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ADDIO PDL, TORNA FORZA ITALIA, di Alessandro Sallusti
Pubblicato il 21 dicembre, 2010 in Il territorio, Politica | No Comments »
Napolitano ha fatto gli auguri a Berlusconi. Di Natale, ma non soltanto. L’auspicio è che questo governo vada avanti. È una sorta di via libera al premier a procedere con la sua maggioranza risicata alla Camera e un altolà a chi ancora trama per tentare improbabili e pasticciati ribaltoni. Governare con pochi voti di margine, quindi, oltre che legittimo è lecito. Del resto in molte democrazie europee già avviene, lo stesso Obama guida l’America con dalla sua un solo ramo parlamentare. Da ieri, quindi, l’ipotesi di elezioni anticipate perde ancora un po’ di quota e la maggioranza respira. Al punto che si ricomincia a guardare al futuro non sotto l’incalzare delle emergenze, ma con piani a lungo termine. Come quello – la notizia è trapelata da un incontro tra Berlusconi e alcuni europarlamentari – di cambiare nome al Pdl. E tra le ipotesi, la più accarezzata è quella di tornare alla vecchia Forza Italia. Se così sarà, non si tratta di banale operazione di facciata ma la presa d’atto che la fusione con An non ha dato i risultati sperati. E non soltanto per la scissione di Fini.
È evidente che un’operazione del genere implica non soltanto ribadire con forza la centralità assoluta e indiscutibile di Berlusconi, ma anche di tutta la classe dirigente proveniente da Forza Italia. Al centro come in periferia. Il che aprirebbe un nuovo, grande dibattito dentro l’attuale partito di maggioranza. Accetteranno gli ex colonnelli rimasti fedeli al premier di stare in una struttura di nome e di fatto diversa da quella del Pdl? Se sì, a che condizione? E se no, cosa potrebbe accadere? Non per forza le risposte a queste domande devono portare a una situazione traumatica simile a quella vissuta con Gianfranco Fini. Anzi, potrebbe essere il contrario. La chiarezza, in politica, aiuta sia nella gestione del potere che nella comprensione da parte degli elettori. Non dimentichiamo che la prima ipotesi sul partito unico del centrodestra non era la nascita del Pdl ma una federazione, che è più di una alleanza ma meno di una fusione.
Del resto, chiarire definitivamente i rapporti tra le due componenti del Pdl ormai è una necessità non più rinviabile. Che toglierebbe ulteriore terra da sotto i piedi di Gianfranco Fini e renderebbe più agevole il ritorno a casa di non pochi suoi deputati. Il più spaventato da una simile ipotesi è proprio il presidente della Camera, amico dei magistrati antiberlusconiani (coi quali avrebbe fatto un patto), che ieri ha annunciato di non voler abbandonare la poltrona sulla quale è seduto. Forse già sa che è l’unica e l’ultima che gli resta. Il Giornale, 21 dicembre 2010
……Secondo un primo risultato del sondaggio lanciato online dal Giornale, un buon 78% dei partecipanti al sindaggio sino a poco fa, sarebbe d’accordoalla proposta di tornare alla sigla di Forza Italia, in luogo dell’attuale Popolo della Libertà, ridotto dai giornali alla sigla PDL. Forse il sondaggio è destinato più in là a cambiare. In attesa di ulteriori approfondimenti, pensiamo che, a prescindere delle minacce legali profferite dal vicario di Fini, Bocchino, circa l’uso della sigla PDL in campagna elettorale, il ritorno a Forza Italia potrrebbe risultare una azzeccata scelta propagandistica come pare ritenere lo stesso Berlusconi che in materia pubblicitaria non è mai stato secondo a nessuno. Certo sarebbe da verificare cosa ne pensino gli ex AN lealmente rimasti nel PDL ma una soluzione che accontenti tutti la si può trovare. g.
DOPO IL VOTO DEL 14, IL BIPOLARISMO E’ PIU’ FORTE
Pubblicato il 16 dicembre, 2010 in Il territorio | No Comments »
E così Berlusconi ce l’ha fatta ancora una volta. È una vittoria importante anche e soprattutto per il futuro. È una vittoria che porta chiarezza in un quadro politico che sembrava aver rinverdito l’antica prassi delle congiure e delle manovre di palazzo tipiche della prima repubblica. Ha ragione da vendere, insomma, il ministro Brunetta quando, con la sua solita franchezza e senza mezzi termini, ha sostenuto che il risultato delle votazioni sulla fiducia e/o sfiducia al governo ha sancito la fine definitiva della prima repubblica. In realtà, queste votazioni – contrariamente a quanto sottolineano alcuni interessati commentatori che pongono l’accento soprattutto sulla esiguità del margine di sicurezza del governo alla Camera – hanno contribuito al rafforzamento del bipolarismo.
