OGGI LO SPREAD TRA BTP ITALIOANI E BUND TEDESCHI E’ TORNATO A SALIRE SINO A 510 PUNTI: ECCO PERCHE’
Pubblicato il 28 dicembre, 2011 in Economia, Politica | No Comments »
Quello che ai più sfugge è che il differenziale tra Btp e Bund tedeschi oltre la soglia psicologica dei 500 punti base con rendimento al 7% non può far altro che obbligare il governo a varare entro breve un’altra manovra economica per riuscire a pagare quegli stessi interessi da capogiro che servono allo Stato per “piazzare” sul mercato i propri titoli.

Oggi come ad ottobre: nulla è cambiato. Basta dare un’occhiata al grafico dell’ultimo trimestre per capire che le dimissioni di Silvio Berlusconi da Palazzo Chigi non sono servite a niente. Adesso, però, le cassandre della sinistra tacciono, i giornali progressisti volano bassi e l’intellighentia dei poteri forti rivede le proprie posizioni. Perché non c’è più il Cavaliere da impallinare per una crisi economica che non nasce in Italia e che l’Italia non può risolvere (guarda il grafico interattivo).
Ci credevano davvero tutti quanti: cacciato Berlusconi tutto si sistemerà. Era diventato un mantra, una vera ossessione. Il leader Pd Pierluigi Bersani lo diceva una volta al giorno, manco gliel’avesse ordinato il medico. Da Repubblica al Fatto Quotidiano, dall’Economist al Financial Times: tutti a puntare il dito, sputare in faccia, accusare. Berlusconi capro espiatorio di una finanza che ha divorato i risparmi degli italiani. Non dev’essergli sembrato vero a tutti gli antiberlusconiani di poter addossare sulle spalle del Cavaliere le stregonerie dello spread. Già il 14 luglio l’Economist profetizzava il crollo del Belpaese e accusava l’allora presidente del Consiglio di aver dato un messaggio al mercato internazionale: “Picchiate noi perché siamo i più deboli”. Già in estate la sinistra furoreggiava. E dalle kermesse agostane di partito i vari leader assicuravano che solo le dimissioni di Berlusconi avrebbero salvato l’Italia. Da allora gli attacchi si sono fatti sempre più efficaci. Il 27 novembre il Times ha dipinto il Cavaliere come un clown e gli ha intimato di farsi da parte. Il 6 novembre, invece, il Financial Times lo ha accusato di ignorare la crisi del debito con il direttore Lionel Barber che lo ammoniva: “Nel nome di Dio, dell’Italia e dell’Europa, vattene“.

Le tesi antiberlusconiane che circolavano in autunno sui quotidiani esteri, più che fondarsi sull’andamento dei titoli a Piazza Affari e sullo spread, scopiazzavano pedissequamente gli starnazzamenti dei vari leader all’opposizione. Il 25 ottobre il differenziale già galoppava verso la soglia record dei 400 punti base. Da lì l’idea di Bersani di usarlo come cavallodi Troia per tentare la spallata. “Ora non c’è più tempo per crogiolarsi con le favole – diceva – per far ripartire l’Italia ha bisogno di un colpo di reni, di discontinuità sul piano politico”. Con novembre lo spread è balzato dai 390 ai 560 punti base. Un vero e proprio sussulta. E giù attacchi al Cavaliere. Ai primi del mese Massimo D’Alema assicurava: “E’ bastata la voce delle sue dimissioni per far calare di colpo i tassi d’interesse, mentre quando ha smentito gli interessi sono cresciuti. E’ la dimostrazione di quanto costa Berlusconi agli italiani”. E la laeder degli industriali Emma Marcegaglia gli faceva eco chiedendo – prepotente – l’intervento del capo dello Stato: “Se ci saranno le condizioni, dovrà intervenire”. Secondo la Confindustria uno spread oltre i 500 punti sarebbe costato al Paese quasi 9 miliardi di euro. A condire l’assalto al Cavaliere ci pensava anche Repubblica che, negli stessi giorni, invitava Berlusconi a seguire le orme di José Luis Zapatero: “Il mercato si interroga sul valore dell’addio di Berlusconi, almeno in termini di interessi sul debito pubblico. Secondo gli analisti un’uscita di scena del premier vale almeno 100 punti base sullo spread tra i btp decennali italiani e i bund tedeschi. Tradotto in soldoni, è un risparmio di 15 miliardi di euro in tre anni”. Il Fatto Quotidiano arrivava addirittura a inventarsi la “tassa Berlusconi”: “Il differenziale sui Bund tedeschi sta costando molto caro alle banche e a chi, in questo periodo, deve chiedere un finanziamento”.
