Archivio per la categoria ‘Il territorio’

LE SPINE DI FINI

Pubblicato il 13 settembre, 2010 in Il territorio | No Comments »

In politica, si sa, bisogna spesso bluffare perché in politica le apparenze contano, eccome. Avete mai sentito un candidato, seppure condannato a sicura sconfitta da tutti i sondaggi, alzare bandiera bianca prima del voto? No. Fino a quando non sarà sconfitto dall’ufficialità dei numeri – «la proprietà dei numeri è la giustizia» annotava Pitagora – continuerà a dire con sicumera che è certo di vincere e che ha fiducia nel buon senso degli elettori. Non siamo ancora in campagna elettorale, ma di questi bluff in giro se ne vedono già parecchi. Tutti guardano a Silvio Berlusconi e al Pdl in questo momento, identificano nel presidente del Consiglio e nel partito di maggioranza il cratere dove si annidano i guai maggiori. Di converso, Gianfranco Fini e il suo Futuro e libertà godono di buona stampa fra molti osservatori e commentatori. Mentre la sinistra non è pervenuta, invischiata tanto per cambiare nei teatrini della «democrazia interna».

Proviamo allora a ragionare su Futuro e libertà, sgombrando subito il campo da un equivoco, direi un bluff, di fondo: si tratta di un partito. Non è, per intenderci, la «cosa» richiamata a più riprese dai malpancisti di sinistra che per anni si sono fatti del male alla ricerca di un’identità perduta. Futuro e libertà è, sottolineo, un partito. Che conta su gruppi parlamentari, che ha una struttura sul territorio con circoli e sedi, che può permettersi perfino un giornale (Il Secolo) vivo grazie ai fondi pubblici. E che, soprattutto, ha un progetto politico non più sovrapponibile a quello del Pdl ma su più punti autonomo e differente. Al massimo, quindi, Futuro e libertà è un lontano parente del Pdl, di certo non ne costituisce una costola.
È stato Fini a marcare la distanza, a scavare il fossato: sono stato «cacciato» dal partito che ho contribuito a fondare – così sostiene – e ho quindi dato vita obtorto collo a un nuovo soggetto politico. Il partito di Fini, allo stato, dovrebbe cavalcare quella che i sondaggisti definiscono la «good wave», l’onda buona. In realtà, nonostante l’enorme esposizione sui media, Futuro e libertà non solo non sfonda ma arranca nei consensi. E qui cominciano le spine di Fini, che molti preferiscono non vedere. A cominciare dall’eventualità delle elezioni, viste dal «resistente» della Camera come fumo negli occhi. Non per senso di responsabilità (altro bluff), ma per mero opportunismo. Chi si sente cacciato da un partito e rivendica una lunghissima storia politica dovrebbe correre verso le urne proprio in virtù della sua popolarità e sfidare sull’unico vero campo il nuovo nemico. Invece no. Agli elettori viene riproposto il balletto risibile della fedeltà al programma, condito però da un parossistico bignamino dei «non possumus» che di fatto ne mina le fondamenta. Certo, da Fini è tutto un sì: sul federalismo, sulla giustizia, sul welfare. A condizione, però, che si faccia secondo le idee di Futuro e libertà. Sempre pronto a rivendicare la nobiltà del confronto col Pdl ma al tempo stesso pronto a esercitare il ricatto del voto contrario se non venissero accolte le proprie tesi.
Non è un caso se Antonio Di Pietro cannoneggi Fini: lo fa proprio perché il giustizialismo e l’antiberlusconismo dei neoavanguardisti rischiano di fare breccia sul suo elettorato. La contraddizione, a questo punto, è evidente: coagulare consensi con una mostrificazione del Cavaliere – nei dibattiti come nei colloqui confidenziali con le procure – non sa forse di oltraggio a una storia comune anche se oggi rinnegata?
Di spina in spina, Fini sa di non potersela cavare con insulti (a proposito, l’Ordine dei giornalisti non ha nulla da dire?), sorrisi e battutine sulla casa di Monte-Carlo di proprietà di An, venduta a prezzo stracciato e finita in affitto «a sua insaputa» al cognato dopo disinvolte e ancora oscure giravolte societarie. E non è da uomo di stato appellarsi a un’inchiesta della magistratura chiamata a chiarire se ci sono risvolti penali. L’onore, la politica e la chiarezza verso gli elettori gli imporrebbero di affrontare la stampa e dare pubblicamente le risposte che mancano. Magari prendendo per un orecchio il cognato, sparito dalla circolazione fin dalle prime fasi della vicenda. Non lo farà, ovviamente. Perché, oltre al senso del pudore politico, dalle parti di casa Fini si fa fatica a rintracciare anche quello dell’onore. (DA PANORAMA)

CARO PRESIDENTE, FAI LA SVOLTA, di Mario Sechi

Pubblicato il 12 settembre, 2010 in Il territorio, Politica | No Comments »

Mario Sechi, direttore de Il Tempo, scrive oggi una lettera al Presidente Berlusconi sul Pdl. E propone: alla festa di Atreju mentre i finiani esultano e dicono che lei “è al tramonto”, spiazzi tutti,  rilanci il partito e dia più spazio ai giovani. Ecco il testo della lettera pubblocata sotto forma di editoriale sulla prima pagina del quotidiano romano, da sempre voce ed espressione dell’elettorato moderato della Capitale e di gran parte del centro-sud italiano.

Il premier Silvio Berlusconi Caro Presidente Berlusconi, lei oggi sarà l’ospite d’onore della festa di Atreju. È un appuntamento importante perché la manifestazione ha confermato di essere l’unica dove la politica – non il potere per il potere – è anima e passione. Prima di cominciare a parlare, guardi bene negli occhi quelle migliaia di giovani e si chieda. Cosa si attendono da un leader politico? Cosa sognano questi ragazzi? Cosa posso fare per loro? Cosa significa quella luce che vedo nelle loro pupille? Molti di loro quando lei nel 1994 scese in campo erano appena dei bambini. Non hanno il ricordo dei terribili anni di Tangentopoli, non possono scavare nella memoria per ritrovare le sue parole quando decise che si poteva e doveva provare a costruire «un miracolo italiano». Anche io in quegli anni ero molto giovane, ma avevo già cominciato a scrivere sui giornali. Superati da un bel po’ i 40 anni, mi impegno tutti i giorni per costruire qualcosa che resti a lungo, lasciare in eredità parole chiare, giornali ben fatti e, un domani, istituzioni culturali più forti e autorevoli.

Cultura, visione del mondo, classe dirigente per il futuro. Lei sa bene che in questa surreale estate in alcuni salotti si è deciso a tavolino di inaugurare la stagione del «dopo Berlusconi» e con essa cercare di liquidare il “berlusconismo” come fenomeno sociale. Ieri Italo Bocchino alla festa dell’Udc a Chianciano ci ha offerto un saggio di questo pensiero, dicendo che lei è «un’anomalia», che «il berlusconismo è alla fine» e dunque bisogna «rimettere in piedi il sistema» e che sta per arrivare la stagione di un modello politico «non più bipolare». Mi vengono i brividi al pensiero di quale sistema abbiano in mente. Pensano che una volta tolto di mezzo lei, il Cavaliere nero, si potrà fare tabula rasa di tutto quel che hanno significato questi sedici anni di storia italiana. Tasto reset e via. Questi poteri puntano dritti alla restaurazione. Prima Repubblica. Forse peggio perché senza partiti ben costruiti. Sarebbe un errore gigantesco e mi auguro non solo che prevalga la saggezza, ma che lei non si limiti alla ricerca del dato numerico, ai seggi necessari per neutralizzare la tenaglia finiana. Serve un progetto politico rafforzato che recuperi anche lo spirito originario, quello del 1994 e spenga ogni tentativo di cambio di regime senza legittimazione popolare. Caro Presidente, non basta «andare avanti», non è sufficiente salvare la legislatura e continuare a tenere in vita il governo. Serve di più, lasci perdere il dibattito tra «falchi» e «colombe», è l’ora di far volare qualche aquila con lo sguardo lunghissimo perché è giunto il momento di riconoscere alcuni errori, correggerli e dare un colpo d’ala.