Quel che conta, infatti, è la sostanza politica del risultato e non già la sua dimensione numerica. E la sostanza politica è molto semplice: è stata bloccata ogni ipotesi non solo di un eventuale governo tecnico, ma anche di ogni eventuale altro governo ribaltonista. Se dovesse verificarsi una crisi, non ci sarebbe davvero nessuno spazio per tentare strade diverse dal ricorso alle elezioni gestito dal governo in carica. Non solo. Le aperture di Berlusconi a Casini – fatte in nome della necessità di ricostituire l’unità dei moderati – sono, indipendentemente dall’esito che potranno sortire, una ulteriore indicazione dell’impraticabilità del sentiero che avrebbe dovuto portare alla creazione del cosiddetto terzo polo: un polo che, nelle speranze di chi lo caldeggiava, avrebbe dovuto mettere insieme, fra l’altro, l’Udc e il Fli. E paradossalmente proprio l’annuncio, in questo momento, di un coordinamento parlamentare per la creazione di un nuovo «Polo della Nazione» – in sostanza il famoso terzo polo – è il sintomo più evidente di una crisi profonda di quei settori dell’opposizione che fingono di creare una forza attraverso una somma di debolezze.
Dopo le votazioni di martedì scorso – diciamolo chiaramente – Futuro e Libertà non esiste più. È ormai soltanto una sigla che individua un raggruppamento destinato a dissolversi o a cercare collocazioni politiche improprie. È ormai, se vogliamo, un personaggio in cerca d’autore. Non esiste più non solo e non tanto perché Berlusconi rifiuta di riconoscerne l’esistenza e accetta di interloquire soltanto con alcuni «futuristi» (ma a titolo personale), quanto piuttosto perché non esiste più, di fatto, il progetto politico che si voleva far passare sotto quell’etichetta.
Le votazioni non hanno certificato, come pure è stato scritto, la frantumazione di quella che era stata per oltre un quindicennio l’ossatura del centro-destra, cioè l’alleanza Berlusconi-Fini. In realtà ne hanno confermato la compattezza, perché il centro-destra non è correttamente riducibile all’alleanza fra i due leader, ma a quella fra i «popoli» che questi due leader rappresentavano. Il Pdl è uscito dalla prova ancora come il partito del centrodestra. Fini e i suoi non esprimono che se stessi e idee lontane, lontanissime dalla tradizione e dai valori del mondo della destra politica e culturale italiana. E finanche dal mondo del moderatismo cattolico riconducibile all’Udc.
La sconfitta di Fini è stata una sconfitta pesante. Sotto tutti i profili. Ne ha minato la credibilità. Ne ha messo in discussione il futuro politico. E ha riportato, in maniera prepotente, di attualità il problema dell’uso politico della carica istituzionale ricoperta. Ormai la permanenza di Fini alla guida della Camera è una anomalia difficilmente tollerabile. Tanto più se egli non vorrà rinunciare a disseminare di la strada che dovrà percorrere il governo, nella speranza che esplodano o che lo costringano all’impotenza e all’immobilismo. Ma è una strategia suicida dettata dalla disperazione. E che appanna, sempre di più, l’immagine del presidente della Camera. Francesco Perfetti, Il Tempo,16/12/2010
STING E STEVEN MERCURIO IN CONCERTO A ROMA
Pubblicato il 12 novembre, 2010 in Il territorio | No Comments »
Il pubblico che affollava il nuovo Auditorium Santa Cecilia all’interno del Parco della Musica di Roma sembrava letteralmente elettrizzato durante le tre ore del concerto di Sting che ha chiuso mercoledì sera, proprio a Roma, la tournee che l’ha portato in giro per quaranta città europee per presentare il suo ultimo album, Synphonicities, inciso unendo ai suoni rock del suo tradizionale quintetto quelli della Orchestra sinfonica di Filadelfia diretta dalla bacchetta di Steven Mercurio. Che non è stato da meno di Sting, straordinario quest’ultimo nell’esecuzione delle sue canzoni, dalle più antiche alle più nuove, lungo le tre ore del concerto che ha mandato in visibilio i presenti, tanti dell’età di Sting, ma anche tantissimi giovani.
