso i suoi circuiti finanziari foraggia il terrorismo internazionale o il leader libico che chiede all’Europa la cooperazione (leggete pure i soldi) per combattere il fenomeno dell’immigrazione clandestina? Sarebbe buona cosa riportare il dibattito sulla terra, ma i marziani che pretendono di impartire lezioni sulla morale, sulla politica estera, sul come ci si veste e ci si comporta a tavola hanno deciso che non è il caso di soffermarsi su questi dettagli: Gheddafi è un bifolco, Berlusconi un suo complice e tutto il resto non conta un fico secco. Da una parte un regime che vuole la morte di una donna che difende una donna, dall’altra uno Stato che partecipa al capitale di una delle più importanti banche italiane, uno dei volani delle nostre imprese.
Davvero strano il mondo visto dall’angolatura progressista. Non si capisce mai cosa sia bene o male, dipende dalla convenienza del momento e dal portafoglio rigorosamente a destra anche se stai a sinistra. Perso il senso della misura e del ridicolo, tutto è possibile. Persino che i finiani riescano a superare Bersani in pochezza. Ho letto un’esilarante notizia per cui il ministro Mara Carfagna secondo quelle sagome di Generazione Italia – una delle «cose» finiane – dovrebbe esternare in difesa della Tulliani e contro Gheddafi. Agli italogenerazionisti non passa neppure per l’anticamera del cervello che Elisabetta si difende da sé, che la polemica su Gheddafi è pelosa. Sognando l’abbattimento in volo del jumbo di Berlusconi, lanciano missili su qualsiasi cosa si muova intorno al Cavaliere. Fossero pure delle colombe, per loro sono da abbattere. Sono complici più o meno inconsapevoli dei disgeni di chi sogna un’Italia più debole nel panorama internazionale. Anche ieri il Financial Times nella Lex Column ha auspicato la «rivoluzione politica» nel nostro Paese.
Davvero dei filantropi questi della City, gente in bombetta che ha a cuore le sorti dell’Italia. Possono gabbare gli ingenui e chi cita i giornali stranieri senza leggerli, non chi guarda i contratti per la ricerca di gas e petrolio stipulati dalle aziende inglesi. Sperano nella caduta del Cavaliere, nel ribaltone, e per farlo s’aggrappano a tutto, ma soprattutto alla giacca di Gianfranco Fini, il presidente della Camera. Per loro è un semplice mezzo, un cavallo di Troia. Presto o tardi vedremo i frutti di questa battaglia che ha come obiettivo la caduta di Berlusconi e la sua sostituzione con un governo dal pensiero debole e dalla politica estera inesistente. Nel frattempo, chi non ha buttato ancora il cervello all’ammasso, è pregato di studiare per bene le differenze che passano tra l’Iran e la Libia, tra un Paese che cerca di costruire la bomba atomica e uno che cerca di fare business, tra chi le donne vuole farle lapidare e chi non approva il fondamentalismo e lo dice a chiare lettere. Gli «ismi» nel Novecento hanno prodotto due guerre mondiali e una Guerra Fredda. Crollate le ideologie, è rimasto in piedi un moralismo da terza classe che rischia di corrodere tutto. Se proprio se la sentono, potrebbero scendere in piazza, lorsignori, e chiedere l’embargo totale dei rapporti commerciali tra l’Italia e la Libia e, visto che ci siamo, tra l’Iran e lo Stivale. Sarebbe esilarante vedere anche qualche finanziatore della fondazione di Fini sbiancare. Mario Sechi – Il Tempo