Il Pdl nel giro di una settimana ha visto tre momenti importanti di formazione per i giovani: Atreju a Roma, la Summer School di Magna Carta a Frascati e la scuola di formazione politica di Gubbio. Non c’è altro partito che oggi faccia altrettanto. Ma dove finiscono poi questi giovani? Un leader politico – e lei lo è – ha il dovere di interrogarsi sul cosa ne sarà di quei giovani quando la sua avventura politica sarà terminata. Lei deve chiedersi: «Cosa lascio in eredità a questi ragazzi?». Sono certo che nel suo cuore conosce le risposte. Dietro di lei c’è un gruppetto di sessantenni che si spaccia per il nuovo ma mira solo a conquistare la poltrona, amministrare l’esistente e metabolizzare la sua uscita per poi gattopardescamente concludere che «bisogna che tutto cambi affinché tutto resti come prima». E invece bisogna cambiare. E per farlo occorre un coraggio da leoni.

Cambiare cosa? Migliorare la selezione della classe dirigente del suo partito, tanto per cominciare. Approfitti dello strappo di Fini, spinga il piede sull’acceleratore e faccia qualche nuovo innesto nel gruppo dirigente attuale. Metta in pista qualcuno dei trentenni e quarantenni. Nel partito ci sono. Gente in gamba che conosce l’economia, la politica, le potenzialità della società connessa. Gente che ha una visione del mondo più grande del proprio collegio elettorale o, peggio, tornaconto personale. Questo non significa accantonare l’esperienza di chi ha lavorato con lei finora, tutt’altro, l’esperienza è un valore, ma bisogna rigenerare il Pdl per rispondere ai “nuovisti” parolai con i fatti.

Renda incompatibili gli incarichi parlamentari e regionali con quelli nel partito. E apra un dibattito per proporre di regolare con una legge seria la vita dei partiti politici con primarie vere, non quelle burla del Pd che si vanta di esser democratico e non lo è.

Al lavoro nel partito deve affiancarsi una diversa presenza nelle istituzioni che fanno consenso e cultura. Lei sa benissimo che in quelle sedi gli intellettuali liberali sono visti come una minaccia, nelle case editrici - nelle sue in particolare, caro Cavaliere - chi seleziona i libri da leggere, i film da produrre, il materiale culturale che poi diventa anche e soprattutto idea politica, ha una visione delle cose lontana anni luce da quelle del mondo conservatore. Il partito della restaurazione, quello che sogna da sedici anni la sua fine, si alimenta di questa incapacità del centrodestra di cambiare marcia. Questo vale per la cultura, per l’economia, per la finanza, per l’apparato dello Stato dove i voltagabbana sono già pronti a cambiare casacca un’altra volta. S’è mai chiesto come mai nel grande sistema dei media – quello che detta davvero l’agenda politica – si parla un linguaggio che non è quello liberale? Ci faccia caso, tutto l’immaginario nazionale è costruito attorno a suggestioni che nulla hanno a che vedere con la società che lei rappresenta. I simboli e le parole della rivoluzione conservatrice sono stati sapientemente occultati in tutti questi anni. Si fa una gran fatica a parlarne e si viene spesso marginalizzati proprio nei contesti in cui si potrebbe dare testimonianza di una cultura diversa, alta e popolare nello stesso tempo, capace di interpretare questa fase della modernità. Pensi alla classe dirigente della Rai. Dov’è l’Italia moderata nelle idee di viale Mazzini? Quale voce ha la maggioranza silenziosa? Pensi ai manager di altre grandi aziende. Sono quasi tutti già appagati, arrivati e poco curiosi del mondo, mentre i più giovani e capaci sono emarginati. Se c’è qualcuno che ce l’ha fatta, è un’eccezione. Promuova una legge dove i mandati nei cda delle grandi aziende non sono rinnovabili per più di due volte. Faccia crescere i talenti giovani e chi ha avuto tutto dall’azienda si accomodi a fare il presidente onorario. Metta le università italiane di fronte al fatto che hanno mancato il loro compito, che i rettori sono in gran parte da cambiare, che molti di loro hanno letteralmente fatto «bancarotta». Apra alle agevolazioni fiscali per chi finanzia l’arte, la ricerca, lo studio. E lasci perdere le «tre i», è roba stravecchia dettata da cariatidi accademiche e ministeriali abbarbicate alla poltrona. I giovani in gamba queste cose le sanno già benissimo. Metta altre due parole nel programma e nel suo prossimo discorso in Parlamento: «C», come concorrenza di idee e «M», come meritocrazia. Sia lei la guida del «moderno» e lasci a Fini e ai suoi precari alleati la ragnatela e la polvere dell’antico partito novecentesco.

Solo così la sua egemonia elettorale si trasformerà in egemonia culturale. Per respingere l’assalto in corso e provare a costruire una prospettiva lunga, che va oltre il 2013, occorre che il suo consenso diventi qualcosa di diverso da una straordinaria macchina acchiappa-voti. Lei è già nella storia, ma quei ragazzi che ha davanti hanno bisogno di una guida per cominciare a scrivere la loro di storia. Non li lasci soli. Non si volti indietro. Lei ha il dovere di regalare loro un sogno. Lo realizzi.

IL PARTITO DI FINI E’ IL PARTITO DELLA SPESA

Pubblicato il 11 settembre, 2010 in Il territorio | No Comments »