Sul podio il maestro Mercurio sembrava un acrobata trasformando in gesti le musiche elettrizzanti che uscivano meravigliose dagli strumenti dei musicisti, quelli di Sting, e quelli dell’Orchestra, uniti in un mix che ha lasciato senza parole il pubblico che alla fine del concerto ha tributato interminabili ovazioni all’indirizzo del cantante che più volte è tornato sul palcoscenico per fuori programma che il pubblico, tutto in piedi, ha accolto con un entusiasmo incredibile.
Tanti i presenti, molti nomi noti, tra cui il ministro Mara Carfagna, la presidente del Lazio Renata Polverini, l’ex ministro Padoa-Schioppa, il presidente della BNL Abete, il direttioe del TG1, Augusto Minzolini, e tanti altri.
Dopo lo spettacolo abbiamo potuto incontrare a cena Sting e Steven Mercurio, che ci ha affidato il suo saluto e il suo ricordo alla nostra comunità della quale egli è, orgogliosamente (lo ha anche raccontato a Sting e a Tony Renis, indimenticato cantante degli anni 60 e oggi manager musicale), cittadino onorario. g.
FINI: A PERUGIA E’ SBARCATO UN MARZIANO, di Mario Sechi
Pubblicato il 8 novembre, 2010 in Il territorio | No Comments »
Gianfranco Fini vuole distruggere il berlusconismo, ma il suo discorso ieri è riuscito a ridargli vita e un senso. Anni fa scrissi che il berlusconismo come fenomeno sociale e politico era pre-esistente a Berlusconi, faceva (e fa) parte del carattere degli italiani. Lui è stato il leader che l’ha meglio interpretato. Il discorso di Fini invece immagina un popolo e un Paese forgiati e cresciuti da Berlusconi, il grande fabbricatore del golem italiano. Fatto fuori lui, il grande seduttore di Arcore, tutto cambia. È un errore di prospettiva storica e di analisi politica che Fini condivide con la sinistra. E questo spiega due fatti: 1. l’incapacità cronica del presidente della Camera di proporsi come successore ideale del Cavaliere; 2. l’inadeguatezza della sinistra a rappresentare un’alternativa di governo credibile.
Questo svarione storico continua a perpetuarsi e nel caso di Fini ad ampliarsi con conseguenze che vanno ben al di là della limitata immaginazione dei futuristi di nome ma non di fatto. Sedici anni al fianco di Berlusconi sono evaporati dalla memoria, ma presto i finiani si renderanno conto che il Paese da loro narrato non esiste; che l’elettorato berlusconiano è una realtà che prescinde dal Cavaliere; che la destra lib-lab è una contraddizione che non sta in piedi; che il conservatorismo è più vivo che mai; che l’Europa – lo spazio geopolitico di riferimento – va in una direzione opposta; che la storia sta frantumando inesorabilmente tutta la mitologia che abbiamo visto sbandierare a Perugia. I limiti culturali e politici di Fini e dei suoi personaggi in cerca d’autore sono emersi con una forza disarmante.
Dopo sedici anni di centrodestra berlusconiano, Fini ha abiurato completamente tutto ciò che è stato e ha rappresentato. È la certificazione del fatto che l’ex segretario del Movimento Sociale, l’erede di Giorgio Almirante, l’ex presidente di An, l’ex cofondatore del Pdl, è un contenitore vuoto in cui può entrare di tutto e si aziona come un juke-box. Non mi era mai capitato di ascoltare un discorso politico così lontano dalla biografia e dalla storia di chi lo pronunciava. Fini scende dal pianeta Marte, alza il sopracciglio e dipinge come un alieno piovuto dall’iperspazio il disastro di un’Italia che lui ha contribuito a creare. Stratosferico. Vederlo affermare il suo primato di uomo nuovo, di padre padrone di un altro centrodestra, di impeccabile rappresentante delle istituzioni, mi ha confermato tutto quel che penso di questa fase della storia italiana: è una tragica barzelletta.
