IN ITALIA SI PAGANO TASSE SULLE TASSE
Pubblicato il 21 agosto, 2011 in Economia, Politica | No Comments »
Secondo le stime ufficiali gli italiani pagano 107 imposte. Ma un libro di Giuseppe Bortolussi (Cgia di Mestre) ci svela che sono tantissimi i balzelli che non si conoscono. Grazie ai quali lo Stato incassa più soldi di Berlino. Usandoli peggio
T
utti a dire che le tasse sono troppe, ma in troppi ignorano che si paga anche un’incredibile quantità di imposte nascoste: dai fondi pensione al project financing (con cui si finanziano due volte le opere pubbliche, in pratica) e dalle «tasse sulle tasse» (tipo l’Iva sulle accise della benzina) a quelle che cambiano nome ma non la sostanza. Bene, c’è un libro completo e didascalico (“Tassati e mazziati”, di Giuseppe Bortolussi, Sperling & Kupfer) che smonta i falsi miti sulla fiscalità italiana e spiega le ricadute concrete sulle tasche di cittadini e imprese.
Ma è difficile da riassumere. Si comincia dai fondamentali, che pure, messi in fila, non smettono di impressionare: il 51 per cento del nostro reddito lordo è prelevato dal fisco, e tende notoriamente ad aumentare. In proporzione al reddito, le tasse che paghiamo sono più elevate di quelle dei tedeschi (i nostri tributi sono superiori di almeno 5 punti percentuali) il che significa che lo Stato italiano incassa più soldi di quello tedesco per erogare dei servizi: ma, quando li eroga, sono nettamente inferiori. Questo è possibile perché da noi si pagano tasse anche sconosciute che nascono da incomprensibili meccanismi di rilievo, e che ci lasciano mazziati perché i servizi scadenti che appunto riceviamo dallo Stato ci costringono a rivolgerci ai privati.
FALSI OBIETTIVI
È d’uopo incolpare l’elevato debito pubblico, ma in realtà, anche considerando gli interessi sul debito, al nostro Paese rimarrebbe in cassa un surplus di risorse più che sufficienti per garantire buoni servizi: ma non è quello che accade. È d’uopo incolpare anche l’evasione fiscale: se tutti pagassero – si dice – tutto sarebbe diverso. Cifre alla mano, il libro di Bortolussi dimostra che neppure quello è il punto: lo Stato italiano, anche senza i soldi dell’evasione fiscale, ogni anno incassa molti più soldi della Germania. Lo Stato non riesce a spendere bene i suoi soldi: il punto resta questo, lapalissiano ma imprescindibile.
Comprendere tutte le tasse che si pagano è davvero difficile, e questo articolo non riuscirà a riassumere quanto il libro condensa in 174 pagine zeppe di dati e di tabelle. Siamo soliti guardare solo al reddito netto, in Italia, proprio perché inconsapevoli di quanto realmente versiamo. Il cittadino medio ha in mente l’Irpef e, se ben informato, le addizionali Irpef comunali e regionali. Pochi, tuttavia, considerano anche l’Iva e le accise che si accollano regolarmente con la spesa quotidiana: e quella la pagano tutti – studenti e pensionati – a tutte le ore della giornata. Basta usare un rasoio elettrico, farsi un caffè, usare acqua ed energia e gas, consumare benzina, comprare un whisky.
Giulio Tremonti, nel suo libro bianco del 1994, scrisse che le tasse erano almeno 100, e, di queste, 14 erano tributi sulla casa e 9 sull’auto. Ma secondo l’Istat (dati pubblicati nel giugno 2010, periodo 1980-2009) le forme di prelievo sono almeno 107, e non sono comprese, attenzione, quelle che riguardano servizi specifici come la tassa sui rifiuti. Sono però comprese le tasse che riguardano singoli eventi, tipo la maledetta Irap (Importa Regionale sulle Attività Produttive) o le tasse sul registro, l’ipotecaria, la catastale, quelle insomma più – si fa per dire – eccezionali. Nei fatti, le imposte sono corrisposte a 657 miliardi (nel 2009) a fronte di un reddito lordo nazionale di 1.521 miliardi, dato ingannevole ma che corrisponde comunque a un 43 per cento di pressione fiscale.
