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PERQUISIZIONI AL GIORNALE:

Pubblicato il 1 febbraio, 2011 in Costume, Cronaca, Il territorio | No Comments »

A disporre le perquisizioni il pm di Roma Silvia Sereni. Il reato sarebbe abuso d’ufficio. Ma l’articolo pubblicato (leggi qui) conteneva solo sentenze pubbliche del Csm. Indagato per abuso d’ufficio il consigliere di Palazzo dei Marescialli Brigandì, che commenta: “Non ne so nulla”. Il direttore Sallusti: “La perquisizione non solo è un atto intimidatorio, ma una vera e propria aggressione alla persona e alla libertà di stampa”. Il Cdr denuncia: “Aggressione pervicace e violenta”. Pochi mesi fa le altre perquisizioni per l’affaire Marcegaglia

- L’irruzione dei carabinieri. La normalità sconvolta. La scena è quella abituale, la vittima ancora una giornalista de Il Giornale. Dalle 9 sono in corso alcune perquisizioni nell’abitazione romana della cronista Anna Maria Greco. A disporle il pubblico ministero Silvia Sereni e, a quanto risulta, il provvedimento è stato ordinato per la presunta violazione dell’articolo 323 del codice penale, quello relativo all’abuso d’ufficio. Sotto la lente della magistratura l’articolo pubblicato giovedì 27 gennaio “La doppia morale della Boccassini”. Un nuovo tentativo di mettere il bavaglio alla libertà di informazione e al Giornale in particolare dopo le perquisizioni di pochi mesi fa al direttore, Alessandro Sallusti, al vicedirettore, Nicola Porro, e alla redazione milanese del quotidiano per l’affaire Marcegaglia.

I carabinieri hanno fatto irruzione a casa della giornalista intorno alle 9: hanno sequestrato il computer di Anna Maria Greco e persino quello del figlio della cronista. Perquisizioni sono in corso anche negli uffici della redazione romana del Giornale.

“Per l’ennesima volta la casta dei magistrati mostra il suo volto violento e illiberale” è il primo commento del direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti. “La perquisizione nell’abitazione privata della collega Anna Maria Greco, autrice dell’articolo che conteneva sentenze pubbliche del Csm, non solo è un atto intimidatorio, ma una vera e propria aggressione alla persona e alla libertà di stampa. Stupisce che soltanto le notizie non gradite ai magistrati inneschino una simile repressione quando i magistrati stessi diffondono a giornalisti amici e complici atti giudiziari coperti da segreto al solo scopo di infangare politici non graditi”.

Il Comitato di Redazione de Il Giornale  ha subito stigmatizzato “la pervicace e violenta aggressione della magistratura dispiegatasi, questa volta, attraverso le perquisizioni” nell’abitazione della collega Greco e nella redazione romana del quotidiano. “E’ un’intimidazione sia verso le libertà individuali indisponibili della nostra collega sia verso la libertà di stampa, anch’essa diritto costituzionalmente garantito – scrive il Comitato di redazione – si tratta di un attacco all’indipendenza di questo quotidiano che il Cdc non intende più tollerare”. Nell’esprimere la solidarietà e la vicinanza alla Greco, che non è indagata, e alla sua famiglia, “violate fin nella loro più profonda intimità solo per aver esercitato il diritto-dovere di informare i cittadini”, il Cdr denuncia “l’ennesima ingerenza nell’esercizio della nostra professione”. “E’ un atto intollerabile che deve far riflettere tutti, il mondo dell’informazione in particolare, sulla divisione dei ruoli e delle responsabilità“, conclude la nota del Cdr che condanna “con fermezza lo sfregio arbitrario delle garanzie costituzionali e non verrà meno alla tutela della dignità e della professionalità di tutto il corpo redazionale”.

“Non se ne può più″. Il segretario generale della Fnsi Franco Siddi denuncia duramente le perquisizioni di questa mattina: “Nello scontro politica-magistratura non possono essere chiamati a pagare i giornalisti se danno notizie, ancorch‚ su di esse e sulla loro valenza in termini di interesse pubblico, ciascuno possa avere opinioni diverse“. Siddi ha parlato di un’azione “assolutamente incomprensibile” e “pesantemente invasiva”.

Il consigliere laico del Csm, Matteo Brigandì (in quota Lega) è indagato dalla procura di Roma. Il fascicolo, affidato al pm Sereni e al procuratore aggiunto Pierfilippo Laviani, ha preso le mosse da una segnalazione ufficiale arrivata a piazzale Clodio trasmessa dallo stesso Consiglio superiore della magistratura. L’ipotesi di reato rubricata nel fascicolo è quella di abuso d’ufficio. Brigandì, secondo l’accusa, avrebbe passato documenti interni a Palazzo dei Marescialli alla giornalista che ha poi redatto l’articolo sul procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini. “Non ne so nulla, e quindi non ho niente da dire” così Brigandì risponde a chi gli chiede un commento. “Ovviamente non sono stato io – aveva detto la scorsa settimana dopo notizie di stampa che lo accusavano di aver chiesto lui il fascicolo al Csm – e se qualcuno sostiene questa cosa ne risponderà nelle sedi legali possibili. Ho chiesto al Csm una serie di documenti, compreso quel fascicolo, che ho letto per un quarto d’ora e poi ho restituito” aveva precisato Brigandì, che aveva anche annunciato di aver scritto una lettera al vice presidente Michele Vietti per chiedergli di “far luce” sulla vicenda.

………….Ecco la doppia morale e la doppia legge applicata dai magistrati italiani a tutela di se stessi. Quale grave colpa avrebbe commesso la giornalista e il giornale per essere oggetto di perquisizioni quasi fossero mafiosi e terroristi. Solo quella di aver rispolverato una vecchia stroia che riguardava  la PM milanese che si occupa del caso Ruby nell’ambito del quale sono stati intercettate e spiate decine di persone ree di frequenìtare la casa del premier.A  costoro, colpevoli o meno,  la  privacy è stata violentata e sputtanata a più non posso su tuti i giornali che hanno ricevuto copia delle intercettazioni prima ancora che fossero a disposizione della Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera. Copione già visto si dirà, certo!, copione già visto,  forma squallida di malcostume che al di là del processo penale, se e quando si farà, per cui persone che secondo la Costituzione sono innocenti in  virtù del principio della presunzione di innocenza che è alla base della nostra ormai vecchia e superata civiltà del diritto, vengono letteralemente stuprate nella loro dignità e nella dignità delle loro famiglie che mai nessuno ripagherà quando dovesse essere acceertata, come spesso è accaduto nel passato, la innocenza o la estraneità. Ricordiamo un caso, La figlia di Alessandro Necci, ex capo delle Ferrovie italiane, finito nel tritacarne della giustizia, fu letteralemtne massacrata dai mass media che pubblicarono le  intercettazioni delle sue telefonate con Pacini Battaglia, altro ormai dimenticato protagonista di tangetepoli. Che c’entrava la figlia di Necci? Nulla, salvo che aveva una storia, del tutto normale anche perchè libera e maggiorenne, con Pacini. Chi ha mai pagato per quelle intercettazioni? Chi è stato chiamato alla sbarra per quelle inutili diffamazioni? Chi ha mai chiesto scusa a quella persona? Nessuno.  Non solo. Chissà perchè nel nostro paese nessuno sa chi abbia diffuso le intercettazioni ch essendo corpo di reato e sottoposte a segreto istruttorio sono affidate, formalmente, al magistrato inquirente. Eppure quando le intercettazioni escono, centinaia, talvolta migliaia di pagine, pare che la cosa avvenga per opera dello Spirito Santo e non di persone, fisiche, che, almeno in teoria, dovrebbero essere facilmente individuabili. Invece accade che la cosa non riguardi nessuno. Non  nel caso invece della giornalista de Il Giornale che ha osato, ecco, osato, pubblicare il resoconto di una azione disciplianre cui fu sottoposta la PM di Milano che si occupa di Ruby. Apriti cielo! Il CSM,  ha immediatamente segnalato la cosa alla Procura di Roma che essendo , come è noto,   priva di attività da svolgere, ha mandato i carabinieri in casa della giornalista de Il Giornale a perquisirle anche la biancheria intima e visto che c’era anche il pc del figlio, e poi li ha mandati a perquisire la sede romana del Giornale per trovare le “prove”. Di che? Della violata privacy del PM di Milano che non è uguale agli altri cittadini. E’ un gradino più su e mentre può rovistare fra le lenzuola di chi le pare, a nessuno è consentito di rovistare fra le sue. Questo è il regime. Il regime dei giudici. Poveri noi. g.