Dallo spauracchio all’ossessione il passo è stato davvero breve.E’ infatti bastata una prima pagina del Sole 24Ore per mandare tutti nel panico. “Fate presto” il titolo scelto dal direttore Roberto Napoletano riprendendo il titolo apparso sul Mattino di Napoli tre giorni dopo il terremoto del 23 novembre del 1980 che sconvolse l’Irpinia. Leggere il quotidiano della Confindustria e ascoltare i panegirici di Giorgio Napolitano era la stessa cosa: appelli all’unità nazionale, richieste di sacrifici per tutti e, sotto sotto, il diktat “Berlusconi deve dimettersi”. Tanto che il 12 novembre le dimissioni del Cavaliere sono arrivate. Un gesto di responsabilità istituzionale che è stato accolto dai fischi e dagli insulti degli anti berlusconiani che per due giorni si sono dati ai festeggiamenti.
Caroselli nelle strade di Roma, brindisi nelle scuole occupate, scritte ingiuriose sui muri della Capitale. Una festa di liberazione, insomma. “Il dittatore di Arcore è caduto”, gridavano mentre in via del Nazareno i democratici festeggiavano vestendo i panni dei partigiani trionfatori.
Poi è arrivato Mario Monti. Poi è arrivato il governo tecnico. E qualcosa è cambiato? Eccome. La stampa progressista ha svelenito il clima e si è scordata di informare i lettori che tra il 14 e il 15 novembre lo spread tra Btp e Bund è tornato a salire a 540 punti base per poi tornare a scendere a fine mese a 483. Una vera e propria altalena che non guarda in faccia nessuno. Ma col Professore al governo l’Unione europea si è fatta sorniona, la stampa internazionale si è scordata della crisi del debito italiano e la Confindustria è andata in letargo. Con dicembre, infatti, i soloni non pointificavano già più di finanza e di economia. Qualcuno si è fatto sentire all’Immacolata quando il differenziale ha tirato un sospiro di sollievo ed è sceso a quota 358 punti. Un miraggio. Nessuno ci credeva realmente. Tanto che sono bastate un paio di settimane per far tornare tutto come era prima. Cos’è successo nel mentre? La manovra è stata approvata alla Camera (16 dicembre) e al Senato (22 dicembre).
Oggi come ieri, dunque. Inutili le dimissioni di Berlusconi. I soli effetti della manovra “salva Italia” si sono sentiti nel magro Natale. Con le associazioni dei consumatori che hanno calcolato un calo degli acquisti per 400 milioni di euro. Qualcuno ha parlato del “peggior Natale degli ultimi dieci anni”. E, al ritorno dalle vacanze, l’andamento di Piazza Affari resta incerto anche a causa dello spread che questa mattina è tornato a varcare la soglia psicologica dei 500 punti toccando quota 522 per poi ripiegare sotto i 490 grazie alla boccata d’ossigeno data dall’asta sui Bot. Il successo ottenuto dal Tesoro non riesce ad alleviare le tensioni sui titoli di stato. Tanto che nel giro di poche ore il differenziale è tornato a salire oltre i 510 punti base.
Adesso, però, nessuno più parla. Nessuno chiede dimissioni. A Bersani non passa nemmeno per la testa l’idea di pretendere un passo indietro dal governo tecnico. La Confindustria non si sbraccia a dettare la ricetta per salvare il Paese. I vari Economist e Financial Times non pontificano più sul futuro dell’Italia e sulla tenuta della moneta unica. I vertici di Bruxelles non caldeggiano, a cadenza quotidiana, misure più incisive. Più che i cori di Natale, si sentono sospiri da Quaresima. Tra i palazzi capitolini si bisbiglia appena. Columnist ed editorialisti hanno riposto la stilografica nel taschino: per l’occasione stanno imparando a fare gli equilibristi con le parole. In giro non si vedono più falchi e leoni, soltanto candidi agnelli. Amen, e così sia. Andrea Indini, Il Giornale, 28 dicembre 2011




Tanti saluti all’idea che si doveva far pagare quelli che non avevano pagato. Pagheranno quelli che hanno sempre pagato, per giunta di più, vale a dire le fasce alte delle aliquote Irpef. Non è un colpo di scena, ce lo aspettavamo. Credere che fosse possibile il contrario è un po’ credere nelle favole, e noi non ci crediamo. Però c’è un aspetto fastidioso, un elemento culturale che segnaliamo ai professori al governo, talché lo mettano nel conto di reazioni negative: sostenere che questo sia un atto di giustizia sociale, perché così pagano i “ricchi”, è una tesi intollerabile. Primo, perché così pagano solo le persone oneste. Secondo, perché immaginare come “ricchi” i redditi che superano i 55mila euro può farlo solo chi preferisce coltivare pregiudizi sociali al far di conto. Il ceto medio e professionale subisce una spazzolata fiscale senza veder modificare, anche nel senso di maggiore apertura alla concorrenza, le regole del proprio