A dispetto del nome scelto per il suo gruppo, Futuro e Libertà, Gianfranco Fini non ha affatto proposto per l’Italia ricette liberali. La sua, anzi, sarebbe una tipica dottrina assistenzialista, che costerebbe allo Stato ed ai contribuenti molti miliardi a fondo perduto. È l’opinione di due illustri editorialisti, Angelo Panebianco e Luca Ricolfi. Panebianco rinfaccia al presidente della Camera la formula assai vaga del «federalismo solidale». Fini gli ha risposto sollecitando «Meccanismi di perequazione in grado, se gestiti a livello centrale in modo imparziale, di ridurre il divario tra le aree del Paese». Con il che i dubbi di Panebianco sono aumentati. Quanto a Ricolfi, sociologo della sinistra illuminata, va oltre. Accusa Fini di voler fare «un partito sudista-assistenzialista». E aggiunge: «Se si va alla sostanza, ossia alla politica economica, è il partito di Fini che soccombe nettamente». Insomma, come già avevamo scritto due giorni fa, dal comizio di Mirabello è assente una seria proposta economica. E quella che c’è costerebbe ai contribuenti, compresi quelli del Centro-Sud dei quali Fini si dice paladino, parecchi miliardi, senza nessun vero impegno alla responsabilità di chi maneggia il denaro pubblico. Vediamo punto per punto. Cominciando proprio dal «federalismo solidale». Di che si tratta? Fini non lo dice. Eppure è insediata da tempo una commissione parlamentare bipartisan sull’attuazione delle deleghe per il federalismo nella quale siede un senatore finiano: l’economista Mario Baldassarri. Peccato che Fini citi questa importante presenza solo per ricordare che il voto di Baldassarri «è determinante».
Diversamente avrebbe verificato, magari con l’ausilio di Baldassarri, che l’abbandono del meccanismo dei costi storici per la sanità (ad ogni regione si dà in base a quanto ha speso finora) a favore dei costi standard (cioè l’individuazione di benchmark virtuosi) non è drammaticamente punitiva per il Sud. E soprattutto non ha colore politico. In commissione ci sono tre ipotesi: della Corte dei conti, di un gruppo di tecnici di area Pd, e del Centro studi Sintesi, anch’esso vicino al Partito democratico. Nel primo caso il benchmark sarebbe costituito dalle quattro regioni con il miglior rapporto tra costi e prestazioni: Lombardia, Veneto, Emilia e Toscana. Nel secondo si aggiungerebbero i differenti oneri territoriali per ricoveri e farmaci. Nel terzo si terrebbe anche conto di gruppi di regioni di dimensioni omogenee. Tralasciando le tecnicalità, con il primo criterio avremmo un risparmio complessivo di 2,3 miliardi l’anno, con il secondo di 4,4, con il terzo di 8,3. Chi guadagnerebbe e chi perderebbe? C’è una sola regione che dovrebbe seriamente ridimensionarsi in tutte e tre le ipotesi, ed è il Lazio, a causa del poco invidiabile record di debito di 10,7 miliardi. Il suo sistema sanitario dovrebbe rinunciare rispettivamente a 1,6 miliardi, 1,4 e 2,9. Con la proposta della Corte dei conti i beneficiari sarebbero Lombardia, Toscana, Umbria, Marche e Basilicata. Al Sud, ci rimetterebbe di più la Campania (291 milioni); più o meno quanto, però, Piemonte e Veneto. Per tutte le altre regioni si tratterebbe di aggiustamenti dell’ordine di decine di milioni, tanto al Settentrione quanto al Meridione.
Con la prima ipotesi di area Pd, a guadagnarci sarebbero Toscana ed Emilia, a perderci – oltre al Lazio, soprattutto Campania e Lombardia. Puglia a Calabria vedrebbero le proprie risorse ridotte meno di Veneto e Liguria. L’altra soluzione «piddina» costerebbe parecchio all’Emilia, molto a Piemonte e Liguria, abbastanza alla Calabria e zero ad Abruzzo, Campania, Puglia e Basilicata. Dunque di quale federalismo solidale sta allora parlando Fini? Conosce le ipotesi sul tappeto? A meno che non voglia lasciare la sanità regionale così come è: in questo caso la sua «ricetta» costerebbe 28,4 miliardi di euro. A tanto ammontano i debiti cumulati dalle regioni, tra i quali oltre al Lazio spiccano la Campania (6,3 miliardi), la Sicilia (3,6), la Puglia (1,4), la Sardegna (1,2) e la Liguria (1,1): per fermarci a chi ne ha per oltre un miliardo. Fini, però, non può ignorare che tre regioni – Lombardia, Friuli e Alto Adige – danno ai cittadini più di quanto costano, e che sull’altro fronte quattro – Lazio, Campania, Calabria e Molise – dovranno da quest’anno imporre nuove addizionali Irpef e Irap. Vogliamo andare avanti così, in attesa del federalismo solidale? Proseguiamo. L’altra proposta di Fini è di introdurre subito il quoziente familiare per le tasse, cioè la riduzione dell’imposta sul reddito in rapporto a coniuge, figli e genitori a carico. Nulla da obiettare come principio; tra l’altro è anche uno dei cinque punti programmatici di Silvio Berlusconi.
Ma il leader di Futuro e libertà ha un’idea dei costi? Anche qui farebbe bene a leggersi se non le stime di Giulio Tremonti, del quale magari diffida, della Corte dei conti: a seconda che si introduca un quoziente familiare secco (divisione dell’imponibile per numero di persone a carico) o corretto con vari coefficienti, e che si mantengano o meno le detrazioni d’imposta, il costo annuo oscilla fra i 3 ed i 12 miliardi. Fini sa dove trovare queste risorse (e aggiungiamo: lo sa il Cavaliere?). Andiamo avanti. Il presidente della Camera ha proposto «un nuovo patto tra capitale e lavoro». Ma che significa? Il nuovo patto lo stanno già scrivendo – per fortuna lontano dalla politica – Sergio Marchionne, i sindacati riformisti e, più o meno obtorto collo, la Confindustria e la Federmeccanica. È materia di queste ore. Oppure Fini ha nostalgia dei maxi tavoli concertativi, o magari corporativi? Ancora. Chiede che fine ha fatto l’abolizione delle province. Sacrosanto. Peccato che nei novanta emendamenti presentati a maggio dai parlamentari finiani alla manovra economica ce ne sia uno che esclude proprio il taglio delle province, «in quanto necessiterebbe di una modifica costituzionale e non porterebbe risparmi significativi». Nello stesso pacchetto di proposte si chiede anche il mantenimento di alcuni enti da tagliare, tra i quali svetta l’Isae, per il quale si è particolarmente speso Baldassarri.
Ma non è finita. Gli emendamenti dei finiani proponevano anche di cancellare la facoltà per il comune di Roma di imporre la tassa di soggiorno (in cambio, 300 milioni), nonché la norma che ha alzato la soglia per ottenere l’assegno di invalidità. Eppure il costo per lo Stato di queste pensioni è passato in sette anni da 6 a 16 miliardi. Infine: Baldassarri, monetarista assai apprezzato ed oggi principale consigliere economico del presidente della Camera, è autore, un anno fa, di una «controfinanziaria» da 35 miliardi. Per l’esattezza, 15 di minori tasse alle famiglie con aumento delle deduzioni (e il quoziente familiare?), 12 alle imprese, cinque di investimenti in infrastrutture, e tre fra difesa, sicurezza e ricerca. E la copertura? «Trentacinque miliardi da tagliare tra acquisti delle pubbliche amministrazioni e contributi a fondo perduto». Come dire: magari ce lo potessimo permettere. Magari l’Europa accettasse sgravi fiscali subito in cambio di tagli di spesa sulla carta. E a proposito d’Europa: allora Baldassarri era contrario all’innalzamento dell’età pensionabile, una riforma realizzata invece dal governo parificando l’età di pensione tra uomini e donne nel pubblico impiego (richiesta ultimativa dell’Unione europea) e collegando l’età pensionabile all’allungamento delle prospettive di vita. L’idea di Baldassarri era che «l’allungamento dell’eta pensionabile deve andare in parallelo con gli ammortizzatori sociali». Ma in tutti questi anni non si è riportata in equilibrio la previdenza separandola dalla cassa integrazione? Ovviamente tutte le opinioni meritano rispetto, a cominciare da quelle di Mario Baldassarri. Un po’ meno credibile risulta invece Gianfranco Fini nei panni di custode «liberale» dell’economia. Se solo applicassimo le sue ricette su fisco, invalidità e federalismo solidale tireremmo fuori ogni anno dai 10 ai 50 miliardi: a spanne, si intende.

BUONE DOMANDE, PESSIME RISPOSTE, di Mario Sechi

Pubblicato il 8 settembre, 2010 in Il territorio | No Comments »

Il caso Fini non è chiuso e, sinceramente, non mi aspettavo che la vicenda politica svoltasse con un’intervista televisiva. Enrico Mentana ha svolto fino in fondo il suo lavoro (complimenti), ha posto le domande giuste e Fini ha seguito un copione già scritto in altra sede, senza mai uscire dal binario che sta percorrendo da settimane: 1. non rispondere con chiarezza al quesito del come mai il cognato Giancarlo Tulliani aveva in affitto una casa a Montecarlo ereditata da An e venduta a una società off-shore; 2. ribadire che il Pdl non c’è più, che è stato cacciato dal partito, che il suo nuovo partito non esiste, ma il gruppo parlamentare di Futuro e Libertà è pronto alle elezioni.