D’ALEMA PROPONE UNA AMMUCCHIATA CONTRO BERLUSCONI. CASINI CI PENSA, I FINIANI: PERCHE’ NO?

Pubblicato il 30 gennaio, 2011 in Il territorio, Politica | No Comments »

di Andrea Indini

Il post-fascista Fini e il post-comunista D’Alema insieme contro Berlusconi: la rivincita degli sconfitti

La parola d’ordine per l’opposizione è far saltare Berlusconi. Con ogni mezzo. Vanno benne anche le elezioni anticipate. E, soprattutto, vale anche un’alleanza su larga scala che prenda dentro i centristi anti Cav. La proposta è stata affidata dal piddì Massimo D’Alema alle colonne di Repubblica: “Il Paese attraversa una crisi democratica gravissima. Se Berlusconi non si dimette, l’unico modo di evitare l’impasse e il caos politico-istituzionale è andare alle elezioni anticipate”. Una proposta che spacca in due i finiani e che sembra trovare terreno più fertile nell’Udc. Proprio Casini crede che vada raccolta con una “valutazione seria”.

Non importa se il nuovo cln sarà un’accozzaglia più simile all’armata Brancaleone che a una seria compagni di governo. Di questo D’Alema non si cura. Così, per mettere insieme un governo di responsabilità nazionale, l’esponente del Pd lancia un appello alle forze politiche. Il motto: “Uniamoci, tutti insieme, per superare il berlusconismo”. La ricetta di D’Alema per superare la “crisi” del Paese sta proprio nell’amalgamare tutte le opposizioni mettendo da “parte politicismi e interessi personali”. per il momento, D’Alema non indica un candidato premier (“non spetta a me questa indicazione”), ma indica i tre obiettivi del “governo costituente”. Il primo: “sciogliere il nodo della forma politico-istituzionale del bipolarismo italiano”. Il secondo: un grande patto sociale per la crescita” come fu “con l’euro”. Il terzo: il funzionamento dello Stato attraverso “una vera riforma della pubblica amministrazione”.

In piena coerenza con il retroterra di chiara matrice comunista, la proposta di d’Alema affonda le proprie radici nel Cln attuato contro il fascismo. Oggi, come sostiene Micromega, il corrispettivo del fascismo è il berlusconismo. Allora anche in questo caso D’Alema ha la formula giusta: propone un Cln dai post-fascisti di Fini agli ex comunisti, dagli ex democristiani del Pd ai cattolici di Casini, fino alla sinistra radicale di Vendola. “Una bella compagnia – ironizza Fabrizio Cicchitto, capogruppo del Pdl alla Camera – molto compatta ed omogenea”. In realtà, per fare le elezioni occorre che il governo in carica non abbia più la maggioranza. Secondo la Costituzione, infatti, il parlamento non può essere sciolto nel caso che ci sia una maggioranza che sostiene il governo. “Per andare alle elezioni non basta una intervista di D’Alema”, sottolinea lo stesso Cicchitto.

Sembra non avere alcun futuro la chiamata alle armi di D’Alema. Secondo Cicchitto, “se si mette insieme una armata Brancaleone di questo tipo, siamo proprio curiosi di vedere cosa farà l’elettorato di centro e di destra che sta nel terzo polo”. D’altra parte anche il leader Idv Antonio Di Pietro non convide la ricetta dell’esponente democratico. Per l’ex pm, infatti, “l’alleanza costituente” è “un accoppiamento contro natura”, una coalizione “senza un programma” perché troppo diversa e quindi “non convincente”. Per andare al voto anticipato, osserva Di Pietro, “non vi è dubbio che bisogna passare prima attraverso la forca caudina di 316 parlamentari da trovare in aula. Questo può avvenire solo se una parte della maggioranza e tutta l’opposizone unita danno vita a un fronte di liberazione parlamantare”.

La proposta del numero uno del Copasir divide invece il neonato terzo polo. Se infatti i finiani si dimostrano meno compatti nel rispondere alla chiamata del presidente del Copasir, l’Udc sembra più possibilista. Il leader centrista Pier Ferdinando Casini è infatti fermamente convinto che l’idea non possa essere “liquidata con una battuta” ma che debba essere valutata con “una seria riflessione”. “Se dovessimo andare ad elezioni sulla battaglia privata di Berlusconi verso i giudici con la politica degli insulti che chi governa il paese dovrebbe mettere alla gogna – sottolineato Casini – la riflessione di D’Alema dovrebbe essere presa in considerazione. Ma in questo caso bisognerebbe fare un discorso chiaro e franco: vorrebbe dire che siamo in una situazione di emergenza”. E l’augurio dell’ex presidente della Camera è che questa situazione di emergenza non ci sia.

Adolfo Urso boccia la “logica del tutti contro Berlusconi” e l’idea di trasformare le elezioni “in un plebiscito” attorno al Cavaliere. Per l’esponente del Fli, piuttosto, va costruita “un’alternativa credibile soprattutto sul piano di quelle riforme liberali”. In realtà proprio dal direttore del think tank FareFuturo, Filippo Rossi, arrivara la proposta di fare una “grande alleanza per battere Berlusconi”. Sul blog del Fatto, infatti, Rossi sembra ricalcare D’Alema nel cercare una soluzione per “uscire dalla melma berlusconiana di questi ultimi mesi, di questi anni”. “Solo il voto potrà azzittire le trombe della propaganda di Arcore che, nonostante l’evidenza, continuano a raccontare un consenso plebiscitario nei confronti di Re Silvio – scrive l’ideatore di FareFuturo – tutte le opposizioni dovrebbero scendere nelle piazze per chiedere di andare a votare. Tutte, e tutte insieme”.

Più in linea con FareFuturo il capogruppo Fli alla Camera, Italo Bocchino, che torna a chiedere a gran voce le elezioni per “uscire dalla palude” in cui il premier “sta costringendo l’Italia”. Sebbene preferisca un “passo indietro del presidente del Consiglio”, l’esponente di Futuro e Libertà non chiude alla proposta di D’Alema. Anzi. “Se al voto Berlusconi darà ancora una volta vita a un referendum sulla sua persona – ipotizza Bocchino – potrebbero emergere quelle condizioni d’emergenza democratica di cui parla D’Alema e sulle quali deve essere chiamato a esprimersi quel 60% degli italiani che oggi vuole mandare in pensione Berlusconi”. Insomma, dalla sinistra più radicale ai centristi, il diktat resta uno solo: fare cadere il governo. Non si parla di programmi né di leader alternativi. Il solo interesse dell’opposizione è – appunto – quella di annientare il Cavaliere e ribaltare il risultato elettorale.