Faccio questo mestiere da ventidue anni, seguo la politica fin da quando ero un ragazzino, ho mosso i primi passi da cronista mentre la Prima Repubblica tirava le cuoia sotto i colpi di una rivoluzione giudiziaria che dava fendenti a senso unico, ho visto nascere la Seconda, piena di speranze, e ora ho di fronte la sua agonia mentre l’idea di una Terza Repubblica non c’è e i presunti leader che si propongono per il futuro sono uomini che vengono dal passato e non brillano di luce propria.
Il discorso di Fini è stato un indietro tutta colossale, una demolizione perfino delle poche conquiste che gli italiani si sono presi sul campo di battaglia della politica. Se diventasse realtà quel che immagina il Presidente della Camera, il voto degli elettori sarebbe una formalità concessa con fastidio. Se andasse in porto questo putsch restauratore avremmo di fronte a noi uno scenario in cui la forza centrifuga della Lega sarebbe tale da spaccare il Paese in due, senza bisogno di fucili e rivoluzioni, basta e avanza il dito medio alzato di Bossi.
Tutta la retorica finiana è un pasticcio politico frutto di letture ben confuse, scarsa conoscenza del Paese reale e una disinvoltura istituzionale ben più grave dei “fatti di mutande” del Cavaliere. Quel che s’è visto ieri a Perugia è un deragliamento politico che in un altro Paese sarebbe tragico ma in Italia è solo ridicolo. Un presidente della Camera che dice al capo del governo di dimettersi e apre una crisi extraparlamentare, un manipolo di ministri che rimette il mandato nelle mani della terza carica dello Stato e non del capo del governo, fanno strame di qualsiasi principio del diritto costituzionale e parlamentare. E questi sarebbero quelli che hanno tuonato contro il “partito proprietario” e il “cesarismo” del Cavaliere. Fini non si è assunto fino in fondo le sue responsabilità politiche: se uno tuona contro il governo di cui fa parte, la logica vuole che sia lui ad aprire la crisi. Dica ai ministri di Futuro e Libertà di lasciare l’esecutivo, la poltrona e l’indennità di carica, faccia cadere Berlusconi in Aula e affronti il voto. Lasci perdere i penultimatum e il tono da statista di carta e si dia invece un po’ di coraggio. Il cerino che ha tentato anche ieri di passare nelle mani di Berlusconi in realtà si sta spegnendo tra le sue dita.
Con buona pace dei sognatori di governi tecnici, alla fine saranno gli elettori a decidere chi governa, a loro spetta il compito di decretare l’uscita di scena di Berlusconi. E saranno sempre loro a decidere chi sarà il capo del governo nel 2013. Fini se ne faccia una ragione, le autoincoronazioni funzionano in salotto, ma il voto è un’altra storia. Se ha buone idee da esporre sullo scaffale della politica, tiri giù la serranda del suo negozietto da baratto di Palazzo e vada sul mercato elettorale. Fini ha offerto a Berlusconi un’occasione unica, è rimasto in mezzo al guado ma è troppo avanti per tornare indietro. Il ponte levatoio s’è già alzato e nel fossato ci sono i coccodrilli. Da questo momento il Cav può giocare carte pesantissime, ma per essere di nuovo vincente deve rimettersi a fare politica e per cominciare dare al partito un volto e una sostanza che non siano quelli degli attuali coordinatori. Sono condizioni minime senza le quali non si gioca in attacco. Berlusconi tenga ben presente che il berlusconismo viene prima di lui e se è vero che non sceglierà mai e poi mai Fini è altrettanto vero che un outsider – come fu il Cavaliere nel 1994 – è sempre dietro la porta della Storia.
In politica la categoria amico/nemico coniata da Carl Schmitt – nonostante quel che ne pensano i parrucconi del regime del politicamente corretto – determina il successo o la sconfitta di un movimento politico. Il discorso di Fini ha restituito un senso al berlusconismo e allungato la vita a Silvio. Se fino a ieri al popolo che ha scelto di esser guidato per sedici anni dal Cavaliere mancava un nemico per assenza tecnica di avversari degni di nota, oggi quel blocco sociale se ne ritrova davanti agli occhi uno per il quale vale la pena andare di nuovo a votare. Mario Sechi, Direttore de Il Tempo, 8 novembre 2010
STING E STEVEN MERCURIO IN CONCERTO A ROMA
Pubblicato il 6 novembre, 2010 in Il territorio, Musica | No Comments »
Steven Mercurio, noto direttore d’orchestra italo-americano di musica lirica e sinfonica, insieme a Sting, da decenni celebrata pop star della musica leggera.