lavoro. Peccato, perché le riforme avrebbero favorito la crescita, mentre i prelievi favoriscono solo la depressione. A questo si aggiunga che rimane in predicato un possibile innalzamento dell’Iva, già cresciuta di un punto, il che ulteriormente colpisce i consumi, già in recessione da mesi. Ma che volete? diranno quelli del governo: siamo in un momento terribile, abbiamo ereditato una situazione difficilissima e non potevamo fare altro. È vero, avrebbero ragione a dirlo. Ma è anche drammatico perché, se ci si limita a quel che si mormora e annuncia, vuol dire che siamo finiti in un vicolo cieco. Dove i primi ad essere bendati, però, sono gli stessi che dovrebbero tirarcene fuori. Perché, per dirne una, non sento parlare di vendite e privatizzazioni? Anche con quelle si farebbe cassa, ma senza incrudelire la recessione e senza lasciare in bocca il sapore sgradevole della vendetta sociale (inaccetabile). Conosco l’obiezione: ci vuole tempo e i soldi servono subito. Ma con tante belle menti a disposizione si possono trovare soluzioni tecniche capaci di produrre liquidità. Ad esempio si possono mettere i beni pubblici dentro un contenitore immediatamente valorizzabile, quindi immediatamente capace di trasformarsi in moneta sonante. Si può anche immaginare di portare verso quel veicolo, anche forzosamente, i quattrini degli italiani che si trovano ad avere liquidità, di modo che quei soldi verrebbero comunque schierati nella trincea del debito pubblico, ma senza essere ufficialmente sequestrati da un inasprimento fiscale, bensì speranzosamente riposti sul Piave, in attesa che Vittorio Veneto getti nel passato Caporetto. Una proposta di questo tipo è stata già descritta da Enrico Cisnetto, meriterebbe che ci si spiegasse perché non preferirla al torchio dell’erario (oltre tutto egli è genovese, quindi spontaneamente portato alla micragna, sicché dovrebbe trovare ascolto in un governo ufficialmente nato per far venire il braccino corto alla spesa pubblica, non per allungare le mani nelle tasche delle persone per bene, dei benemeriti che non nascondono i guadagni). Non essendo mai stato in cattedra, dall’ultimo banco vorrei segnalare un problema, a tanti illustri docenti: se l’unica cosa che si riesce a fare, vale a dire tassare, è la medesima che chiunque altro sarebbe stato in grado di concepire, se l’attesa dei provvedimenti si corona con la presentazione dei più scontati, esclusa l’incompetenza degli autori prende corpo la disperazione dei cittadini. Insomma, vuol dire che siamo alla frutta e che le idee scarseggiano più dei talleri. È per questo, non certo per amore degli equilibrismi politici, che speriamo si sappia aggiungere alle misure di cassa anche non meno concreti provvedimenti per lo sviluppo. Nel primo semestre dell’anno in corso i distretti italiani hanno segnato una crescita delle esprotazioni più alta dei tedeschi. La migliore in Europa. Se si interseca il dato regionale (l’area più forte è stata il Nord-Est) con quello merceologico si scopre che l’area più debole, ovvero il Sud, ha elementi d’eccellenza, che la pongono all’avanguardia, laddove si parla di tecnologia avanzata. Cito questo dato per dire che l’Italia produttiva c’è, quella che rischia, che studia e che inventa, è presente. A quest’Italia non si deve raccontare la storia triste dei ricchi da punire, specialmente se l’asticella della ricchezza viene collocata così in basso. Guai a stroncare le gambe di chi vuol correre, guai a distruggere il morale di chi ha l’ambizione di vincere, perché così facendo poi ci ritroviamo solo con l’Italia che campa di trasferimenti pubblici, ovvero gli stessi che si dovrebbero comprimere. A quel punto ci troveremmo a verificare la conferma di una dannazione: il consenso elettorale raccolto proprio grazie a una spesa che condanna l’Italia a scivolare indietro, lasciando senza degna rappresentanza gli italiani che incarnano l’unica seria alternativa alla rassegnazione declinante. Il governo Monti aveva ed ha la possibilità di ridare fiducia e dignità a questa Italia. Stia attento, per assenza di coraggio e fantasia, a non accartocciarsi nella retorica del sacrificio e della sofferenza, quasi fossero lussurie e non malanni. Ricordi che siamo una delle gradi potenze economiche del mondo. Che certamente necessita di rimettere ordine nei propri conti pubblici, che sicuramente, nel farlo, si possono rompere privilegi e tabù, ma non si può e non si deve farlo fracassando le ossa all’Italia dei privati produttivi, assai meno indebitati, quindi più virtuosi, dei loro simili nel resto d’Europa. Davide Giacalone, Il Tempo, 4 dicembre 2011