FINI VERGOGNATI ( E ORA VATTENE), di Alessandro Sallusti

Pubblicato il 29 gennaio, 2011 in Il territorio | No Comments »

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Spazzatura, avevano sentenziato Fini e i suoi fan la scorsa estate quando que­sto giornale iniziò a occupar­si della casa di Montecarlo che il presidente della Came­ra aveva svenduto al cogna­to, sottraendola al patrimo­nio di An. Oggi due governi sovrani, quello di Santa Lu­cia e il nostro, certificano uffi­cialmente che avevamo ra­gione noi. Non ci aspettia­mo le scuse dei maestrini di giornalismo e siamo certi che la casta alla quale appar­teniamo non premierà la bravura e il rigore di Gian­marco Chiocci e Massimo Malpica, i due colleghi che insieme a tanti altri hanno condotto un’inchiesta esem­plare senza l’aiuto di magi­st­rati che ti passano carte sot­tobanco, come avviene con i pennivendoli tromboni del­­l’antiberlusconismo. A noi le procure di solito ci indaga­no, perquisiscono, intercet­tano, insultano. È successo anche ieri per il caso Boccas­sini. «Fango», hanno defini­to il procuratore capo di Mi­lano, Bruti Liberati,e l’Asso­ciazione Magistrati, le carte che abbiamo pubblicato e che raccontano come Ilda Boccassini finì sotto inchie­sta del Csm per i suoi amo­re­ggiamenti in luogo pubbli­co con giornalisti di sinistra. Ma come fango? Sono atti giudiziari, hanno lo stesso valore e dignità di quelli che riguardano l’inchiesta Ruby-Berlusconi. Le obiezioni sono ridico­le. La prima: è roba vecchia, Anni Ottanta. Certo, ma i giornali pubblicano pagina­te su inchi­este che riguarda­no gli Anni Ottanta di Berlu­sconi. La seconda: la Boccas­sini fu assolta. A parte che venne trasferita d’ufficio, di Berlusconi invece si può scri­vere anche nel caso di asso­luzione, addirittura in man­canza di un semplice rinvio a giudizio, come accade in questi giorni. La terza: è una interferenza nella vita priva­ta. Già, soltanto la vita ses­suale dei politici può essere messa in piazza, quella dei pm moralisti deve rimanere segreta, come la stessa Boc­cassini invocò all’epoca del fattaccio. Bruti Liberati e la Boccassi­ni non ci spaventano. Noi scriveremo di loro quando e come vorremo, le loro mi­nacce di arresto (se non fisi­co, della nostra libertà di espressione) sono la prova del delirio di onnipotenza della magistratura. Parlano di delegittimazione ma non hanno smentito una sola ri­ga di ciò che abbiamo scrit­to, e questa è l’unica cosa che conta. La verità è un’altra. Chi scrive cose fastidiose per Gianfranco Fini e i magistra­ti è bollato come diffamato­re, mentre sono i fatti che li diffamano e non noi. Chie­dere oggi le dimissioni di Fi­ni è una campagna di fango o di verità, avendo lui stesso giurato che avrebbe lasciato la carica nel caso fosse stato accertato che la casa di Mon­tecarlo era del cognato? Fini si vergogni di aver mentito agli italiani, Bruti Liberati di aver intimidito un giornale. Il giornalismo che piace a lo­ro è quello che scrive di un’altra minorenne che avrebbe incontrato Berlu­sconi ad Arcore anche se, nelle due serate indicate, il premier era la prima in ospe­dale e la seconda in Arabia Saudita. La verità che piace a loro non è quella certifica­ta da due Stati sul caso Mon­tecarlo, né quella che rac­conta Panorama oggi in edi­cola sui soldi pubblici fatti avere a familiari e amici di Bocchino, Briguglio e Grana­ta. L’unica campagna di fan­go in corso ha due mandanti precisi: Gianfranco Fini e procure politicizzate. Il Giornale, 28 gennaio 2011

TRITT’ STREETS, “PRIMA E DOPO” AL PICCOLO TEATRO SAN GIUSEPPE DI TORITTO

Pubblicato il 27 gennaio, 2011 in Cultura, Il territorio, Spettacolo | No Comments »

Domenica 30 Gennaio, alle 20:30, presso il Piccolo Teatro San Giuseppe, via E.  Medi, in occasione del 35° anniversario,

la band Tritt’ Streets

presenta lo spettacolo

“Prima e Dopo”.

Ingresso gratuito.

Domenica 30 Gennaio,  Ore 20:30
Piccolo Teatro San Giuseppe, via E. Medi,
Toritto (BA)
Ingresso gratuito

BERLUSCONI:OPERAZIONE CRAXI. l’editoriale di Mario Sechi

Pubblicato il 24 gennaio, 2011 in Il territorio | No Comments »

Bettino Craxi Qualche anno fa Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset, pronunciò una frase che a qualcuno sembrò iperbolica: «Stanno preparando la nostra piazzale Loreto». Quella del Fidel era una voce dal sen fuggita, un timore che veniva dal profondo, un dettato del sesto senso di un uomo colto, forgiato dalla praticaccia della vita.

Molto tempo dopo, siamo al redde rationem, alla battaglia finale tra Silvio Berlusconi e la magistratura e la «piazzale Loreto psichedelica» di cui parlava Confalonieri si sta materializzando in un processo mediatico-giudiziario che prevede un solo finale: l’impiccagione del Cavaliere.

Ci sono dei segnali che vanno colti per comprendere il clima che si sta creando e il tragitto che prenderà questa storia. Uno l’ho ricordato ieri: un gruppo di sostenitori del «popolo viola» che si riunisce di fronte al carcere di Rebibbia, a Roma, per festeggiare con i cannoli siciliani l’ingresso in carcere dell’ex governatore della Sicilia Totò Cuffaro. Un altro episodio significativo è la gazzarra con lancio di monetine scatenata a Lissone da alcuni manifestanti che protestavano contro l’intitolazione di una piazza a Bettino Craxi. Sono due schegge incandescenti del magma anti-berlusconiano, un intruglio di qualunquismo e giustizialismo senza cultura.

Le monetine. Craxi. Proprio nei giorni in cui si commemora la morte dell’ex segretario del Psi, dobbiamo tornare a quel 30 aprile 1993. Bettino esce dall’Hotel Raphael, vicino a Piazza Navona. I manifestanti lo sommergono di fischi e lanci di lirette sonanti. È la metafora della fine della Prima Repubblica che, paradossalmente, apre le porte all’era Berlusconi.

«L’operazione Craxi» è in corso, i pezzi sulla scacchiera sono in rapido movimento. A Repubblica, unico soggetto davvero intelligente e con una reale forza nel mondo della sinistra, l’hanno capito e cercano – giustamente, dal loro punto di vista – di liquidare il grigio e inetto Pierluigi Bersani per tornare, via benedizione di Eugenio Scalfari, a una leadership spendibile, quella di Walter Veltroni. Riusciranno nell’impresa di far fare a Silvio la fine che fu di Bettino? Certo è il fatto che la sfilata di maschere che oggi chiede al Cavaliere di andarsene con ignominia è la stessa che chiedeva al «Cinghialone» di dimettersi, di andare dai magistrati e finire i suoi giorni ai ceppi.

Il flash back è una carrellata impressionante, molto istruttiva, su ciò che accadde ieri e quel che sarà il nostro domani.