E’ stata la novità musicale dell’anno che ha raccolto successi eccezionali durante tutta la tournee che sinora ha toccato 80, fra città americane ed europee, e che mercoledì sera, 10 novembre, farà tappa a Roma, l’ultima italiana, all’Auditorium del Parco della Musica.
La tournee è stata l’occasione per Sting, per presentare il suo ultimo album, Symphonicities, inciso con accompagnamento dei musicisti della Royal Philharmonic Concert Orchestra diretti da Steven Mercurio.
Anche mercoledì sera, alla bacchetta di Steven Mercurio risponderanno Jorge Calandrelli, David Hartley, Michel Legrand, Rob Mathes, Vince Mendoza, Bill Ross, Robert Sadin e Nicola Tescari. Sting sarà accompagnato anche da un quartetto composto da Dominic Miller (suo chitarrista da lungo tempo), David Cossin (specialista in diverse percussioni in campo di musica sperimentale, oltre che membro della Bang on a Can All-Stars), Jo Lawry (voce) e Ira Coleman (basso). Il vantaggio di guardare al passato è quello di puntare su brani che hanno fatto la storia della musica pop-rock.
E l’applauso del pubblico è assicurato. Specialmente quando si mette mano a un repertorio ricco come quello di Sting. Si possono allora prevedere cori insolenti per la sala Santa Cecilia che accompagneranno le arcinote melodie di «Roxanne», «Next To You», «Every Little Thing She Does Is Magic», «Every Breath You Take», oltre naturalmente ai brani più famosi della carriera solista, «Englishman in New York», «Fragile», «Russians», «If I Ever Lose My Faith in You», «Fields of Gold», «Desert Rose», «I Burn for You», «Why Should I Cry for You» e «She’s Too Good For Me».
VITO LATTANZIO, UN SINCERO AMICO DELLA NOSTRA COMUNITA’
Pubblicato il 2 novembre, 2010 in Il territorio | No Comments »
La scomparsa l’altro ieri dell’on. Vito Lattazio, politico insigne della nostra terra, uomo di partito, uomo di governo, interprete attento e puntuale dei problemi dei cittadini pugliesi, ha suscitato grande e generale cordoglio fra quanti lo hanno conosciuto, seguito, stimato ed eletto a loro rappresentante. Se ne è fatta interprete, per tutti, la Gazzetta del Mezzogiorno, il quotidiano di Bari i cui archivi possono testimoniare il grande impegno profuso da Lattanzio nel corso della sua quasi cinquantennale attività politica al servizio di Bari e della Puglia, allievo prima e concorrente poi, sempre leale e corretto, di Aldo Moro. Se ne è reso interprete sopratutto il condirettore della Gazzetta, De Tomaso, che all’illustre scomparso ha dedicato un ritratto straordinariamente sincero e testimone di una vita spesa al servizio della democrazia e della libertà, talvolta disconosciuta e spesso contraccambiata da manifestazioni di ingratitudine che la politica spesso riserva a chi la vive con passione e vigore. Lo ha ricordato Rino Formica, socialista, che di Lattanzio fu nemico politico ma anche estimatore sincero. Lo ha ricordato il ministro Fitto che oggi rappresenterà il Governo alle esequie di Lattanzio, che ne ha sottolienato la grande capacità di “sentire” gli altri, fisicamente, è il caso di sottolineare. Tutti ricordano che la sua segreteria in via Fratelli Roselli, a Bari, era un un porto aperto a chiunque volesse parlargli e Lattanzio ascoltava tutti e per tutti aveva modi gentili e cortesi. In quelle stanze si affollavano in tanti, potenti e uomini della strada, che Lattanzio trattava allo stesso modo, senza distinzioni di sorta, manifestando concretamente il suo essere cristiano praticante che se è vero che frequentava parroci e suore per raccoglierne il consenso, non evitava l’altare dinanzi al quale, a differenza di altri, di tanti altri, si genufletteva con sincera contrizione. In quelle stanze si affollavano gli amministratori locali che in tempi assai difficili sollecitavano provvidenze per i propri enti, Comuni, Provincie, la stessa Regione che lo ebbe sempre sollecito e solerte sostenitore. Fu uomo di partito, del suo partito, la Democrazia Cristiana, nella quale sempre si collocò a destra, interpretando i sentimenti