Buone domande, pessime risposte. Una sola cosa è chiara: vuole cucinare Berlusconi a fuoco lento e poi mangiarlo. Fini gioca una partita a scacchi pericolosissima per le istituzioni. È il capo di una fazione che si prepara a scatenare la guerriglia parlamentare nel Parlamento guidato da Fini. Questa situazione è destinata naturalmente a produrre un cortocircuito. Sarebbe da evitare, per il bene di tutti, ma né il Pdl né Fini molleranno il colpo. Il leader di Fli ha detto in diretta che è sua intenzione restare sullo scranno più alto di Montecitorio, ma mascherare dietro il formalismo giuridico della Costituzione e del regolamento della Camera, una situazione politica molto grave, non aiuterà nessuno a risolvere un problema che non è neppure nella disponibilità del Capo dello Stato. Con Giorgio Napolitano Silvio Berlusconi e Umberto Bossi hanno il diritto e il dovere di parlare della situazione di stallo che si sta creando. Ma la soluzione arriverà dal gioco parlamentare. Gioco duro.

Fini continua la sua corsa verso un territorio sconosciuto. Credo che neanche lui abbia le idee chiarissime, ma quando si tratta di giocare con le armi della tattica è un politico abile. Fini viaggia verso una terra di mezzo nella quale prima o poi si troverà con due scenari possibili: dover accettare la prospettiva delle elezioni anticipate e rischiare il tutto per tutto; oppure stare alla finestra, costringere il governo a trattative estenuanti – concedendo e ostacolando qua e là – in attesa di una crisi pilotata che porti al varo di un governo d’emergenza pronto a riscrivere la legge elettorale e consentire la sopravvivenza del cespuglio nascente di Futuro e Libertà. Non ci sono altre strade possibili. Non esistono condizioni praticabili per far andare avanti la legislatura con un partner così desideroso di consumare una vendetta anche personale su Berlusconi.

Il fattore emotivo in questa storia ha un peso enorme e influenza le scelte dei leader in maniera decisiva: tra i due contendenti, quello che oggi appare più determinato «a dare una lezione» all’avversario è Fini. Anche ieri in diretta ne abbiamo avuto un saggio: sarcasmo totale, viso tirato, quando Mentana ha correttamente toccato il tema della casa a Montecarlo il presidente della Camera è diventato guardingo, diffidente, l’espressione è mutata e il sorriso è diventato una forzatura. Tutto umano, troppo umano per non avere conseguenze sulla lucidità delle scelte politiche. Sul caso Montecarlo/Tulliani un leader di partito (che ci sia o meno, Fini si comporta come tale) dovrebbe dare spiegazioni puntuali. Anche ieri, quando Mentana gli ha chiesto come mai il cognato avesse un contratto d’affitto in una casa che fu di An, Fini ha svicolato, una saponetta. Non si può liquidare una faccenda del genere con uno sbrigativo «fa ridere». Se facesse ridere, Fini non avrebbe avuto bisogno di fissare dei paletti con il suo avvocato prima di parlare e soprattutto arricchirebbe la sua nota in otto punti di qualche settimana fa con qualcosa di più concreto. Su questa vicenda aleggia una nebulosa gigantesca e le domande che tutti i giornali – sottolineo tutti – hanno posto restano inevase. Fini dà ordine al senatore Francesco Pontone di vendere la casa di Montecarlo a una società off-shore (chi c’è dietro il trust?) e il cognatino in Ferrari ci casca dentro per un caso della storia. Chi ci crede, scriva subito a Babbo Natale per ricevere un regalo simile e far parte del club dei miracolati del Principato. Il tema non è giudiziario, ma politico: gli amici o i parenti che ottengono vantaggi (o la casa a Montecarlo è una scomodità?) attraverso la politica possono e debbono essere sottoposti al giudizio della stampa e della pubblica opinione.

Fini ha tutto il diritto di dar vita a una sua creatura politica, può rompere l’alleanza e motivare le sue scelte di fronte agli elettori, può perfino contestare in maniera surreale i diciasette anni di collaborazione (e voti di qualsiasi legge) con Berlusconi, ma nel presentare la sua nuova avventura sta commettendo un peccato di superbia che da un politico della sua esperienza e levatura non mi sarei mai aspettato: s’è messo sul piedistallo, nella posizione di un intoccabile, un politico che non tollera le critiche della stampa, non riconosce nessuno dei suoi errori, non fa un’autocritica seria e puntuale sulla sua partecipazione ambigua e poco convinta alla fondazione del Pdl, non ricorda come fu gestito da lui in persona un partito come An, non spiega agli elettori perché la destra del «Dio, Patria e Famiglia» ora per lui non ha alcuna importanza ed è persino un evidente fastidio. La sua traiettoria non è quella di un alleato che vuol concorrere all’azione di governo, ma quella di un asteroide in piena rotta di collisione con il Pdl, il pianeta più grande. E può distruggerlo. (O rimanere distrutto….).

LA STAMPA LIBERA NON E’ INFAME, MAI

Pubblicato il 7 settembre, 2010 in Il territorio | No Comments »

di Mario Sechi, direttore de Il Tempo
Fini a Mirabello ha usato un’iperbole tragicamente infelice che mostra in tutto il suo distacco dalla realtà e lo scarso senso dell’istituzione che rappresenta. Quella parola, “infami”, è un sasso che rotea furiosamente in aria in cerca di un bersaglio da far cadere.
Gianfranco Fini “… il presidente della Camera ha un’unica strada per sfuggire a questa guerra mortale, una strada che coincide coi suoi doveri verso la pubblica opinione. È la strada della chiarezza e della trasparenza. Dopo avere detto la sua verità sull’affare Montecarlo, deve pretendere la verità da Giancarlo Tulliani, intermediario e beneficiario della vendita. Fini chieda a Tulliani di rivelare i nomi e i cognomi degli acquirenti e le condizioni dell’affitto. Questo per rispondere al sospetto, ogni giorno più pesante, che Tulliani abbia intermediato per se stesso, dietro il paravento offshore. Solo così si potrà accertare definitivamente che la “famiglia” venditrice non è anche la “famiglia” acquirente».

La Repubblica, 11 agosto 2010.
***
Come si è verificata l’«inspiegabile coincidenza» (il copyright è sempre di Francesco Pontone, uno degli amministratori dei beni di Alleanza nazionale) dell’appartamento di Boulevard Princesse Charlotte abitato, alla fine della girandola delle società offshore, dal fratello della compagna dell’onorevole Fini, Giancarlo Tulliani?
Corriere della Sera, 8 agosto 2010.

***
«Infami». Gianfranco Fini ha liquidato le notizie pubblicate da tutta la stampa italiana sul caso Montecarlo con una serie di roboanti dichiarazioni, una delle quali è infelice: «C’è stato il tentativo di dar vita ad un’autentica lapidazione di tipo islamico contro la mia famiglia». Mentre Fini era sul palco di Mirabello e la sua signora Elisabetta Tulliani stava in prima fila ad ascoltarlo, in Iran una donna, Sakineh, veniva colpita con 99 frustate e rischia la lapidazione.

