DELLA VALLE INSISTE E AGLI INDUSTRIALI DICE: BASTA FARE LA BELLA VITA. MA E’ UNA BURLA DEL FOGLIO DI FERRARA
Pubblicato il 4 ottobre, 2011 in Economia, Gossip | No Comments »

E’ tutto uno scherzo. Va detto subito perché ieri sera, quando la redazione del Foglio ha anticipato l’uscita, i collaboratori di Diego Della Valle sono trasecolati. L’avviso a pagamento ospitato dal quotidiano diretto da Giuliano Ferrara e dal titolo Imprenditori ora basta è una bufala. Divertente, ma comunque una presa in giro. Il succo? All’indomani dell’addio della Fiat dalla Confindustria, l’imprenditore marchigiano avrebbe preso carta e penna per bastonare Emma Marcegaglia per le sue confidenze con il segretario della Cgil, Susanna Camusso, e per bacchettare i (troppi) industriali che “preferiscono lunghi e possenti yacht e bella vita corporativa”.
Nel giro di pochi giorni il Foglio fa un tiro mancino. Oggi ha preso di mira il patron delle Tod’s che sabato scorso aveva comprato una pagina su Corriere della Sera, Gazzetta dello Sport, Sole 24Ore e Repubblica per dire: Politici, ora basta. Così Ferrara, dopo le critiche che ieri sono piovute da tutte le parti contro Della Valle, ha deciso di fargli il verso con una lettera per imprenditori e industriali. Una risposta ironica e tutta da gustare. Un testo piuttosto duro che smaschera tutte le mancanze degli industriali e le colpe di Confindustria in un momento di crisi in cui una certa parte del Paese è chiamata a fare di più per il bene degli italiani. “Lo spettacolo indecente e irresponsabile che molti di noi stanno dando non è più tollerabile da gran parte degli italiani e questo riguarda la buona parte degli appartenenti a tutti i settori industriali del Centro, del Nord e del Sud”. Inizia con queste parole il “contro-manifesto” del Foglio. Se in fondo alla pagina non ci fosse scritta la parola satira, quasi si potrebbero attribuire queste frasi alla penna affilata di Della Valle. Cadere nell’errore sarebbe davvero facile. Ad ogni modo fa sorridere ugualmente.
Il quotidiano di Ferrara riprovera a industriali e imprenditori un agire “attento solo ai piccoli o grandi interessi personali o di bottega” e un modo di fare che trascura “gli interessi del Paese. Insomma, atteggiamenti che starebbero portando l’Italia e gli italiani “al disastro” dal momento che sta danneggiando “irrimediabilmente il ruolo sociale dell’imprenditoria italiana” in tutto il mondo. Secondo il Foglio, il dado sarebbe tratto e lo schiaffo di Marchionne alla Confindustria (“organizzazione burocratica e obsoleta di interessi corporativi perseguiti in modo velleitario e subalterno”) ne sarebbe la riprova. La colpa della Marcegaglia sarebbe proprio quella di essersi allontanata dalla “realtà delle cose” e dai “bisogni reali del sistema economico e produttivo”.
Marcegaglia bocciata. Il “contro-manifesto” rimprovera, infatti, alla leader degli industriali di sgambettare per inseguire “le photo-opportunity in bella vista con la Camusso, magari per svuotare le politiche attive del mercato del lavoro promosse dal governo con l’articolo 8 della manovra”. Insomma, per il Foglio la Confindustria non ha più niente da dire. Il vero fallimento della Marcegaglia sta proprio nella (mancata) riforma del sistema previdenziale. Il finto Della Valle fa presente che gli industriali chiedono al governo che “i lavoratori vadano in pensione a 68 anni”, come già accade in Germania, mentre la Cgil preme perché gli operai continuino ad andare in pensione a 58.