di tanta parte dell’elettorato del sud che alla DC talvolta guardava con sospetto e che in Lattanzio sapeva riconoscersi più che in altri; nel suo partito ricoprì incarichi prestigiosi,che lo proiettarono anche in dimensioni sovranazionali consentendolgi di divenire vicepresidente del Partito Popolare Europeo, ancora non inquinato da ingressi di forze eterogenee come sarebbe avvenuto negli successivi. Fu uomo di Governo, attento, meticoloso, rigido. Con gli altri e con se stesso, come in occasione della fuga del criminale nazista Kappler di cui lui non era di certo responsabile ma che lo indusse a dimettersi da Ministro della Difesa con la dignità e la signorilità che gli apaprtenevano. Nel Governo ricoprì numerosi incarichi, ministro della Difesa, poi dei Trasporti e della Marina Mercantile, e poi della Protezione Civile, quando questa ebbe rango di Ministero autonomo. In tutti gli incarichi mostrò capacità, sensibilità, onestà, offiuscata da un improvvido interrvento della Magistratura militante che ai tempi di Tangentopoli lo scalfì con una accusa infamante che si rivelò poi, e non poteva essere altrimenti, falsa e infondata. Dopo Tangentopoli si ritirò dalla vita politica attiva e sebbene non mancasse di “sentire” gli amici che mai lo hanno lasciato, l’on. Lattanzio ha vissuto con discrezione e riserbo gli anni che trascorrevano, sino a due giorni fa, quando ha cessato di vivere, nel suo piccolo appartamento di piazza Sorrentino, a Bari, quasi a rimarcare la sua mai tradita baresità. Anche noi ci uniamo al generale c0rdoglio e lo ricordiamo come un grande e sincero amico della nostra comunità. Nella foto che pubblichiamo Vito Lattanzio, Ministro della Protezione Civile, il 5 agosto del 1989, partecipa alla inaugurazione del Monumento all’Emigrante in Largo Croci, in una grande manifestazione di popolo che gli tributò una grande manifestazione di affetto. La meritava l’on. Lattazio che dei problemi della nostra comunità sempre si era interessato, sempre vicino agli amministratori comunali che si susseguivano alla guida del nostro Comune, avendo certezza di poter contare su di lui. Il Comune di Toritto deve a Lattanzio, tra l’altro, nel 1988, il varo del progetto che doveva portare alla realizzazione della tanto attesa e necessaria variante esterna alla statale 96. In tempi in cui c’è chi si vanta di aver procurato a favore della nostra cittadina milioni di euro che nessuno ha mai visto, va ricordato che Vito Lattanzio fece stanziare a favore della nostra comunità 45 miliardi di vecchie lire, circa 23 milioni di euro di oggi, proprio per realizzare quella variante. Chi scrive ricorda benissimo una sera di ottobre del 1988, era il 10 ottobre, nell’ufficio di ministro, allorchè Lattanzio alzò la cornetta del telefono per chiamare il ministro dei lavori pubblico Prandini e riferirgli della necessità di accogliere la richiesta del Comune di Toritto che da anni giaceva nei cassetti dell’ANAS. Il successivo 12 ottobre, due giorni dopo, il Consiglio di Amministrazione dell’ANAS, presieduto da Prandini, approvava il progetto di realizzazione della variante che sarebbe stato appaltato due anni dopo, cantierizzato e realizzato tra il 1994 e il 1996. Altri tempi e altra politica, ha scritto Enzo Selvaggi sulla Gazzetta del Mezzogiorno. E’ vero, altri tempi e altra politica, ma anche altri Uomini. Come Vito Lattanzio. g.
LATTANZIO: IN PUGLIA FRONTEGGI0′ MORO, ricordo di Giuseppe De Tomaso
Pubblicato il 1 novembre, 2010 in Il territorio | No Comments »
Ci fu un periodo in cui i mega-inviati dei giornali padani così raccontavano il Monòpoli del Potere dc in Puglia: Aldo Moro comanda a Roma, Vito Lattanzio comanda a Bari. Erano gli anni della Prima Repubblica. La Democrazia cristiana, partito perno dello Stato, sembrava più infrangibile di un pezzo di granito. Il sistema pareva più longevo di Matusalemme. Naturalmente le grandi firme del Nord calcavano la mano sulla contrapposizione, in Puglia, tra il Professore (giurista) e il Dottore (medico) della Dc.