Fini ha usato un’iperbole tragicamente infelice che mostra in tutto il suo distacco dalla realtà e lo scarso senso dell’istituzione che rappresenta. Quella parola, «infami», è un sasso che rotea furiosamente in aria in cerca di un bersaglio da far cadere. Lo afferro al volo. Non lo rilancio, lo poso per terra e cerco di spiegare a Fini, ammesso che voglia comprendere, che cosa è la libera stampa in Occidente.

I quotidiani ancora oggi contribuiscono in maniera decisiva a fare e disfare l’agenda del Paese. Non c’è niente di male in tutto questo, perché questa tessitura continua è frutto della loro libertà di pubblicare quelle che si chiamano «notizie». A differenza dei telegiornali e della tv in generale, la carta stampata costituisce ancora oggi la guida per il pubblico più informato, colto, attento alle evoluzioni della nostra società. Questo accade in tutte le democrazie e assicura, piaccia o meno, l’emergere dei contrapposti interessi che cercano spazio nell’arena del dibattito pubblico. Non c’è leader politico che non sia sottoposto a uno scrutinio severo delle sue azioni. Ogni sua parola viene analizzata, interpretata, enfatizzata o ridimensionata a seconda dei punti di vista della stampa, della forza della notizia, del contesto in cui tutto questo accade. Fini, che dice di sentirsi una persona libera e democratica, di tutto questo dovrebbe alla fine esser contento. Ma come spesso accade ai potenti, ne è felice solo e soltanto quando questa libertà della stampa viene esercitata sugli altri, non su di lui e chi gli sta accanto.

Barack Obama, presidente degli Stati Uniti, non muove passo senza che la stampa lo sottoponga al suo giudizio. Non solo i suoi atti presidenziali, ma la sua vita familiare è oggetto di discussione, plauso, contestazione da parte dei media e dell’opinione pubblica. Il nuovo arredamento dello Studio Ovale alla Casa Bianca, tanto per citare l’ultimo caso, è finito nel mirino di Washington Post e New York Times (i giornali blasonati dell’informazione a stelle e strisce) perché in tempi di crisi il Presidente non deve spendere soldi in mobili nuovi e, per soprammercato, comprare un tappeto con una citazione sbagliata di Martin Luther King. Le vacanze della First Lady, Michelle, in Spagna sono state un continuo investigare dei giornali sul costo sostenuto, sullo stile più o meno «presidenziale» e via discorrendo. La stampa assolve questo compito da qualche secolo. E bene o male, funziona. In America tutto nasce nel lontano 5 agosto 1735, quando l’editore del New York Weeekly, John Peter Zenger, viene chiamato in tribunale dal governatore coloniale di New York Cosby, oggetto di una serie di articoli satirici. Cosby vuole sapere il nome di chi scriveva gli articoli contro di lui. Zenger finisce in gattabuia ma non spiffera un fico secco ai magistrati. Dopo otto mesi di prigione, Zenger viene processato e il suo avvocato Andrew Hamilton strappa un verdetto storico alla giuria: pubblicare la «verità» non è un atto di sedizione. Per questo la libertà di stampa in America è tutelata dal primo emendamento. Cosa avrebbero scritto i quotidiani americani se Obama fosse stato pizzicato con un cognato in affitto in una casa ereditata dal Partito Democratico e poi rivenduta a una società off-shore nelle Piccole Antille? E se il cognato di Obama viaggiasse su una Ferrari 458 Italia mentre gli americani tirano la cinghia cosa avrebbero scritto gli editorialisti yankee? Altro che «infamie», saremmo stati testimoni di una campagna di stampa planetaria. E come si sarebbe comportato Obama? Un presidente negli Stati Uniti ha due strade possibili: 1. convoca una conferenza stampa e chiarisce tutto; 2. convoca una conferenza stampa e si dimette. Due scenari con un unico punto fermo: è alla stampa e per suo tramite agli elettori che i leader politici rispondono in prima battuta.

E veniamo alla «famiglia» evocata con gran batticuore da Fini. Ho grande rispetto per Elisabetta Tulliani che a mio avviso in questa vicenda è la persona che ha mostrato più carattere e coraggio. Ma non si può invocare la privacy quando si decide di scendere sul palcoscenico. È la stessa Elisabetta ad aver più volte deciso di apparire nella scena mediatica, è lei di fatto ad aver pronunciato il «go public» che ti fa passare dall’anonimato alla fama. Era o non era la signora Tulliani in prima fila ad ascoltare il discorso del suo uomo a Mirabello? Ci sono donne che hanno la ventura di stare al fianco di un uomo politico ma decidono di restare nell’ombra. È un altro tipo di scelta, simmetricamente opposta a quella di Elisabetta. È stata o non è stata la famiglia Tulliani a chiedere un servizio fotografico posato per il settimanale Oggi? Era un caso? O volevano farsi celebrare su un giornale letto dalla borghesia italiana? Volersi mostrare e dimostrare il proprio prestigio, significa svelarsi, concedersi e nello stesso tempo correre il rischio di essere svelato. È un gioco che porta fama e dà piacere al narciso che c’è in ognuno di noi, ma se decidi di esporti sotto il riflettore della luce pubblica, se sei un politico che amministra il Paese, se sei la donna che lo accompagna nella sua avventura, poi devi sapere che rischi di essere illuminato anche quando non lo hai deciso tu. Nel bene e nel male.

…..Sin qui Sechi. Noi avevamo già sottolineato, di nostro, l’infelice richiamo di Fini alla  presunta “lapidazione” della sua famiglia proprio quando in Iran una donna rischia davvero di essere lapidata; l’editoriale di Mario Sechi stigmatizza la totale assenza in Fini del senso della misura e della scarsa conoscenza della materia su cui da tempo ama discettare: l’etica e la democrazia. In democrazia la stampa  non è infame, mai, come dimostra Sechi con i riferimenti alle recenti campagne della stampa americana nei confronti di Obama, che è Obama!, e della sua famiglia. Quanto all’etica, se lo ficchi nella testa Fini, non è quella che fa comodo,  ma è quella cui deve sempre ispirarsi l’azione dell’uomo pubblico. Non ci sembra che proprio che Fini possa dare lezioni a chicchessia: prima spieghi gli affari suoi, della sua famiglia e del cognato e poi, eventualmente, concioni pure sull’etica. Dubitiamo, però, che dopo aver detto la verità su Montecarlo e dintorni, Fini possa ancora occuparsi di etica. g.

MIRABELLO, LA CRONACA DELLE COMICHE FINALI DELL’ON. FINI

Pubblicato il 6 settembre, 2010 in Il territorio | No Comments »

di Stefano Filippi (Il Giornale)

Gianfranco Fini ha finito il Pdl. Un’esecuzione la cui eco è risuonata per un’ora e mezzo, tanto è durato il discorso di Mirabello. Il Pdl non c’è più, per il presidente della Camera esiste soltanto il «partito del predellino», cioè Forza Italia più «colonnelli e capitani di An che hanno scelto di cambiare generale». Futuro e libertà va avanti, tira dritto e non rientrerà in ciò che non c’è più, «è una legge della fisica». Le parole «nuovo partito» non sono state pronunciate, ma sono il filo rosso della parabola finiana avviata ieri, ormai è solo questione di tempo. Il nuovo ancora non c’è, ma il vecchio è sotto terra. Sulla casa di Montecarlo, nemmeno una parola.