 

Gianfranco Fini

Il presidente della Camera ha deliziato la sua destra immaginaria con questa frase: «Il buon nome dell’Italia da qualche tempo a questa parte viene sottoposto a dure critiche per comportamenti di chi l’Italia la rappresenta». Sbaglia Fabrizio Cicchitto a commentare così la sortita del capo di Fli: «Credevamo che fosse una dichiarazione di Di Pietro, invece è una dichiarazione di Ganfranco Fini». In realtà non vi è nessuna stranezza, Fini il 22 gennaio del 2011 è tornato a vestire i panni di quel che era il 30 aprile del 1993: un forcaiolo. Mentre Craxi usciva dal Raphael, Fini allora erede di Almirante e segretario del Movimento Sociale Italiano, in quelle ore teneva una conferenza stampa per dire che non si poteva tenere più in vita quel Parlamento. Stava esattamente dove si ritrova oggi: con Di Pietro. Il retroterra culturale – parola grossa – di Fini è questo, non a caso oggi si ritrova in squadra un Granata qualunque e non prova alcun imbarazzo. Come ricorda Edoardo Crisafulli nello splendido volume “Le ceneri di Craxi” (Rubettino Editore) «c’è una perfetta congenialità tra giustizialismo e post-fascismo».

Antonio Di Pietro

Tonino è il motore di tutto. Di ieri, oggi e anche di domani. Non è al volante, ma la cinghia di trasmissione, l’iniezione e i pistoni sono roba made in Montenero di Bisaccia. Fu la sua azione quando era sostituto procuratore a Milano ad avviare la stagione di Mani Pulite. Fu lui a dare più credibilità politica a un pool di Mani Pulite (non scioperò mentre gli altri magistrati stavano a casa) con la trazione integrale a sinistra. Fu lui a liquidare Craxi. Fu lui a dimettersi dalla magistratura per continuare la guerra giudiziaria con altri mezzi, cioè quelli della politica.

Di Pietro è un personaggio complesso, non lo si può dipingere in modo manicheo, è piuttosto lo snodo di molti eventi, un uomo per niente banale, può litigare con la sintassi ma è capace di mettere insieme pezzi di un puzzle molto complesso. Ha demolito il sistema e su quelle ceneri ha costruito non un semplice soggetto politico, ma un mondo parallelo che sta tritando quel che resta dei partiti.

Walter Veltroni

Ai tempi di Mani Pulite era il direttore dell’Unità. Muoveva già i fili e studiava da affabulatore e leader del centrosinistra. Il suo giornale martellava Bettino e lavorava per spandere in lungo e in largo il verbo delle procure della Repubblica. Su Veltroni ha ragione Scalfari: «Possiede un “in più″ che nessuno degli altri ha: è capace di evocare un sogno». In questo Walter è il più berlusconiano di tutti, ma anche (ops!) l’unico capace di affermare che «si poteva stare nel Pci senza essere comunisti. Era possibile, è stato così». Uno che può stare in un partito che crede nel socialismo reale, vota per quello ma pensa ad altro. Dirigeva il giornale che voleva la fine di Bettino ma poi affermò: «Craxi interpretò meglio di ogni altro uomo politico come la società italiana stava cambiando». Commovente. Farà il narratore pubblico di Utopia ma sarà costretto a lanciare un altro nome per Palazzo Chigi.

Eugenio Scalfari

Un fuoriclasse. Ieri su Repubblica ha dato il la al prossimo concertone della sinistra. Ha affondato Bersani e baciato in fronte Veltroni. Solitamene queste operazioni con il suo placet finiscono male, ma non ci sono dubbi che Eugenio resti il padre nobile delle manovre più affascinanti. È sopravvissuto a tutto, ha visto morire Bettino, naufragare Andreotti, finire nel dimenticatoio De Mita, evaporare uno ad uno tutti i suoi miti (fascisti, radicali, liberali, repubblicani, socialisti, democristiani, democratici). Lui resta, sempre. La caduta di Berlusconi sarà il compimento dell’opera omnia.

Massimo D’Alema

Era capogruppo del Pds ai tempi delle monetine contro Craxi. Partecipò alla demolizione del leader del Psi poi, magnanimo, qualche anno dopo disse che visto che era in fin di vita, che lui «non aveva nulla in contrario a un ricovero in Italia». Come tante delle cose dalemiane, le sue parole furono un rintocco a morto. Vuole il presidente del Consiglio al Copasir per parlare del lettone di Putin. Anche nel caso di Berlusconi, dirà qualcosa di riformista quando non servirà più a nessuno. Nemmeno a lui.

Giorgio Napolitano

Era presidente della Camera ai tempi di Mani Pulite. Sotto il suo sguardo fu demolito l’articolo 68 della Costituzione, quello che i padri della Carta fondamentale avevano previsto per evitare il dispotismo della magistratura nei confronti della politica. Terza carica dello Stato allora, oggi è la prima. Dalla presidenza della Repubblica fa quello che faceva ieri: osserva quel che accade.

Ce la farà Berlusconi a superare tutto questo? Quel che oggi è chiaro è lo scenario: il 14 dicembre scorso Fini scatenò la fanteria per far cadere il Cavaliere. Ha dovuto battere in ritirata. Fallito l’assalto dei fanti, è partito quello della cavalleria corazzata. Bisogna solo vedere se la potenza di fuoco contro il premier è tutta qui o nella Santa Barbara c’è davvero un’arma mediatica capace di portare al successo «l’operazione Craxi». Mario sechi, Il Tempo, 24 gennaio 2011.

Che una “operazione Craxi” sia in corso non v’è dubbio. Come è altrettanto chiaro che a portarla avanti siano le stesse identiche persone di 17 anni fa, con le stresse modalità e le stesse armi: da una parte la magistratura politicante e dall’altra la stampa. Ma dubitiamo che il risultato possa essere uguale. Craxi, che come Leone e lo stesso Cossiga, aggredito in vita, abbia ricevuto in morte riabilitaizoni se non giudiziarie sicuramente politiche, non era in grado di  contrapporre alcunchè ai nemici, di destra e di sinistra, quelli di destra  (leggi MSI) che avevano beneficiato del primo sdoganamento proprio  grazie a lui, e quelli di sinistra che non gli perdonavano di averli abilitati a livello europea tra i partiti democratici. E per di più, molti dello stesso partito di Craxi, si diedero alla fuga, gambe in spalle, per salvare se stessi e non essere travolti e qualcuno pure ci riuscì, come Amato, ancor oggi “sempre presente” e molti altri, proprio fra gli amici  e collaboratori più vicini a Craxi.  Craxi fu, in un certo senso, causa del suo male. Diverso è lo scenario  di oggi. Se è pur vero che alcuni dei beneficiati di Bberlusconi sono in prima fila ad attendere che egli spri l’ultimo respiro politico, è anche vero che tutto il PDL fa quadrato intorno a Berluscni, il quale, a sua volta, nè fugge nè si arrende. Sarà una dura battaglia ma alla fine  non vi sarà una seconda edizione del caso  Craxi. g.



GLI SNOB CON IL CUORE A SINISTRA E I QUATTRINI IN SVIZZERA

Pubblicato il 13 gennaio, 2011 in Il territorio | No Comments »


Tu quoque, Stefania? Guardatela bene: è davvero la Sandrelli. In cima alla lista di coloro che portavano i soldi all’estero c’è proprio lei, la grande attrice immortalata da Bertolucci e da Virzì, da Monicelli e Trintignant, il meglio dei registi intellettuali dell’ultimo secolo. L’ultimo a immortalarla, per la verità, è stato Hervé Falciani, che però non è un regista e nemmeno un intellettuale. È solo un impiegato di banca, che non ha usato la cinepresa ma un computer, che non ha detto «ciak» ma «tiè», e però ha messo su un bel cinema lo stesso, a giudicare dagli effetti speciali. Come minimo, merita l’oscar alla fotografia.