“Come si fa con questo retroterra di fallimenti, con questa tendenza a fottere i soldi dello Stato in regime di mono o oligopolio, con questa incapacità di battersi perché un governo capeggiato da un imprenditore abbassi le tasse e la spesa pubblica – chiede provocatoriamente il “contro-manifesto” del Foglio – a dare lavoro ai giovani e a garantire a tutti, anche a Casette d’Ete (la località delle Marche dove risiede Della Valle, ndr) una vita dignitosa?”. La colpa, va detto, non è tutta della Confindustria. Gli stessi industriali devono rispondere delle proprie mancanze: “Alla parte migliore dell’imprenditoria che si impegnerà a lavorare seriamente in questa direzione, saremo in molti a dire grazie – conclude il testo – Agli industriali che preferiscono lunghi e possenti yacht e bella vita corporativa a un ruolo dirigente nella vita nazionale, saremo sicuramente in molti a voler dire di vergognarsi”. Solo satira? Spesso, con una battuta beffarda, si dicono grandi verità. 4 OTTOBRE 2011



La contemporaneità non fa sconti. Se gli Stati Uniti non riescono a trovare la cura dopo l’intossicazione finanziaria, l’Europa si lambicca su come interrompere la sua vita a debito. Parliamoci chiaro, i governi stanno seduti sulla nitroglicerina dell’inettitudine. La Grecia ha il novanta per cento di probabilità di fallire, la Bce per la prima volta non esclude il crac. Era questa la via da seguire mesi e mesi fa, senza perdere tempo e imporre a un popolo una ricetta che conduce alla guerra civile. Se la gente ha fame, se ne infischia della partita doppia degli gnomi della finanza. Brucia la casa di chi lo affama. Punto. Il collasso di Atene è in questi fatti e numeri: 353 miliardi di euro di debito pubblico (cinque volte quello dell’Argentina quando crollò nel 2001), due salvataggi inutili e tre anni di recessione. Capolinea. Credit Suisse ha messo le mani avanti e fatto i conti della dissoluzione dell’Euro. Non si sa mai. Mentre Atene brucia, Roma si contorce in una babele di ridicoli penultimatum. Confindustria presenta un manifesto che serve a fare titoli di giornale ma non aggiunge niente sul tavolo delle soluzioni concrete. I sindacati sono archeologia industriale, l’establishment sta alla finestra aspettando la caduta di Godot-Berlusconi. Nessuno tiene conto di una cosa: il nostro debito ha un rating da Paese in difficoltà ma in grado di far fronte alla sfida. L’Italia è ricca e può farcela. Basta avere visione e coraggio, perché la volatilità dei mercati sarà una condizione normale per lungo tempo e ci saranno cadute rovinose e formidabili riprese. È la storia che si fa e disfa sotto i nostri occhi. Dove qualcuno perde, altri guadagnano. È la legge di Wall Street, «il denaro non dorme mai», soprattutto quando i governi ronfano. Mario Sechi, Il Tempo, 24 settembre 2011
Le borse sono sotto un bombardamento planetario: il Dow Jones sta per bucare il pavimento dei 10 mila punti, tornando indietro di oltre un decennio; piazza Affari ha sfondato i 14 mila, considerato un supporto strategico di resistenza. Se noi siamo al Piave, gli americani sono sul tetto dell’ambasciata di Saigon, gli inglesi a Dunkerque, i francesi a Vichy. Neppure la super-Germania se la passa meglio: la Cancelleria assomiglia a un bunker, con tutte le sue sinistre memorie. Qui, chi volesse il 51 per cento di Intesa se lo prende con 8 miliardi: una bazzecola per un Warren Buffett di passaggio. Scopriamo che non c’è più nulla il cui rating non possa essere declassato: Italia, Usa, Giappone; la Fiat; le nostre banche, quelle francesi, domani le tedesche. Siamo tutti sotto downgrading, eppure sarebbe interessante capire dove vanno i soldi perché la regola che per ognuno che vende qualcuno compra non è stata ancora abrogata. Quando lo scopriremo vedremo il vincitore di questa guerra. Intanto ne conosciamo gli sconfitti: la classe dirigente americana ed europea, i banchieri centrali con le ferree e contrastanti religioni (quelli americani predicano il denaro facile, i tedeschi l’esatto opposto); gli industriali che guardano solo a Cina, Brasile e Turchia; i top manager tornati ai bonus milionari. E certo i politici. In questa situazione in Italia pare a molti un’idea vincente quella di sfrattare il Cavaliere. Fatto questo, risolto il problema. Al trio Bersani-Di Pietro-Vendola si è aggiunta Emma Marcegaglia. Partita per abolire il contratto nazionale, lascia la Confindustria a dov’era vent’anni fa, ai piedi del totem della concertazione e della Cgil. Il crollo dei mercati è impressionante. Quello dei cervelli ancora di più. Che ci sia un nesso? Marlowe,, Il Tempo, 23 settembre 2011
Caro presidente Silvio Berlusconi, mi permetta di darle alcuni consigli sulle imposte e gli evasori in queste ore in cui il centrodestra parla tra l’altro di “caccia” ai “grandi evasori”.