Non era vero che Moro fosse influente soltanto a Roma, così come non era vero che Lattanzio fosse il capo assoluto dello scudocrociato barese. Sta di fatto che dopo lo statista assassinato dalle Brigate Rosse, il personaggio più importante della storia democristiana nel tacco d’Italia è stato Lattanzio, Vito Lattanzio. Generoso con tutti, assai meno con se stesso, Lattanzio non incontrò la generosità della pubblicistica mediatica che, sull’onda del caso Kappler (il macellaio nazista evaso dall’ospedale militare romano), emise una sorta di preventiva condanna senza appello nei confronti dell’allora ministro della Difesa (1977).
Lattanzio ha smesso di vivere, in silenzio, ieri, il giorno del suo 84mo compleanno. Ma, per certi versi, aveva iniziato il suo cammino verso l’appuntamento con il Signore molti anni fa, all’indomani dell’eutanasia della Prima Repubblica. Lattanzio era incompatibile sul piano antropologico, oltre che politico, con la cosiddetta Seconda Repubblica.
Non era un tribuno televisivo. Non sapeva urlare. Non offendeva gli avversari. Era l’opposto del prototipo di tele-successo in voga oggi. Figlio della legge elettorale proporzionale (da lui sempre rimpianta), Lattanzio era più lontano di Plutone dalla logica della democrazia maggioritaria. A tal proposito, la pensava come Moro che, a chi gli prospettava l’ipotesi del passaggio dal sistema proporzionale (fondato sulla mediazione- mediazionismo) al sistema maggioritario (basato sulla decisione-decisionismo) rispondeva con parole dagli effetti clamorosamente profetici: «Se si abbandonasse la proporzionale, la Dc farebbe la fine di un cristallo che si frantuma in mille pezzi». Infatti. L’antica Balena Bianca era sopravvissuta a marosi politici e giudiziari. Aveva navigato tra le due mega-armate di Est e Ovest. E probabilmente avrebbe superato persino lo scoglio di Tangentopoli, se non si fosse imbattuta nell’ostacolo più perfido e insidioso: l’avvento della democrazia dell’aut aut, che subentrava alla democrazia dell’et et.
Attilio Piccioni (1892-1976) amava ripetere che per essere ammessi nella Democrazia cristiana non era necessario essere né democratici né cristiani. Come dire, secondo l’esegeta Francesco Cossiga (1928-2010), che la morale non era di casa e quel che contava era la politica. Invece. Moro e Lattanzio erano diversi come possono esserlo due gemelli eterozigoti. Ma erano profondamente democristiani: di pelle più che di tessera.
Moro propendeva per la riflessione. Lattanzio per l’azione. Fino al 1968, il leader storico della Dc e il suo promettente corregionale militavano nella stessa corrente, anche se l’anticomunismo di Lattanzio era più accentuato. Fu dopo il ‘68, con lo strappo di Moro nei confronti del vecchio corpaccione doroteo e susseguente collocazione nella sinistra interna del partito, che le strade dei due amici-rivali pugliesi cominciarono a divaricarsi profondamente. Il divorzio giovò a entrambi: Moro perfezionò la sua immagine di leader di spessore internazionale, Lattanzio passò dal rango di capo regionale allo status di big pluriregionale e nazionale, approdando nel 1976 a un dicastero di serie A, qual era la Difesa.
Ma, nonostante la rottura, determinata dalla diversità di vedute sul rapporto con il Partito comunista, quelle tra Moro e Lattanzio rimarranno «divergenze parallele». L’Allievo non mancherà mai di rispetto al Maestro. E, quando quest’ultimo, quella tragica mattina del 16 marzo 1978, venne sequestrato dal commando brigatista, Lattanzio dimenticò le diatribe e i dissapori del passato prossimo per schierarsi nella sparuta, ma inascoltata, pattuglia di trattativisti impegnati a fare l’impossibile pur di salvare la vita dell’ostaggio.
Le cose andarono come andarono. Da quel giorno Lattanzio rimase pressoché l’unico dc pugliese in ballottaggio per un incarico ministeriale (infatti, dopo i Trasporti e la Marina Mercantile approderà anche alla Protezione civile e al Commercio con l’Estero). Ma lo spegnimento di un faro come Moro non giovò alla sua stella, che trovava nuova luce proprio nella dialettica regionale con il Numero Uno.