Per la durata e la quantità degli argomenti, il comizio di fatto apre una lunghissima campagna elettorale. E si condensa nei toni contro Silvio Berlusconi e il Pdl. Toni astiosi, pesanti, carichi di veleno e rancore; parole che lanciano una sfida sfacciata. Il pokerista Fini scommette sul fatto che Pdl e Lega non forzeranno verso le elezioni anticipate. Berlusconi è un pragmatico, sibila Fini, e metterà da parte l’ostracismo. «È inutile che dica: facciano ciò che vogliono. Perché lo faremo». Così chiede un nuovo patto di legislatura a tre «nell’interesse di tutti» (principalmente suo!), e lo fa spietatamente, sfregiando a sangue Berlusconi, il governo, i ministri, il programma, il suo passato.

Il numero uno della Camera ricostruisce a modo suo gli ultimi mesi. Definisce «diritto di critica» le palate di fango da lui gettate sul Pdl dopo le elezioni del 2008, mentre l’ufficio politico del partito del 29 luglio scorso che lo ritiene «incompatibile» ha adottato un provvedimento «stalinista», un atto «illiberale e autoritario indegno del partito dell’amore». «Sono stato cacciato in una riunione di due ore alla quale ero assente – ha detto Fini – da un partito che non tollera discussioni interne».

L’elenco dei punti di dissenso è interminabile. Il federalismo fiscale, i cui costi non sono stati determinati. Il contrasto all’immigrazione clandestina «che deve comprendere anche l’integrazione». Il garantismo «che non può essere considerato impunità permanente». La considerazione della magistratura, «caposaldo della democrazia e presidio di ogni forma di legalità». L’idea di partito nazionale «non appiattito sulle posizioni di un alleato con base regionale». Il legame con i valori dell’Occidente, sbugiardati «dalla genuflessione indecorosa offerto nell’accogliere personaggi che non possono insegnarci nulla». Alla mitragliata su Gheddafi la platea scatta all’impiedi per una delle tante ovazioni.

Non è finita. «Le istituzioni hanno il dovere di rispettare le altre istituzioni, a partire dal capo dello Stato». «Il Parlamento non è una dependance di Palazzo Chigi». «Governare non significa comandare». «Non sono state fatte le grandi riforme che il Pdl aveva promesso». «Non è stato introdotto il merito». Fini non salva nulla di questi due anni e mezzo di governo, neppure il giorno dopo la mano tesa di Berlusconi sul processo breve. Anche gli unici timidi complimenti sulle misure anticrisi sono accompagnati da un «ma» che li stronca: paghiamo poco gli operai, non sosteniamo le famiglie, i giovani, i disoccupati. Ok al federalismo «ma nell’interesse di tutti». Ok allo scudo per il premier «ma niente leggi ad personam». Basta aggiungere la parola «fogna», e sarebbe un discorso confezionato su misura per Pierluigi Bersani. Fin qui la ricostruzione finiana. E per l’avvenire? Assodato che «il 29 luglio è stato compiuto un atto lesivo delle ragioni stesse del partito», «Futuro e libertà non rientrerà in ciò che non c’è più». Peccato non abbia chiarito se gli uomini di Fli che ricoprono incarichi nel Pdl si dimetteranno dall’inesistente o resteranno sulle poltrone, inscenando l’ennesima pantomima sul «chi ha cacciato chi». Si va avanti, ripete Fini una decina di volte, con disprezzo sempre crescente: «Non ci ritiriamo in convento né andiamo raminghi in attesa del perdono. I nostri parlamentari non possono essere trattati come clienti della Standa, che guadagnano il premio fedeltà frequentando il supermercato».

Ce n’è anche per il Giornale. Nessun chiarimento su Montecarlo, in compenso una scarica di insulti. Fini la prende da lontano, attaccando i Tg «che salvo rare eccezioni sono fotocopie dei fogli d’ordine del Pdl». Poi l’affondo. «Non ci faremo intimidire dal “metodo Boffo” messo in campo da alcuni giornali che dovrebbero essere il biglietto da visita del partito dell’amore. Hanno scatenato campagne paranoiche perché hanno superato la decenza, e patetiche in quanto non si rendono conto del disprezzo che suscitano. Attendiamo fiduciosi e sereni che sia la magistratura a chiarire chi e quanto ha diffamato, calunniato, insultato; chi è stato sottoposto a una lapidazione di tipo islamico con un atteggiamento infame perché rivolto alla mia famiglia».

Avanti, è la nuova parola d’ordine finiana che coincide con uno slogan socialista. Futuro e libertà è il vero Pdl perché chi ha tradito è stato Berlusconi. Nonostante tutto ciò, il sostegno al governo non mancherà. Fini farà in modo che l’esecutivo fellone e incapace duri fino al termine naturale della legislatura, «senza cambi di campo, ribaltoni o ribaltini: eliminiamo i sospetti che vogliamo portare altrove i nostri voti. Siamo e resteremo nel centrodestra per onorare il patto con gli elettori, nel rispetto del programma e senza farne uno nuovo». Fli voterà i cinque punti ma vuole discuterne i contenuti «con spirito costruttivo». E ne aggiunge altrettanti. Una diversa legge elettorale («Vergognose le liste prendere o lasciare»). Il ministro dello Sviluppo economico («Quale Paese se ne priva tanto a lungo?»). Il quoziente familiare «anche con l’opposizione: se hanno buone idee, e quelle di Casini lo sono, un governo deve accoglierle». E le buone idee del governo? Quelle no, per Fini proprio non ce ne sono.

LE PALE EOLICHE INVADONO LA MURGIA

Pubblicato il 3 settembre, 2010 in Il territorio | No Comments »

di Leonardo Maggio (La Gazzetta del Mezzogiorno)

Settantaquattro pale eoliche nella bassa murgia. Lancia l’allarme Maria Teresa Capozza, portavoce del comitato «Pro Ambiente» di Palo. Dice: «Con il progetto Enel di un parco eolico in contrada pezza Rossa, sul territorio circostante potrebbero sorgere settantaquattro aerogeneratori, poiché quindici sono già stati autorizzate dalla Regione a Toritto e 6 a Grumo Appula mentre sono in fase di autorizzazione altri quindici in agro di Mariotto, molto vicini a Pezza Rossa. Il tutto insiste sulla bassa murgia, l’unico spazio verde rimasto per respirare un po’ di tranquillità e aria buona».

Il comitato Pro Ambiente, il Circolo di Sinistra e libertà e il movimento Insieme per Palo, preparano la contromossa e inviano in zona cesarini, una serie di osservazioni sulla proposta di parco eolico con 36 aerogeneratori della potenza massima unitaria pari a duemila kw e potenza elettrica installabile di settantadue mw. Secondo le tre associazioni, infatti, «il Comune di Palo non è dotato di un piano regolatore degli impianti eolici (Prie) e, perciò, non è possibile autorizzare impianti sul territorio palese. Inoltre, il progetto deve essere sottoposto a valutazione di impatto ambientale; devono essere riaperti i termini di presentazione delle osservazioni per violazione del decreto legislativo 152/2006; approfondite le analisi sui rumori; esaminati gli aspetti paesaggistici e fornite simulazioni fotografiche più significative. Inoltre – ribadiscono le associazioni – è necessario che le autorità competenti valutino gli effetti sul paesaggio, in un ottica che tenga conto anche degli impianti eolici autorizzati nei comuni circostanti».

Intanto, si apprende che i mulini eolociipotrebbero essere più di trentasei, poiché altri due aerogeneratori di potenza unitaria pari a duemila kw e per una potenza nominale complessiva di impianto pari a quattro mw, potrebbero essere realizzati nelle campagne di località Mangiaquero, nel bel mezzo di contrada Pezza Rossa. Spunta, infatti, una delibera di consiglio comunale, la n. 10 del 31 marzo 2010, avente ad oggetto la «proposta di realizzazione di impianto di produzione di energia rinnovabile da fonte eolica».