Cosa penseremmo di un governo che obbligasse i sindaci a rendere pubblici, su appositi registri, gli orientamenti sessuali dei cittadini dei rispettivi comuni? Ne saremmo, com’è giusto, inorriditi. C’è un’idea di “privatezza” che è cresciuta nei secoli, fino a diventare parte integrante del nostro vivere civile. Quest’idea si basa sul fatto che non siamo obbligati a dire tutto di noi ad altri esseri umani. Man mano che le società si sono fatte più estese, le relazioni hanno smesso di essere inevitabilmente “faccia-a-faccia”. Siamo usciti dalla logica del piccolo gruppo, imparando a sviluppare rapporti anonimi che fanno, in buona sostanza, la nostra libertà.
Si è concluso dopo circa sette ore il vertice di maggioranza ad Arcore con Silvio Berlusconi e Umberto Bossi per trovare un accordo sulle modifiche alla manovra finanziaria. Diverse auto hanno lasciato villa San Martino con Fabrizio Cichitto, Maurizio Gasparri, Roberto Maroni e Giancarlo Giorgetti. Nessuno ha voluto rilasciare dichiarazioni anche se Gasparri dall’auto ha fatto segno di “ok” col pollice sollevato.
Il simbolo dell’ipocrisia? I calciatori. Eto’o, sbarcato in Russia per giocare con una squadra ignota ma ricchissima, ha detto: non vengo per denaro, mi interessa il progetto. Cosa c’è di più interessante di 20 milioni di euro l’anno? Così i calciatori sciopereranno nella prima di campionato non per dei princìpi ma per avidità. La contesa è su un ipotetico contratto collettivo. Eppure non c’è atleta che non abbia un procuratore, un ufficio legale e un contratto preciso in ogni dettaglio. Stipendio, premi, bonus per lo sfruttamento dell’immagine, diritti. Tutto è precisato e pagato. Ben pagato. Come non dar ragione al presidente Beretta quando dice degli scioperanti in mutande: hanno retribuzioni da amministratore delegato e vorrebbero diritti superiori a quelli degli operai della catena di montaggio. Eppure dicono che non sono i soldi il problema. Ma allora perché non vogliono assicurare che pagheranno il contributo di solidarietà? Il problema in fondo è questo. Inutile che dicano il contrario. Loro quel contributo in realtà non vogliono pagarlo o comunque vogliono trattarlo con le società. Ma quale categoria ridiscute il contratto per il fondo di solidarietà? Nessuna. A chi verrebbe in mente di andare dal proprio datore di lavoro e dire: questo lo paghi tu? Sai che pernacchie riceverebbe. I calciatori no. Questa classe eletta, persone che guadagnano in un anno quello che molti professionisti prendono in una vita, non si vergognano nemmeno un poco. Chiedono e minacciano. Così il presidente della Federazione gioco Calcio, Abete, arriva perfino a proporre un fondo di 20 milioni messo a disposizione per eliminare il contenzioso. L’intenzione di Abete nasce dalla preoccupazione di disinnescare la bomba dello sciopero. Mettendo sul piatto quei soldi sperava di convincere le società di calcio a firmare l’intesa con la garanzia che non correrebbero il rischio di dover mettere mano al bilancio. Bene ha fatto la Lega calcio a dire no. È una questione di giustizia, di decoro. Se il mercato porta dei giocatori di calcio a guadagnare tanto non siamo qui a scandalizzarci, ma le tasse, giuste o ingiuste che siano le paghino come gli altri. Si immergano nella realtà. Così il tentativo di Abete e gli appelli di Petrucci sono caduti nel vuoto. Lo scopo era lodevole, quello di garantire la partenza del campionato. Il gioco del calcio non è solo divertimento, non è soltanto l’argomento preferito di discussione per milioni di italiani. È una vera industria che muove grandi risorse, un meccanismo che coinvolge le tv e la pubblicità. Ma dare garanzie che nessuno altro ha sarebbe stato un pessimo segnale per il Paese. Un precedente pericoloso. Così resta il braccio di ferro. Per disennescarlo basterebbe che i calciatori, senza ambiguità, si facessero carico di pagare di tasca propria il contributo. Se lo facessero darebbero un segnale forte di responsabilità. C’è un altro punto, più tecnico che alimenta la discussione: la possibilità o meno dei dirigenti di allontare dal gruppo qualche atleta. Ma parliamoci chiaro, questo non significa toccare le retribuzioni. Per il sindacato calciatori non si può isolare una persona dai compagni e farlo allenare separatamente. Ma quanto sono sensibili questi signorini. Si fanno fare dei contratti ricchi, se poi non rendono per quello che sono