Poi sopraggiunsero alcune vicende giudiziarie, dalle quali l’ex ministro uscì senza macchie e a testa alta. Ma era già cominciata un’altra storia, quella del rientro dietro le quinte. Se il valore di una persona si vede anche o soprattutto da come essa sa uscire di scena, allora bisogna convenire che Vito Lattanzio era un uomo vero, non un viso pallido a caccia di ogni minima nicchia pur di non sparire dalle pagine dei giornali.
La Gazzetta del Mezzogiorno 1° novembre 2010
E’ MORTO VITO LATTANZIO, UOMO D’ALTRI TEMPI E D’ALTRA POLITICA
Pubblicato il 1 novembre, 2010 in Il territorio | No Comments »
E’ morto ieri, nel giorno del suo 84° compleanno, l’ex ministro democristiano Vito Lattanzio. La morte è avvenuta intorno alle 15 a Bari, nella sua abitazione in piazza Sorrentino, circondato dall’affetto della figlia, Titti, del genero, Antonio e dei nipoti, della sorella e dei famigliari tutti. È morto senza sostanze. Nel senso che nel corso del suo strapotere non si è arricchito per nulla. E questa è la prova di moralità che ci ha lasciato, la misura di ciò che fu, di quel che è oggi e di ciò che è stato. Incarnazione dell’ideologia associata a un esercizio scientifico del potere, Vito Lattanzio ha lasciato sulla sponda dei vivi 84 anni di vita democristiana. I funerali si terranno domani, alle 15, nella Basilica di San Nicola, a Bari.
LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 31 ottobre 2010
Fitto: con lui comunanza ideali e amicizia |
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BARI – “La morte di Vito Lattanzio colpisce me personalmente e la mia famiglia. Il nostro dolore va ben oltre quello per la perdita di una personalità con la quale si è condiviso un lungo percorso politico”. Lo sottolinea in una nota il ministro per i Rapporti con le Regioni e la Coesione, Raffaele Fitto, dopo aver appreso la notizia della morte dell’ex ministro democristiano Vito Lattanzio.
“La comunanza di ideali e di sensibilità – sottolinea Fitto – è stata segnata da un rapporto di amicizia profondo che in nulla è stato scalfito dall’evolversi delle nostre scelte politiche e culturali”. “Con Vito Lattanzio – aggiunge Fitto – scompare l’esponente più interessante e vivace di un tempo della politica che aveva portato la nostra regione ad assumere ruoli di primo piano sulla scena nazionale, sia sul piano del dibattito politico che sul piano dei ruoli di governo”. “Tra l’altro va ricordato di Lattanzio lo stile con il quale – ricorda il ministro – ha attraversato una lunghissima stagione di impegno, dalle organizzazioni sociali e di categoria fino a ruoli parlamentari e di governo elevatissimi. Nel suo tragitto non dismise mai l’assoluto disinteresse personale, il distacco del professionista e l’ironia del gentiluomo che molto lo soccorse quando si cercò persino di infangarne l’onorabilità che, come era assolutamente prevedibile, gli venne resa intatta dalla stessa magistratura”. “Esempio raro ma che è stato e resta – conclude Fitto – fondamentale punto di riferimento per quanti, cattolici e laici, sentono il richiamo dell’impegno politico”. |
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L’ATTENZIONE DELLO STATO SULLA NOSTRA CITTADINA
Pubblicato il 14 ottobre, 2010 in Il territorio | No Comments »
Il sottosegretario agli Interni on. Alfredo MANTOVANO ha chiesto al Prefetto di Bari di convocare una riunione straordinaria del Comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico per lunedì 18 ottobre proprio a Toritto. Ciò a seguito del gravissimo episodio di sabato scorso quando in pieno centro cittadino è stato assassinato sotto gli occhi di tutti da un commando armato di pistole un giovane di 22 anni, morto poco dopo. L’iniziativa del sottosegretario Mantovano mira evidentemente a sottolineare la presenza dello Stato in una comunità che vive sgomenta gli ultimi accadimenti chefanno seguito ad altri, altrettanto inquietanti, che nel recente passato hanno scosso la antica tranquillità della nostra cittadina. Ci auguriamo che lo Stato sappia fornire l’adeguata testimonianza della sua presenza e della sua efficienza e non solo scovi e assicuri alla giustizia i componenti del commando ma anche i mandanti e quanti concorrono, talvolta con i loro comportamenti omertosi o anche con semplici ma altrettanto complici silenzi omissivi, a trasformare la nostra cittadina in una specie di far-west del 21° secolo. g.