In effetti è una bella fotografia d’insieme, quella che salta fuori da quell’elenco. Stefania la rossa passa direttamente da Ozpetek ai caveau della Confederazione elvetica, dal Novecento di Bernardo Bertolucci al 2011 della Procura di Roma, manco fosse la moglie di Briatore, per dire. In effetti: nella lista Falciani c’è pure lei, la moglie di Briatore, al secolo Elisabetta Gregoraci. Compare accanto a altri nomi illustri come lo stilista Valentino, il gioielliere Bulgari, il presidente della Confcommercio di Roma Pambianchi o il commercialista Carlo Mazzieri. Ma vuoi mettere la differenza? Da un commercialista, quasi, uno se lo aspetta, da un gioielliere magari pure, figurarsi da una come la Gregoraci che sposa un miliardario un po’ burino, che si fa beccare con lo yacht fuori legge e chiama il figlio Nathan Falco. È quasi naturale ritrovarla nella lista dei cattivoni tributari.

Stefania Sandrelli, invece. Con tutto quel po’ po’ di Novecento nel suo repertorio, con il Leone d’oro di Venezia alla carriera, una spruzzata di Benigni e naturalmente Muccino nel palmarès, ebbene, da lei ci si aspetta al massimo l’obolo alla cassa del mutuo soccorso operaio, il contributo segreto alla compagnia dei portuali, una donazione alla mensa dei poveri di San Francesco. Mica i versamenti alle banche svizzere. Ma come? Proprio lei, così amata e celebrata dalla sinistra intellettualmente chic, lei che ispirò Sapore di sale a Gino Paoli e recitò al fianco del compagno Volonté, ebbene lei si comporta come tutti gli altri? Ma sicuro. Anzi, in realtà, si comporta come i peggiori degli altri, come quelli che la sinistra da sempre descrive come beceri capitalisti, evasori fiscali, spalloni miliardari capaci di far sparire oltre confine i denari destinati a costruire strade e ospedali di casa nostra. Possibile? Dev’essere proprio un «male oscuro», direbbe il compagno Monicelli.

Un male oscuro che, per altro, colpisce non da oggi l’intero mondo degli artisti italiani, più o meno impegnati, che hanno sempre il cuore rivolto alla sinistra (conviene, altrimenti la critica diventa impietosa) e il portafoglio rivolto alla destra (conviene, altrimenti il conto in banca diventa penoso). Da Adriano Celentano, l’uomo che fa l’elogio delle case di ringhiera ma poi vive in una villa extraluxe grazie anche agli stratosferici cachet della Rai, fino ai tre della Gialappa’s, che non perdono occasione per far professione di sinistrismo, salvo arricchirsi con i contratti generosi di Mediaset e gli spot delle banche, abbiamo visto che ormai da molto tempo la coerenza, artisticamente parlando, è diventata un optional davvero poco usato. Per non dire di quei grandi intellettuali alla Guido Rossi che smettono di discettare di saggi principi di etica solo quando passano all’incasso di parcelle professionali che da sole sfamerebbero mezzo Bangladesh.

Ed è altrettanto vero che da Sofia Loren a Renato Zero, da Valentino Rossi a Pavarotti è sempre stata lunga la lista dei vip italiani che si sono fatti beccare dal fisco. Eppure tutto ciò non toglie che il nome della Sandrelli, in cima a quella lista, colpisce. Tanto più che ci è finita pure con la figlia, quasi come a passare il testimone, come sul grande schermo, anche nel Nuovo Cinema Paradiso Fiscale. Colpisce che la Sandrelli si sia affidata al tanto famigerato scudo fiscale, quello che finisce nel mirino di ogni militante di sinistra che urla incazzato nel salotto di Ballarò.

E colpisce che protagonista di tanta incoerenza sia proprio uno dei simboli più celebrati dell’Italia modello sinistra moralmente superiore, quella, per l’appunto, che merita le celebrazioni chic sul Lido di Venezia, i commenti entusiasti dei cineforum, le rassegne ammirate di chi per anni ci ha fatto credere, grazie anche alla sua bellezza, che lo faceva «Per amore, solo per amore». Evidentemente, lo faceva anche per altro, cerchiamo almeno di essere franchi. E, per una volta, che non siano franchi svizzeri.

QUANDO LO BOLLAVANO COSI’: FASCISTA

Pubblicato il 10 gennaio, 2011 in Economia, Il territorio, Politica | No Comments »

Sui muri della FIAT di Torino, alla vigilia del referendum sull’accordo Fiat-Sindacati non sottoscritto dalla Fiom-CGIL, sono apparse stelle a cinque punte, quelle della Brigate Rosse, contro Marchionne. E’ la riprova che Marchionne viene individuato come un secondo pericolo pubblico dopo Berlusconi. Ecco l’opinione del direttiore de Il Tempo, Mario Sechi.

La prima pagina de il Manifesto Nell’assordante silenzio dei benpensanti e dell’intellighentsia ho più volte scritto che le frasi contro Marchionne sono benzina sul fuoco. Mi era chiarissimo da molto tempo che il numero uno della Fiat era diventato il nemico pubblico numero due, appena un gradino sotto Berlusconi, il bersaglio di chi ancora sogna la rivoluzione. Oggi i sepolcri imbiancati si svegliano perché a Torino su un manifesto è comparsa una stella a cinque punte a corollario di una scritta eloquente: «Marchionne fottiti!». Verrebbe da scrivere a questi automi dell’indignazione a comando, «benvenuti a bordo», ma in realtà la loro voce suona in falsetto, è un coro di vampiri che oggi ti dà la solidarietà e un minuto dopo te la toglie perché non fa parte del disegno opportunista sul quale basa la propria esistenza di sanguisuga di regime. Quando un manager – le cui scelte si possono civilmente discutere – viene indicato come l’uomo da abbattere, allora non si può poi vedere la frittata sul pavimento e dire «ah, perbacco, no, così non va». Quando si arriva a dipingere un capitano d’impresa come un «fascista», quando stelle nascenti della sinistra giungono a conclusioni che invitano ad ambigui «gesti radicali», non si può strillare, agitare le mani e far finta di non essere partecipi della roulette russa. Marchionne va difeso da tutto questo, l’industria italiana va salvata dai nuovi cattivi maestri e da chi pensa – anche in buonafede ma con pericolosa ingenuità – che le parole siano innocue.

Ho criticato la prima pagina de Il Manifesto di qualche giorno fa, il titolo era un calembour e nelle intenzioni della redazione del giornale comunista solo quello voleva essere, ma in un momento in cui le bombe vengono spedite sul serio e le minacce sono una cosa reale, piazzare il titolo «Pacco bomba» su una foto di Marchionne non è una trovata intelligente ma infelice. Le polemiche giornalistiche sono niente rispetto alla insipienza della politica, alla sua incapacità di prevedere quel che accade, alla sua ignoranza. È un discorso che riguarda purtroppo la sinistra, la qualità dell’opposizione, ma non risparmia settori del centrodestra. Ci sono amplissime fasce della politica e dell’establishmnent che non hanno compreso il legame nuovo tra globalizzazione e lavoro, tra fabbrica e innovazione, qualità e produzione. La classe dirigente deve studiare, leggere, comprendere che affrontare i processi di cambiamento del capitalismo con le categorie del Novecento è pura follia. Oggi questo tema riguarda la Fiat – azienda che ha spostato il suo baricentro negli Stati Uniti e si muove nel mercato globale – ma domani toccherà tutti i principali gruppi industriali del Paese. Se l’Italia vuole competere a livello internazionale – e sopravvivere alla sfida lanciata da nuove realtà produttive, da Paesi che non sono più emergenti ma titani ampiamente emersi sul mercato – deve ripensare tutto il suo modo di porsi al cospetto di questi temi. Invece no.