pagati, non fanno sconti. I soldi li vogliono tutti anche se la domenica vanno alla stadio, ma in tribuna. E se invece rendono di più ecco arrivare i procuratori per reclamare una revisione del contratto, e spesso le società devono cedere. Non hanno difese, nemmeno quello di mettere «fuori rosa». Diritti a senso unico. Solo per loro. Per i più ricchi dipendenti del mondo. Altro che attaccati alla maglia come ripetono con retorica. Sono attaccati solo allo stipendio, e che stipendio. Che scioperino pure. Se lo facessero i tifosi di calcio, quelli che pagano questo baraccone, altro che veline e Ferrari. I ragazzi viziati dovrebbero lavorare. Gli farebbe bene. Giuseppe Sanzotta, Il Tempo, 26/08/2011
Ogni studente di economia sa che la Germania ha tra i fondamenti della costituzione la stabilità monetaria e la lotta all’inflazione. Frutto, anche questo è noto, della svalutazione a sei cifre del marco durante la repubblica di Weimar. Il più studiato è l’articolo 115, che afferma: «Le entrate provenienti dal credito non possono superare la somma delle spese previste nel bilancio per gli investimenti». Vincolo esteso allo statuto della Bundesbank, la banca federale, e da essa imposto all’Europa prima con i parametri di Maastricht (dove il tetto all’inflazione di ogni paese è fissato al 3 per cento, pena sanzioni economiche), poi alla Bce, che continua a fissare la propria bussola sul contenimento dei prezzi prima ancora che sullo sviluppo. Difatti mentre le altre banche centrali dell’Occidente continuano a tenere i tassi a zero, l’Eurotower di Francoforte li ha già riportati all’1,5 per cento, con minaccia di ulteriori rialzi. E ora Angela Merkel, cui si è accodato Nicolas Sarkozy, chiede a tutta l’Europa di adottare il pareggio costituzionale di bilancio e pesanti manovre di austerity. Non solo. Sul Sole 24 Ore l’economista Luigi Zingales ha ricordato come per convincere i tedeschi ad abbandonare il marco a favore dell’euro il governo di Berlino pretese due condizioni: «1) La Banca centrale europea sarà altrettanto brava della Bundesbank nel tenere l’inflazione sotto controllo; 2) la Germania non dovrà mai intervenire per salvare altri paesi». Ed è appellandosi a queste condizioni giugulatorie che Angela Merkel insiste nei suoi «nein»: no al decollo del piano di salvataggio della Grecia, benché sia passato oltre un anno; no agli eurobond; no a qualsiasi altra cosa possa urtare la sensibilità finanziaria dei contribuenti-elettori di là dal Reno. Giusto? Forse: se la Germania avesse a sua volta la coscienza a posto in fatto di dare e avere. Ma se guardiamo alla storia, da quella tragica della Seconda guerra mondiale, a tutti gli anni Cinquanta e Sessanta, agli anni più recenti della caduta del Muro di Berlino, e fino ai giorni d’oggi, scopriamo che non è proprio così. La Germania ha avuto dal mondo, Occidente in particolare, molto più di ciò che ha dato e di quel che pretende adesso. E di questo non c’è traccia né nella sua Costituzione né tantomeno nella sua «constituency», quel codice magari non scritto che è alla base della condotta e delle tradizioni dei paesi avanzati. Non parliamo dei sei milioni di morti che la follia hitleriana causò nei campi di sterminio: non è il caso di far ricadere su figli e nipoti le colpe dei padri o dei nonni. Si può però far riferimento al costo economico della Seconda guerra mondiale, che certamente ebbe nella Germania la sua causa: di recente il Congressional research service americano lo ha quantificato in 5 trilioni di dollari senza tener conto dell’inflazione. Si tratta cioè di 5 mila miliardi di dollari che aggiornata ai giorni nostri è pari, grosso modo, a metà del Pil mondiale di 74 mila miliardi. Sconfitto il nazismo, gli americani vararono poi il piano Marshall da 22 miliardi di dollari che permise all’Europa sconfitta, tedeschi su tutti, di rimettersi in piedi mentre dall’altra parte si alzava la cortina di ferro. Non tutto filò liscio: la Francia chiese che la Germania fosse esclusa dagli aiuti proprio per la sua responsabilità nella guerra. Alla fine il presidente Usa, Harry Truman, si impuntò, fece digerire il piano all’opinione pubblica americana – non meno insensibile al portafoglio di quella tedesca di oggi – e altrettanto fecero inglesi, canadesi, australiani, svizzeri, norvegesi, svedesi, perfino spagnoli. La Germania ebbe 1,5 miliardi di dollari di aiuti, più dell’Italia, un po’ meno della Francia. Ma a questo sussidio d’emergenza che terminò nel 1951 si aggiunsero i costi per l’Occidente (Usa, Francia e Gran Bretagna) dell’occupazione di Berlino e della tutela della Germania Ovest. Il solo ponte aereo con cui gli americani scongiurarono che i berlinesi morissero di fame e freddo per il blocco imposto nel 1948 da Stalin fu un regalo tanto generoso quanto gigantesco: ogni tonnellata di carbone venduta a Berlino al prezzo politico di 21 dollari, ne costava 150 agli Stati Uniti. Alla fine le tonnellate furono 1,5 milioni, mentre quelle di cibo raggiunsero i 2,4 milioni. La più grande e costosa operazione umanitaria della storia. Non è tutto. L’ombrello militare occidentale e americano permise ai tedeschi di dedicarsi in tutta tranquillità al proprio boom economico. Nessuno ha mai calcolato quanto sarebbe costato alla Germania difendersi da sola contro le mire sovietiche, e del resto l’interesse strategico era anche degli Usa. Si sa però che la spesa militare cumulata è la causa principale dei 14.400 miliardi di dollari di debito pubblico Usa, che ha provocato il downgrading di Standard & Poor’s e innescato buona parte dell’attuale rischio di recessione globale. Ma anche i tedeschi ci hanno messo del loro. La riunificazione del 3 ottobre 1990, dopo un anno dal crollo del Muro, è giustamente considerato un capolavoro strategico e di lungimiranza del governo allora guidato da Helmut Kohl. Il suo costo è stato però stimato dalla Freie Universitat Berlin in 1.500 miliardi di euro dell’epoca, una cifra allora superiore al debito pubblico tedesco che adesso sfiora i 2.100 miliardi. La parità tra marco occidentale e orientale, voluta per motivi politici, si tradusse in un crollo di competitività dell’industria tedesca, che a sua volta provocò una recessione che dalla Germania si estese a tutta Europa, Italia compresa. A tutt’oggi Berlino eroga ai territori della ex Germania Est un trasferimento speciale di 100 miliardi di euro l’anno in conto «ricostruzione»: il doppio dei sacrifici imposti in questi giorni all’Italia. E siamo ai giorni nostri. La Merkel sostiene che il salvataggio dei paesi europei a rischio si risolve con il rigore e non può essere pagato dai contribuenti tedeschi. Tanto che le rigorosissime banche di Francoforte, tipo la Deutsche Bank, hanno venduto a piene mani Btp italiani. Bene: ma qual è l’esposizione di queste banche teutoniche nei paesi maggiormente a rischio e declassati dalle agenzie di rating? Secondo la Bri, la Banca dei regolamenti internazionali, si tratta di 65,4 miliardi di dollari verso la Grecia, 186,4 verso l’Irlanda, 44,3 verso il Portogallo, 216,6 verso la Spagna. Totale, 512,7 miliardi che il sistema finanziario tedesco ha «investito» nei Pigs. Cifra che si confronta con i 410 miliardi delle banche francesi, i 370 di quelle inglesi, i 76 di quelle italiane. Il risultato è che tra le dieci banche europee che fanno più ricorso alla famigerata leva finanziaria (che cioè contabilizzano maggiori crediti e capitale speculativo in rapporto al patrimonio) ben quattro sono tedesche: la Commerzbank, che occupa la prima posizione assoluta con una leva del 76,91 per cento, e poi la Berlin Landesbank, la Deutsche e la Deutsche Postban. Nessuna banca italiana figura in questa top ten. Nessun altro paese vede esposto il proprio sistema creditizio quanto la Germania. A questo punto la domanda è ovvia. Il rigore – giusto, per carità, e tanto più in un paese indebitato come l’Italia – imposto all’Europa dalla Cancelleria e dalla Bundesbank, serve a salvare gli stati o le banche? Soprattutto quelle di Francoforte e dintorni? Curiosità ancora più legittima se andiamo a guardare chi in questi mesi ha fatto più ricorso ai crediti della Bce. Ebbene, tra marzo e giugno 2011 il Tesoro e le banche tedesche hanno bussato alla porta dell’Eurotower per 247 miliardi di dollari, la Francia per 79, l’Italia per 149, la Spagna per 197. Soltanto a luglio l’Italia con altri 80 miliardi, ha portano il nostro conto a quota 229: ancora meno, comunque, della Germania. Insomma: mentre i rappresentanti tedeschi nel board della Banca centrale si opponevano al soccorso ai nostri Btp, salvo pretendere condizioni durissime, Berlino e Francoforte ottenevano crediti in abbondanza. D’accordo, loro hanno la tripla A: ma forse premia più la finanza che la riconoscenza, o la memoria. Marlowe, Il Tempo, 22 agosto 2011