Si apprende così, che ancor prima di Enel, già il 17 aprile 2007, con numero di protocollo 6693, la società «Decos srl», presentatava al Comune di Palo del Colle una prima proposta per la realizzazione di un impianto eolico. Per questo, il consiglio comunale, a stretto giro di maggioranza Pd-PdL, approvava uno schema di convenzione con la «Decos» che riconoscesse alle casse comunali un corrispettivo annuo a titolo di compensazione ambientale del 2% sui ricavi rivenienti dalla vendita dell’energia elettrica e nella percentuale del 2% sui ricavi rinvenienti dalla vendita sul libero mercato dei certificati verdi.

P.S. Mentre a Palo del Colle, Sinistra e Libertà si batte contro le pale eoliche dietro le quali, spesso,  si nascondono affari e cattiva gestione del territorio, a Bari, il gran capo Vendola fa finta d niente e a Toritto i rappresentanti locali di Sinistra e Libertà non aprono bocca e, anzi,hanno detto   si al raddoppio delle pale nel territorio di Toritto,  quelle che i “compagni” di Palo sostengono che distruggono il paesaggio e inquinanao l’aria buona della Murgia.

NAPOLITANO, COSSIGA, FINI

Pubblicato il 13 agosto, 2010 in Il territorio | No Comments »

Napolitano.

E’ il presidente della Repubblica che come è noto rappresenta tutti. Ma proprio tutti? Parrebbe di no dopo la tanto attesa (da parte di alcuni, leggi l’opposizione) esternazione dell’on. Napolitano di ritorno da Stromboli dove ha trascorso beatamente qualche giorno di relax. Cosa ha detto Napolitano di ritorno da Stromboli ? Ha detto che la situazione è grave ( e lo sapevamo tutti) e che un eventuale vuoto di potere (leggi voto anticipato) potrebbe provocare danni al Paese. Questo è possibile, forse anche probabile ma votare, d’altra parte,  e Napolitano dovrebbe saperlo, è la migliore e più classica manifestazione della democrazia. Non quella popolare un tempo, come è noto,  molto cara all’on. Napolitano, ma quella anglosassone che in Tocqueville ha il suo apostolo. Cioè la democrazia che vede sovrano solo e soltanto il popolo, ancor più in una democrazia che ha scelto di essere bipolare e che quindi non può consentirsi governi espressione non del popolo,  ma dei bizantinismi opportunistici di chi del popolo se ne impipa. Al PDL e alla Lega le parole di Napolitano sono sembrate una sorta di anticipata  e inconsueta manifestazione della sua contrarietà al voto anticipato (che sinora nessuno ha formalmente richiesto) e quindi di abdicazione al suo ruolo di super partes che la Costituzione gli affida e all’obbligo di attenersi alla indicazione delle forze politiche. A rafforzare  questa osservazione ha contribuito anche il fatto che Napolitano non abbia scelto per le sue esternazioni una testata giornalistica almeno a parole autorevole ma neutra, il Corriere della Sera, la Stampa, e abbia scelto invece il giornale del suo ex partito, il PCI, cioè L’Unità, organo di parte la cui direttrice, la signora DiGregorio, sforna editoriali antigovernativi un giorno si e l’altro pure.  Ecco, vista così, il presidente Napolitano ha contribuito, di certo senza volerlo, ma ci è riuscito benissimo,  a far salire la tensione  fra i partiti che invece voleva che si abbassasse. Nè ha contribuito ad abbassare i toni il suo “invito” a bloccare gli attacchi al presidente della Camera. Il presidente della Camera  (l’attuale) non è più solo una figura istituzionale, è ormai formalmente  un capopartito che ha trasformato la presidenza della Camera in una sede di partito ed ha abdicato nella forma e nella sostanza al suo ruolo di terzietà impostogli dalla Costituzione. E quando si è parte e non arbitro non ci si può sottrarre alle conseguenze che sono gli attacchi che in politica sono riservati a tutti. Anzi, piuttosto  ci si aspettava che il presidente della Repubblica ricordasse a Fini, nei modi che avrebbe ritenuto più giusti, pubblici o privati, formali o meno,  quali sono i suoi doveri cui è venuto meno. E comuqnue, ove pure voglia leggersi il suo  invito nel modo più bonario possibile, rimane una domanda: se a Napolitano stanno a cuore, come afferma, le istituzioni nei cui confronti invita al rispetto, perchè mai lo stesso Napolitano non ha avvertito uguale bisogno di rivolgere medesimo appello quando sotto schiaffo è  stato ed è il presidente del Consiglio, anch’egli Istituzione, per di più, a differenza di Fini e anche dello stesso Napolitano, espressione diretta della volontà popolare? g.

Cossiga

Le condizioni di salute dell’ex presidente della Repubblica sono in netto miglioramento. Avranno contribuito a migliorarne le condizioni anche gli auguri di “buona agonia”  rivoltigli da anarchici, radicali,ex terroristi, e quant’altri come loro,  riuniti sotto le finestre dell’ospedale  sotto  un grande striscione. Si sa che augurare la morte allunga la vita. Non lo sanno gli sciacalli che sono stati sempre i  nemici dello Stato contro i quali Cossiga si è battuto tutta  la vita. Speriamo che presto il  presidente Cossiga, il picconatore contro il quale i comunisti e i sinistri di ogni risma lanciarono una furibonda battaglia sino a chiederne il defenestramento utilizzando spregiudicatamente tutti i mezzi possibili, possa riprendersi e tornare a “picconare” le roccaforti dell’ipocrisia in cui si annidano i nemici dello Stato liberale.     Quelli  che un ventennio fa fecero strame di un presidente della Repubblica, Giovanni Leone, illustre penalista, straordinario docente universitario, uomo politico di profonda moralità, costretto alle dimissioni per la furibonda aggressione  mediatica della stampa di sinistra, salvo, poi, dopo la sua morte, riconoscergli  probità e autorevolezza. Sono gli stessi che ora invece  si stracciano le vesti per il  presidente della Camera (l’attuale)  invischiato in questioni che poco hanno a che fare con la politica e parecchio con gli affari (della famiglia Tulliani) e che è posto sotto accusa da organi di informazione di “destra”. Il classico caso di due pesi e due misure. Quando si trattava di aggredire Cossiga e Leone, solo per citare due nomi tra i più noti, la stampa di sinistra faceva il suo dovere, ora che tocca al nuovo beniamino della sinistra, l’ex camerata Fini, la sinistra invoca, anche tramite qualche altolocato suo esponente, il dovere di rispettare le istituzioni.g.