La reazione pavloviana è quella della conservazione da una parte, dell’opposizione estremista dall’altra, dell’adulazione della rivolta, degli appelli in puro stile anni Settanta, del birignao chic applicato alla catena di montaggio, una realtà dove Marx non vale più e Adam Smith s’è trasferito a Pechino. In tutto questo chi ha moltissimo da perdere è la Cgil guidata da Susanna Camusso. Il sindacato del quadrato rosso è in bilico. Finché gli accordi del 1993 tenevano, la sua supremazia nella rappresentanza del lavoro aveva ampia copertura, ma prima o poi capita che «contra facta non valet argumentum», di fronte alle iperveloci dinamiche del mercato della produzione e del lavoro le posizioni, l’ideologia, le visioni del mondo della Cgil sono maledettamente invecchiate e in moltissimi casi prive di senso. La Fiom, ala durissima del sindacato dei metalmeccanici, rischia di essere la zavorra che porterà a fondo la Cgil. Scrivo queste cose essendo convinto della necessità di avere un sindacato – di sinistra – autorevole, forte, un interlocutore intelligente.

Perché il turbocapitalismo non guarda in faccia nessuno, ha regole spietate e proprio per tali ragioni ha bisogno di un bilanciamento, di trovare soluzioni equilibrate. Tutto questo finora è stato assente e in luogo della libera e franca discussione si è avuto un dibattito pubblico lacerato, cattivo, un linguaggio che ha dipinto Marchionne come un dittatore che vuole ridurre gli operai in schiavitù e via così in un crescendo di idiozie e sparate frutto di un pensiero debole pericolosissimo. Questo Paese ha una insanguinata tradizione di violenza politica che non è mai sparita. La memoria cattiva tende a cancellare il micidiale fatto che in Italia negli anni Ottanta si moriva per terrorismo. Si è rimosso in gran fretta l’assassinio di Marco Biagi sotto casa sua a Bologna nel vicinissimo 2002, si sono archiviate come banali episodi le indagini delle nuove Br su altri esponenti delle istituzioni. Ora la stella a cinque punte è tornata e brilla come una sinistra aureola sulla testa di Marchionne. Quasi tutti faranno spallucce o manderanno alle agenzie la vibrante protesta, ottima per lavarsi la cattiva coscienza. A me vengono i brividi. Mario Sechi, Il Tempo, 10 gennaio 2011.

COSI’ UCCIDEVAMO CON BATTISTI: INTERVISTA DI PANORAMA AL COMPAGNO DI TERRORISMO DI BATTISTI PIETRO MUTTI, ORA PENTITO

Pubblicato il 9 gennaio, 2011 in Giustizia, Il territorio, Politica | No Comments »

Cesare Battisti in carcere in Brasile tra un gruppo di deputati brasiliani, ovviamente di sinistra

Se il caso di Cesare Battisti è diventato un’affaire internazionale la colpa è anche sua, che esattamente trent’anni fa ha guidato il commando che ha fatto evadere il terrorista oggi conteso tra Italia e Brasile dal carcere di Frosinone, dove era rinchiuso con una condanna a 12 anni per banda armata, favorendo la sua latitanza. Il «colpevole» è Pietro Mutti, classe 1954, ex compagno di scorribante di Battisti nei Pac, i Proletari armati per il comunismo. Nel 1981 Mutti era passato da poco in Prima linea, viveva in un covo di Roma a pochi passi da San Giovanni. La grande fuga iniziò in una domenica di ottobre e insieme con Battisti, ventisettenne originario di Sermoneta (Latina), scappò anche un giovane camorrista.

«Non ci stupimmo, Cesare era stato ed era rimasto un piccolo malavitoso più che un estremista politico». Il gruppo attraversò a piedi le montagne e poi, in treno, raggiunse la Capitale. Da qui Battisti si diresse a Bologna, dove si rifugiò a casa della sua compagna, un’impiegata che era stata legata sentimentalmente a uno dei fondatori dei Pac. La donna condivideva l’appartamento con un’altra giovane. I loro nomi non sono mai emersi in nessun processo. E anche Mutti preferisce non farli.

Da Bologna Battisti passò in Francia, poi in Messico, quindi di nuovo in Francia e, infine, nel 2004 in Brasile, grazie, si dice, ai servizi segreti francesi. «Sono sicuro che, se anche il Brasile lo avesse estradato in Italia, prima del rimpatrio sarebbe riuscito a sfuggire di nuovo e a trasferirsi altrove» dice Mutti. E aggiunge: «In Italia comunque non tornerà mai. Bisogna mettersi il cuore in pace». Ma chi c’è dietro all’impunità di Battisti? «Credo la Francia e alcuni suoi intellettuali, forse Carla Bruni, la moglie di Nikolas Sarkozy» continua l’ex terrorista «però io non mi occupo di politica internazionale».

Oggi Mutti vive a Milano, la città dove è nato e cresciuto. Negli anni Settanta ha partecipato alla lotta armata, ha compiuto 45 rapine, ha ucciso un uomo; poi si è pentito, ha scontato otto anni di carcere. Il 3 gennaio 2011, in una notte senza nebbia, attende il cronista all’angolo di uno dei vialoni nella zona est. Ha tra le dita una delle immancabili Merit rosse. Ne fuma non meno di 20 al giorno: parte all’alba, quando sale sull’autobus che lo porta al lavoro alle porte di Milano. Indossa un paio di jeans, un maglione grigio e un giubbotto blu con collo di finta pelliccia. Ha un cappelletto in testa, occhialini e baffi brizzolati. È piccolo e snello. Ex operaio dell’Alfa romeo, nel 1977 insieme con un professore di scuola media e con un giovane immigrato sardo è stato proprio lui a fondare i Pac, un gruppo che in poco più di un anno ha rivendicato quattro omicidi e diverse gambizzazioni. Di quella banda faceva parte anche Battisti: «Ma lui si unì a noi più che per ideale politico per sfuggire ai suoi problemi con la giustizia». In effetti, poco più che ventenne, era già stato condannato per diverse rapine, era entrato e uscito più volte dalle patrie galere e all’inizio del 1978, dopo l’assalto a un ufficio postale della provincia laziale, aveva cercato rifugio a Milano, dove era in contatto con Arrigo Cavallina, ideologo dei Pac, conosciuto nel carcere di Udine. In un bar gestito da cinesi, davanti a due sambuca e due fernet branca, Mutti commenta gli ultimi sviluppi del caso Battisti.

Che cosa pensa della decisione dell’ex presidente del Brasile, Lula, di non riconsegnarlo all’Italia?
Penso che Battisti sia stato il più furbo di tutti. Lui non era un personaggio del livello di Renato Curcio, e neppure di Valerio Morucci, uno che è riuscito, dissociandosi, a uscirne abbastanza pulito, eppure l’ha scapolata. Ha fregato tutti e ora probabilmente si godrà la vita senza aver mai pagato per le sue colpe.