Perché ingannevole? Perché ci sono (prendete respiro) anche i contributi previdenziali, il contributo al Servizio sanitario, il premio Inail alle casalinghe, le citate addizionali Irpef comunali e regionali, l’Iva, la Tia-Tarsu sui rifiuti, il bollo auto, le accise varie, l’imposta sulle assicurazioni, il canone Rai, l’addizionale comunale sull’energia elettrica, quella regionale sul gas, e ancora le ritenute d’imposta sugli interessi attivi.
DETTAGLI DIABOLICI
Il diavolo è nei dettagli, troppi dettagli. Solo i balzelli che gravano sulla casa producono un bottino che si aggira attorno ai 43 miliardi (ripartiti tra Stato, comuni, province e regioni) ma poi ci sono tasse varie su acqua, gas, energia elettrica e metratura della casa stessa: roba che può costare 300 euro annui a un single e oltre 500 a una famiglia.
E l’auto? Lo Stato finge di adirarsi per gli aumenti delle assicurazioni, ma gli incrementi dei premi convengono anche al fisco: che si becca oltre il 18 per cento del premio versato, anche se il bottino vero, com’è noto, è nei carburanti.
E qui arriviamo alle famigerate tasse sulle tasse, un rompicapo. Qualche esempio. Bollette del gas o dell’elettricità: l’Iva è calcolata sulle accise. Tassa sui rifiuti: in alcuni comuni si paga la tassa «ex Eca» sulla Tarsu, che è un’altra tassa; in altri comuni si paga l’Iva sulla Tia, che è una tariffa. Poi c’è l’Iva sul prezzo dei carburanti, che è calcolata sul valore delle accise. Ragione per cui l’aumento del prezzo della benzina, allo Stato, conviene e basta. E sarà un caso che la benzina, da noi, costa più che altrove. Tutto chiaro? No, ovviamente.
Le famigerate accise, comunque, vengono calcolate sulle quantità consumate (litro, chilo) e lo Stato le ha sempre utilizzate per fare cassa in momenti di emergenza: passata l’emergenza, però, l’accisa restava. Così abbiamo, a rendere occulta la tassazione della benzina, 1,90 lire per la guerra di Abissinia del 1935, 14 lire per la crisi di Suez del 1956, 10 lire per il disastro del Vajont del 1963, 10 lire per l’alluvione di Firenze del 1966, 10 per il Belice, 99 per il Friuli, 75 per l’Irpinia, 205 per la missione in Libano del 1983, 22 per quella in Bosnia, 39 lire per il contratto dei ferrovieri: fanno 0,25 euro a cui vanno aggiunti i ritocchi recentissimi per finanziare il Fondo unico per lo spettacolo (Fus) e per cancellare la contestata tassa di 1 euro sul biglietto del cinema, più un altro ritocco applicato dalle compagnie petrolifere per «fronteggiare lo stato di emergenza umanitaria determinato dall’eccezionale afflusso di cittadini appartenenti a Paesi del Nord Africa». Una cosa umanitaria.
LIBERAZIONE FISCALE
Questo, e altro, determina che in Italia il «giorno di liberazione fiscale» sia i primi di maggio per un operaio e a fine giugno per un impiegato. Per quanto riguarda le imposte e i contributi e le tasse di cui sono debitori i lavoratori autonomi, invece, il libro di Bortolussi ne elenca 26, e non abbiamo voglia di ricopiarle. Se già è difficile conoscerle tutte, figurarsi il comprendere se si paghi il giusto. Ci sono tasse che si pagano perché lo stipendio aumenta: ma nel caso non siamo più ricchi, perché con più soldi, causa inflazione, spesso riusciamo a comprare le stesse cose di prima. Ci sono tasse che siamo costretti a pagare – come in questo periodo – per calmierare un deficit di cui magari non abbiamo colpa. E ci sono tasse per finanziare servizi di cui non fruiamo perché, complice l’inefficienza, preferiamo o siamo costretti a rivolgersi al privato: dai trasporti alla sanità (dentisti compresi) e dalle poste alla sicurezza, dagli asili alle scuole: senza contare i soldi che diamo al Vaticano e alle strutture cattoliche. Neppure il sistema giudiziario funziona, si sa: le aziende perciò si rivolgono sempre più spesso ad arbitrati privati o a camere di conciliazione.