Lei è il testimone oculare dell’uccisione del maresciallo della polizia penitenziaria Antonio Santoro da parte di Battisti.
Sì: l’ho visto con i miei occhi uccidere quella mattina a Udine (era il 6 giugno 1978, ndr). Battisti ed Enrica Migliorati (una studentessa ventenne, membro dei Pac, ndr) stavano abbracciati come due findazati davanti alla casa di Santoro. Quando il maresciallo è uscito, Battisti gli ha sparato da dietro (tre colpi, di cui due a brucia pelo alla testa, esplosi con un revolver Glisenti calibro 10.20, ndr). Io e un altro compagno, Claudio Lavazza, operaio come me, abbiamo osservato tutto dall’auto in cui li attendevamo. Non mi ricordo se ho girato la testa o se ho osservato la scena dallo specchietto retrovisore della nostra Simca 1.300. Ma l’ho visto mentre sparava.

È sicuro di quello che dice?
Non ho dubbi. Fu lui a sparare, a scegliere il bersaglio, insieme con Cavallina (entrambi avevano conosciuto Santoro in carcere ndr), a fare i sopralluoghi, a portare via le armi in treno dopo l’agguato.

Quando siete scappati dopo aver ucciso Santoro lei, camuffato con dei baffi alla mongola, ha salutato un testimone alzando il pugno chiuso. Eravate su di giri?
Ricordo l’adrenalina per il primo omicidio, ma non c’era esultanza né disperazione. Per noi quella era un’operazione militare. Bisognava essere decisi. Punto.

Lei sostiene che Battisti sia stato anche l’autore materiale del delitto dell’agente di polizia Andrea Campagna. Nei verbali dell’epoca dice che quel delitto fu un po’ un «colpo di testa» di Cesare e del compagno Giuseppe Memeo.
Confermo quelle parole. Il suo ruolo me lo confidò lui stesso.

Battisti è stato incastrato da questi suoi ricordi, da queste sue dichiarazioni, quelle di un pentito. Ma dal Brasile sostiene che lei mente.
A parte che non è stato condannato solo per le mie dichiarazioni, comunque lo hanno accusato e giudicato fior di magistrati che non credo si facessero prendere in giro dal sottoscritto. In ogni caso vorrei sentirlo con le mie orecchie Battisti che mi dà del bugiardo.

Dall’estero l’ha definita «un boia la cui falsa testimonianza, resa in mia assenza, mi è costata l’ergastolo».
Su di me hanno detto di peggio. Comunque quando ho raccontato ai magistrati le vicende dei Pac mi sono autoaccusato di azioni per cui non c’erano prove contro di me. Ho semplicemente detto la verità senza incolpare innocenti.

I sostenitori di Battisti la definiscono una «figura spettrale» e si domandano: «chissà se è ancora vivo, chissà dove abita e cosa fa sotto la nuova identità accordatagli dalla legge sui pentiti»
Posso farle vedere la mia carta d’identità: non ho mai cambiato nome, né città. È il loro amico che ha passato la vita a scappare e nascondersi.

Se incontrasse oggi Battisti che cosa gli chiederebbe?
In realtà credo che farei finta di non conoscerlo. Non ho più niente da dirgli. Il passato è passato. Di questa vicenda non mi interessa più niente. Io i conti li ho chiusi.

Che cosa prova nei confronti di Battisti?
Amare non l’ho mai amato. Eravamo caratterialmente troppo diversi. Ma non l’ho neppure odiato. Oggi mi è indifferente.

Che cosa pensa quando lo vede nelle foto sorridente e in manette in mezzo ai poliziotti brasiliani?
Rivedo il Battisti di trent’anni fa. È sempre stato un po’ sbruffone, un tipo strafottente. Però quando osservo quel ghigno penso anche che è  stato il più astuto di tutti. Che l’ha messa in quel posto, mi scusi la volgarità, alla giustizia italiana.

Qual è il primo particolare che le viene in mente se ripensa a Battisti.
Il suo sguardo. Ricordo una cena dell’epoca con una compagna in una vecchia osteria di Milano. Alle pareti erano appese teste di animali impagliati. La ragazza guardò la volpe e mi disse: «Ha gli stessi occhi di Cesare».

Dunque era il più furbo. Ma era anche il più crudele?
Eravamo più o meno tutti uguali. Gente determinata. Diciamo che lui non era un prete, ma quanto alla crudeltà non sono io che posso dare pagelle, il mio non è il pulpito giusto. Anch’io ho sparato. E quando abbiamo deciso di ammazzare o gambizzare qualcuno non è che non abbia dormito la notte.

La differenza è che Battisti nega di averlo fatto. Lei non ha mai provato rimorso?
Eccome, se ne ho provato! Ho ucciso per sbaglio una guardia giurata. Per molti anni mi sono svegliato di soprassalto ripensando a lui e alla sua famiglia. E a lungo mi ha agitato il sonno anche il pensiero dei compagni che avevo «tradito» con il mio pentimento. A volte questi due incubi si sono accavallati. Ma oggi ho superato quell’angoscia.

E Battisti pensa che ogni tanto sia tormentato dai fantasmi del passato?
Se lo conosco bene, non credo proprio. Al massimo si sarà autoconvinto di essere stato incastrato. Se un giorno ammetterà di aver ucciso, racconterà che lo abbiamo messo in mezzo, che lo abbiamo infilato, lui povero ragazzo di provincia, in una storia più grande di lui. Ha sempre tirato l’acqua al suo mulino: prima, dopo, adesso. Ma non lo biasimo. Ha pensato a salvarsi e ci è riuscito.

Lei ha un figlio che sta per diventare maggiorenne. Conosce il suo passato?
Sì, ne abbiamo parlato. Abbiamo discusso anche di Battisti. Ma da tempo non affrontiamo più l’argomento e non so come mi giudichi o cosa pensi di Cesare.

Nel 2009 è stato girato un film su Prima linea, sui suoi vecchi compagni Sergio Segio e Susanna Ronconi…
Ne ho sentito parlare, ma non l’ho visto.

Se un regista volesse raccontare la storia dei Pac, chi potrebbe interpretare Battisti?
Credo che andrebbe benissimo Fabrizio Corona, più per l’atteggiamento che per l’aspetto fisico.

La giustizia italiana ha qualche colpa in questa vicenda?
Quella di non avermi arrestato prima che facessi evadere Battisti dal carcere di Frosinone. Senza quella fuga, sarebbe stata tutta un’altra storia. Da PANORAMA, GENNAIO 2011

……Questa intervista che inquadra esattametne di quale assassino sia stato Battisti si incorcia con la decisione del Tribunale Supremo del Brasile che ha deciso di mantenere in carcere Battisti sino alla discusisone del ricorso presentato dall’Italia contro il no di Lula alla sua estradizione e con le polemiche che sono divampate in Brasile contro la decisione di Lula. Confidiamo che alla fine Battisti ci sia restituito e finisca nel carcere la sua vita di delinquente. g.

VENDOLA CADE PER LE SCALE, LA COLPA RICADE SUI GIOVANI DEL PDL CHE AVREBBERO FATTO SCHIAMAZZO DIETRO LA SUA ABITAZIONE

Pubblicato il 30 dicembre, 2010 in Cronaca, Il territorio | No Comments »

Svegliato nel cuore della notte dagli schiamazzi di alcuni giovani il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, si è alzato di soprassalto, si è precipitato fuori dalla camera da letto ed è, inavvertitamente, inciampato cadendo per le scale. Il risultato? Conferenza stampa un po’ claudicante.