A proposito di servizi pagati due volte: il libro si sofferma in particolare sul trucco del project financing, ossia il coinvolgimento di partner privati nella realizzazione di un’opera pubblica; si parla di autostrade, gallerie, ospedali, teatri, ponti di Messina, tutta roba che ovviamente prevedono la possibilità che gli stessi privati recuperino l’investimento e facciano quindi pagare (spesso strapagare) servizi e pedaggi. Il project financing però si concentra soprattutto nelle regioni dove già si pagano le tasse più salate, sicché i costi aggiuntivi – che ripagheranno la parte privata – alla fine gravano sulle nostre tasche come sempre. Ecco perché il costo medio per chilometro nelle tratte per esempio del passante di Mestre (finanziato da privati) è praticamente doppio rispetto ad altre tratte autostradali paragonabili.
Anche il moloch dell’evasione fiscale, secondo Bertolussi, è un problema, ma non è il vero problema. Secondo l’Istat la ricchezza che sfugge alle tasse è racchiusa tra il 16 e il 17 per cento del Pil: anche per questo la pressione fiscale, sugli onesti, arriva al 51 per cento. Ma sono loro, appunto, le vere vittime: se lo Stato restituisse loro tutti i soldi evasi, ogni anno, gli onesti avrebbero indietro almeno 2000 euro. Da immaginarsi se lo Stato utilizzasse i soldi recuperati per altra spesa pubblica: saremmo alla follia definitiva. Morale: l’evasione fiscale è un male orrendo, ma altri e più gravi mali dell’Italia sono i medesimi che la rendono poco attrattiva per gli investimenti esteri: i costi burocratici, i tempi della giustizia, le carenze infrastrutturali, tutto ciò che il denaro incamerato dallo Stato, cioè, non ha trasformato in un Paese moderno. Filippo Facci.




Noi non li vogliamo. Angela Merkel ha liquidato così l’idea di lanciare gli eurobond, i prestiti garantiti dall’Europa. La cancelliera tedesca chiude la porta e la Francia gira la chiave. Se questa è l’Europa unita, cari lettori, stiamo freschi, e cantiamo il De Profundis per un sogno che si sta trasformando in un incubo. L’Italia, Paese fondatore dell’Europa, dovrebbe cominciare a organizzarsi per una dissoluzione dell’Euro che giorno dopo giorno appare sempre più all’orizzonte non come un’ipotesi scolastica, ma come un’opzione. E quando le cose diventano possibili, è bene pensarci prima. L’ingresso nell’Eurozona all’Italia è costato lacrime e sangue (ricordate le manovre di Prodi e Ciampi?), la permanenza in questo club continua ad essere fonte di sacrifici enormi e frustrazioni economico-sociali. Anche gli spiriti più ingenui oggi hanno realizzato che il nostro rapporto di cambio è svantaggioso e ha determinato una diminuzione del potere d’acquisto delle famiglie che tutti toccano con mano ogni giorno. La moneta unica per evitare distorsioni e funzionare bene aveva bisogno di tre condizioni base: 1. Assenza di shock e virus che contagiano gli altri Stati; 2. Mobilità e flessibilità del lavoro; 3. Armonizzazione fiscale nei Paesi che adottano la moneta unica. Nessuna di queste tre condizioni si è realizzata e la situazione invece di viaggiare verso la «normalità» sta diventando sempre più «subnormale». Il caso della Grecia manda a carte quarantotto la condizione numero uno e dimostra come il contagio del virus da una nazione all’altra oggi sia una realtà che si tramuta in moneta sonante. I tedeschi e i francesi hanno detto sì al salvataggio di Atene per mettere al sicuro i bilanci delle loro banche che detenevano il debito del Peloponneso, ma si oppongono all’estensione di meccanismi di solidarietà continentale e dulcis in fundo all’unico strumento che potrebbe davvero salvare l’Eurozona dalla rottura del patto fondato sulla moneta unica. Il professor Alberto Quadrio Curzio da anni spiega come questa idea può essere realizzata: costituire un Fondo Comunitario Europeo, garantito dalle riserve auree, il quale poi emette obbligazioni pari al 5 per cento del Pil di Eurolandia. Si ricaverebbe una «dotazione» del Fondo pari a circa mille miliardi di euro, ipergarantita dall’oro che oggi viaggia alla cifra record di 1800 dollari l’oncia, ma secondo alcuni analisti in grado di toccare quota 2000 dollari entro la fine dell’anno. Problemino: i tedeschi dicono no. E i francesi si accodano. A questo punto, paradossalmente, proprio per salvare l’Euro e quel che resta dell’Europa, riemergerà il disegno messo nero su bianco nel 2010 da Michael Arghyrou e John Tsoukalas, due studiosi della Cardiff Business School e della Nottingham University, lanciato da Nouriel Roubini, l’economista che aveva previsto il crac del 2008. La base di partenza è questa: i Paesi periferici dell’area Euro invece di adeguare le proprie politiche economiche e fiscali agli standard previsti dall’Unione, fin dal 1999 hanno proseguito la loro marcia in rosso. Anno dopo anno, siamo arrivati ai giorni nostri con debiti sovrani troppo alti per esser onorati senza avviare riforme strutturali, cioè quelle che andavano fatte fin dall’inizio dell’avventura dell’Euro e nessun Paese in crisi (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo, ma ormai la stessa Francia) vuol fare per ragioni politiche, di mero consenso elettorale. Non avendo fatto in passato le riforme, non c’è più tempo per passaggi graduali, ma i governi non hanno il coraggio di sottoporre i propri Paesi a cure shock. Si può condurre una vita a debito, ma prima o poi si paga. E nessuno vuol staccare l’assegno, ma continuare a scaricare in avanti il fardello. La conclusione dei teorici del doppio conio è la seguente: la Banca Centrale Europea dovrebbe gestire due monete. Un euro forte e un euro debole. Il primo in circolazione nei Paesi più solidi (Germania, Francia, etc.), il secondo nei Paesi più fragili (Portogallo, Grecia, Spagna, Italia, etc.). Il debito dei Paesi da curare, continua ad essere contabilizzato con l’Euro forte, mentre l’Euro debole al momento del varo, viene svalutato di una percentuale sufficiente a consentire un recupero di competitività dei Paesi con problemi di crescita (sì, ricorda le nostre svalutazioni competitive della Lira). La Bce continuerà ad avere il monopolio della politica monetaria e avrà due tassi di riferimento per le due monete. I Paesi che oggi hanno il problema di gestire il debito sovrano avranno più tempo (quello che ora manca, insieme al coraggio) per gestire il rientro nell’Euro forte, dopo aver fatto le riforme strutturali, mentre gli Stati orientali che oggi non possono entrare nell’Eurozona potranno cominciare la loro marcia di avvicinamento verso l’Euro debole e poi puntare al top dell’Euro forte. É un sistema tutt’altro che sballato, dal punto di vista teorico, ha un suo grande fascino, inutile nasconderlo. Un Euro troppo forte – come quello attuale – è fonte di squilibri enormi, non favorisce Paesi che tradizionalmente esportano (vedi il caso Italia) e la bassa inflazione da sola non compensa la perdita di potere d’acquisto (ancora una volta, il caso Italia). Domanda: si può fare? La risposta dei signori della Bce è una sola, no. Non esistono meccanismi di uscita dalla moneta unica. Entri, chiudi la porta, ma non la riapri. Il problema è che la Storia non aspetta i trattati, si fa, a prescindere da quello che pensano gli uomini. Se gli spread restano a questi livelli, le Borse giocano al toso tutto quello che si muove sopra l’erba e l’economia mondiale entra in una drammatica recessione (Jp Morgan ieri ha tagliato seccamente le stime di crescita del Pil americano per i prossimi due trimestri), la faccenda diventa come alla roulette: i giochi sono fatti e chi ci ha rimesso la puntata non può chiedere indietro il piatto. I tedeschi si credono – e in parte certamente sono – il giocatore vincente. La Merkel non è ancora riuscita a far digerire il pagamento del conto degli allegri prepensionati greci, figurarsi garantire il portafogli della carovana di spendaccioni del Club Med. Il pasticciaccio brutto è tutto qui. Siamo di fronte a un Paese forte con l’opinione pubblica che ha il mal di tasca (la Germania) e a un’altra nazione (la Francia) che sta a Berlino come il vagone alla locomotiva. Mezza Europa di traverso. É un modo ottuso di ragionare e procedere, condurrà al patatrac del Vecchio Continente, ma la cronaca ci consegna tutti i giorni storie di ordinaria follia. Povera Europa. Mario Sechi, Il Tempo 20 agosto 2011