Alla fine sono dovute intervenire le forze dell’ordine. Schiamazzi e insulti nel cuore della notte a turbare il sonno del presidente della Regione Puglia. Una notte molto lunga e difficile per il leader di Sinistra e libertà il cui sonno sarebbe stato turbato da un gruppo di giovani del Pdl appostati proprio sotto l’abitazione presidenziale di Terlizzi. Dopo aver bussato più volte contro la porta (“con violenza”), i giovani avrebbero “insultato e molestato” il governatore pugliese che, spaventatosi, avrebbe lasciato il proprio giaciglio per cercare una via di fuga lungo le scale. La paura del “raid” e il sonno turbato hanno reso instabile Vendola che, nel precipitarsi giù dalle scale, è inciampato e caduto. Il presidente della Puglia  questa mattina, si è presentato (come da programma) alla conferenza di fine anno leggermente claudicante. “Non ho avuto una buona nottata – ha raccontato lo stesso Vendola all’inizio della conferenza stampa di questa mattina – perché alcuni giovani del Pdl hanno pensato bene di venire a molestare il presidente a casa sua immaginando che l’abitazione privata possa essere una specie di protesi della lotta politica”.

.…Proprio come i protestatari  che qualche giorno fa hanno bivaccato di giorno e di notte dinanzi alla villa privata di Berlusconi ad Arcore, anche quella casa “sua”, nel senso privata di Berlusconi, considerandola  evidentemente una “protesi della lotta  politica”. Solo che in quel caso Berlusconi non si è affrettato per le scale e quindi non è caduto e sopratutto non si è lamentato, a differenza di Vendola che dopo aver congedato un bilancio di lacrime e sangue per i contribuenti pugliesi non vuole pagare dazio neppure con una schiamazzata dietro casa. Sempre che sia stata premeditata e che a farla siano stati i giovani del PDL (ce l’avevano scritto in fronte?!?) e non i tanti molestatori che in queste occasioni la fannoda padroni, purtroppo, nelle nostre città, nei nostri paesi, e nei nostri villaggi. Comunque, a Vendola, per fottuna,  è andata molto meglio che al consigliere comunale  SEL di un paesino del centro-nord, anmmazzato l’altra mattina pare da un marito geloso……g.

VENDOLA REGALA SINISTRI AUMENTI

Pubblicato il 29 dicembre, 2010 in Economia, Il territorio, Politica | No Comments »

In Puglia nuovo ticket di un euro sulle ricette e tasse più alte sulla benzina. Il leader della sinistra diventa il campione dei prelievi sui cittadini.

Nichi Vendola Un bilancio «lacrime e sangue». La definizione è del governatore Nichi Vendola. La Puglia ha approvato nella notte di martedì una manovra finanziaria che segna l’introduzione del ticket sulle ricette mediche per tutti, senza distinzione di reddito, e l’elevazione dell’accisa sulla benzina di 2,5 centesimi per litro. Arrivando, nei distributori, a costare oltre un euro e mezzo. La maggioranza di centrosinistra ha giustificato l’adozione di provvedimenti fortemente impopolari con la teoria della «coperta corta», illustrata dall’assessore al Bilancio, il democratico Michele Pelillo, che ha scaricato le responsabilità sui tagli ottemperati dal governo nazionale. E mentre l’assessore alla Salute, Tommaso Fiore (un tecnico di area Sel), ha già dato comunicazione ai direttori generali delle Asl dell’arrivo del ticket «fisso a ricetta pari a 1 euro a carico di tutti i cittadini pugliesi, esenti e non», l’opposizione di centrodestra ha acceso i riflettori sul dato politico che influirà sulle tasche dei cittadini. «Dopo sei anni di governo Vendola – ha argomentato il capogruppo del Pdl Rocco Palese – i pugliesi si ritrovano tartassati, con ospedali da chiudere, servizi sanitari limitati all’emergenza, totale assenza di controllo della spesa sanitaria e perseveranza politica nel voler andare avanti così. È evidente che siamo dinanzi ad un fallimento politico ed amministrativo imputabile a chi continua a governare all’insegna di una eterna campagna elettorale».

La sintesi di Nino Marmo, vice presidente del Consiglio regionale del Pdl, non lascia spazio a dubbi: «Vendola è stato costretto ad alzare le tasse perché negli anni passati ha agito da perfetto scialacquatore. Soprattutto non è riuscito a venire incontro alle categorie più deboli e meno garantite: è rimasta invariata, infatti, l’imposta sul gas metano, un balzello che tocca da vicino le tasche di tanti anziani e giovani pugliesi». Il governatore e leader di Sel ha parlato di una manovra «da dopoguerra, in equilibrio tra ciò che è emergenza e ciò che è sviluppo», mentre l’assessore al Bilancio Pelillo, si è difeso spiegando che «l’accisa sulla benzina è stata stabilita per finanziare il fondo per la non autosufficienza. Non abbiamo, però, toccato Irpef e Irap». Da destra la replica punta dritto al buco registrato dalla Giunta nella Sanità. «Basta con questa filastrocca del Bilancio pugliese condizionato dai tagli statali. Gli amministratori del centrosinistra – ha ribattuto Palese – devono prendersi le proprie responsabilità: qui il disavanzo sanitario nel 2010 si è attestato sui 400 milioni di euro».

Alle critiche severe del Pdl, nei giorni scorsi si sono aggiunte le recriminazioni degli esponenti della maggioranza: Michele Mazzarano del Pd e Aurelio Gianfreda del partito di Di Pietro hanno fatto pesare il proprio voto favorevole chiedendo in cambio maggiori risorse per gli ospedali presenti nei territori nei quali sono stati eletti (tra Taranto e Lecce). Infine sono stati rigettati tutti gli emendamenti migliorativi promossi dal centrodestra: «Volevamo ripristinare un sistema di controllo e legalità nelle Asl e nell’intero sistema sanitario pugliese – ha puntualizzato Palese facendo riferimento ai recenti scandali della Sanitopoli – ma non siamo stati ascoltati. Abbiamo chiesto invano anche di ridurre le spese di rappresentanza e comunicazione per investire nel diritto allo studio, nei servizi sociali e nella lotta contro le nuove povertà». La conclusione del capogruppo del Pdl è amara: «Insomma senza nessun ostruzionismo abbiamo cercato di tradurre in atti e fatti concreti le migliaia di promesse elettorali di Vendola e della sinistra. Ma senza alcun successo». Michele De Feudis, Il Tempo, 29 dicembre 2010

….Vendola, il campione dei poveri, per sanare il buco della saniutà da lui stesso provocato nei cinque anni precedenti,  nel corso dei quali gha scialacquato a piene mani regalando soldi a destra e a manca, sopratutto, anzi,  soltanto a manca, ha varato per il 2011 un bilancio di lacrime e sangue a danno dei contribuenti meno fortunati. Ovviamente dirà che la colpa è del govenro. Ma la colpa è soltanto sua che ha dilapdato centinaia di milioni di euro  nella sanità per arrivare al punto di partenza, cioè la necessità di organizzare una sanità che tagliasse i rami secchi per offrire una assistenza migliore ai cittadini pugliesi. Se lo acvesse fatto cinque anni fa,  sulla scia delle scelte fatte dal presidnete Fitto, oggi non saremmo alle “lacrime e sangue” di colore vendoliano. Come tutti i robespierre, ora Vendola se la prende con tutti meno che con se stesso. Ma farà la stessa fine (metaforica) del robespierre della rivoluzione francese. g.