Fini

La storia di Fini continua ad imperversare siu tutti i giornali che continuano a chiedere spiegazioni più dettagliate sul passaggio dell’appartamento di Montecarlo da AN a ben tre diverse società off-shore con sede nei Caraibi (paradiso fiscale utilizzato per sottrarsi al pagamento delle tasse e per favorire il riciclcaggio di danaro sporco),  ora abitato dal cognato, il fratello della signora Elisabetta Tulliani, compagna di Fini. Le ultime notizie danno per certo che siano stati Fini e compagna ad acquistare i mobili per arredare l’appartamento di Montecarlo, così smentendo quanto asserito da Fini di non essere a conoscenza che il cognato vi abitasse. Lo ha scritto il Giornale di Feltri che ha dedicato a Fini un suo durissimo editoriale. Fini ha risposto, a mezzo del suo portavoce, notoriamente pagato con soldi pubblici, che “querelerà” Feltri. Questa è la seconda querela , ora solo annunciata, dopo la prima che già sarebbe stata sporta da Finio contro Feltri per la stessa questione. Bene. Ma perchè Fini invece di querelare , oppure  oltre che querelare, non parla, non spiega, non dice quanto e a chi paga l’affitto il cognato, chi è il vero e fisico acquirente dell’appartamento di Montecarlo, cioè chi si nasconde dietro l’anonimato della società off-shore? E perchè non spiega come mai il prezzo di vendita sia stato di molto al di sotto dei prezzi di mercato di Montecarlo per appartamenti simili a quello lasciato in eredità ad AN e svenduto a soli 300 mila euro nel 2008? Se ha, come dice, la coscienza a posto ed è vero che si è lasciato imbrogliare dal cognato, perchè non  dice tutto? Magari poi di querele ne potrà presentare una terza. Suffragandola di fatti e non di “soprese e disappunti”. g.

P.S. Il Giornale ha annunciato che nella edizione di oggi, 14 agosto, pubblicherà fatture, ricevute e nomi e cognomi dei testimoni dell’acquisto dei mobili da parte di Fini e compagna per l’appartamento di Montecarlo. La storia diventa un giallo e Fini rischia di  ridiventare nero come non lo era più da quando si è tinta di rossa la faccia.

TUTTI AL MARE E POI SI VOTA, di Mario Sechi (Il Tempo 5.8.2010)

Pubblicato il 5 agosto, 2010 in Il territorio | No Comments »

All’indomani del voto sulla mozione di sfiducia al sottosegretario Giacomo Caliendo, i notisti politici hanno dedicato all’avvenimento e ai risultati del voto i loro commenti. Tra tutti abbiamo scelto quello del direttore de Il Tempo non solo perchè è il più lucido, ma anche perchè auspica ciò che anche noi riteniamo la cosa giusta da fare,cioè andare al voto subito dopo l’estate, ad ottobre, al più a novembre. Lo abbiamo scritto ieri sera, a caldo, dopo la squallida performance parlamentare del neo gruppo dei finiani, astenutosi, salvo qualche defilamento tattico, sul voto contro Caliendo,  che quella del voto anticipato è la scelta obbligata per un governo che non ha più la maggioranza tecnica nel Parlamento, per verificare se ciò corrisponde anche sul piano elettorale. In una democrazia vera, di cui tutti  a parole si dichiarano sostenitori e paladini, e a tutti,   ultimo in ordine di tempo,   si è aggiunto l’ex fascistissimo erede di Almirante , in una democrazia vera,  i governi eletti dal popolo devono verificare nel popolo se siano o meno ancora depositari del consenso elettorale. Ogni indugio e ogni ritardo saprebbe di inciucio alla vecchia maniera della prima repubblica,  quando i cittadini votavano e i capipartiti rivoltavano la frittata della volontà popolare  nella padella dei compromessi e dimostrebbe una volta di più che quelli che si riempiono la bocca di  “principi”, dei principi se ne impipano allegramente quando si tratta di tutelare i loro affari e le loro convenienze. Pensiamo a tutti e un pò di più non tanto a Fini della cui dedizione ai “principi” abbiamo sempre ampiamente dubitato, ma a Casini il quale,  dopo tanti altri, ha inventato un nuovo nelogismo: “area di responsabilità“, per individuare quelli che hanno a cuore ilPaese. Bene, se a Casini sta a cuore il Paese, non ostacoli la strada del voto anticipato ed immediato, semmai scelga di ritornare nel centrodestra, nell’“area della concretezza.” g.

Questa che segue è  la nota politica di Mario Sechi.

Che cosa succede ora? Il Parlamento chiude e si va in vacanza spensierati? No, per la politica sarà un agosto bollente. Per la prima volta nella legislatura infatti il governo alla Camera dei deputati non ha la maggioranza: sono mancati 17 voti per raggiungere la soglia tecnica di 316 voti necessari per mantenere il controllo del ramo parlamentare. È il primo effetto della costituzione del gruppo dei finiani e Il Tempo ci aveva visto giusto: così il governo non andrà lontano e senza un colpo di fantasia politica la legislatura, quando il Parlamento riaprirà i battenti, finirà a carte quarantotto.
La verità è che dopo la seduta di ieri le elezioni sono dietro l’angolo. Tutti al mare e poi al voto in autunno. Il Cavaliere è chiamato a dare non solo una prova di resistenza, ma anche d’attacco per respingere un assalto che punta a mandarlo a casa e sostituirlo con un governo provvisorio destinato a diventare permanente.
Né Fini né Rutelli né Casini possono permettersi in questo momento di andare al voto. Sanno tutti che Berlusconi le elezioni le vincerebbe ancora. Il blocco sociale che ha votato Silvio non capisce questi giochi di Palazzo, li detesta, fanno parte di una liturgia incomprensibile e surreale, come evidenzia in queste pagine il professor Francesco Perfetti. Siamo arrivati a un giro di boa dell’avventura berlusconiana.
Era nell’aria. I problemi irrisolti nel Pdl si sono accavallati, la magistratura ha picconato il governo, Fini non ha saputo né voluto frenare i suoi pasdaran e il patatrac è sotto gli occhi di tutti. Ma finché l’asse tra Berlusconi e Umberto Bossi tiene, lo scenario del ribaltone di Palazzo, del governicchio, del papocchio, del disarcionamento del Cavaliere non si realizzerà. Sarà la Lega a dettare l’agenda nelle prossime settimane. La resistenza in trincea del governo passa sulla linea del Po. Bossi resta di gran lunga il politico più lucido e attento agli scenari: sa che deve portare a casa il federalismo, sa che non può averlo alleandosi con l’Udc che lo osteggia, sa che il centrosinistra è un’armata Brancaleone e i finiani un manipolo di avventurieri ancora in cerca d’autore, sa che senza un recupero dei seggi mancanti non si andrà da nessuna parte e, dulcis in fundo, sa che i sondaggi dicono che un’altra tornata elettorale rafforzerebbe in maniera impressionante il suo partito nel Nord, fino al punto di farne una roccaforte inespugnabile per chiunque. Se non si fanno le riforme, se il federalismo s’impantana, a Bossi le elezioni convengono.
Le urne consegneranno all’Umberto da Giussano la macroregione del Nord su un vassoio d’argento padano. Berlusconi in questo scenario è tutt’altro che immobile. È come un giocatore di scacchi che ha perso qualche pezzo importante, ma ha in testa la mossa che non ti aspetti, quella dello scacco matto. Il Cavaliere ha già disegnato gli schemi di gioco, il suo scenario è pronto e parte da un dato che tutti stanno sottovalutando: si va verso una competizione elettorale tripolare. I finiani, Rutelli e Casini hanno qualche speranza di contare nel prossimo Parlamento solo se si coalizzano e costruiscono un cartello da opporre all’asse Pdl-Lega. Questa disposizione delle truppe sul campo di battaglia però con questa legge elettorale conduce a un risultato micidiale: Silvio vincerà le elezioni, l’affermazione del Carroccio e dei berlusconiani alla Camera è più che scontata, quasi automatica. E se puoi vincere, non ci stai un minuto a farti logorare. L’atteggiamento del gruppo finiano alla Camera era palesemente ostile, la scelta di nominare Italo Bocchino, il parlamentare più duro nei confronti di Berlusconi, come guida a Montecitorio non è un segnale di distensione, ma di guerra.
Un altro deputato azzurro, Chiara Moroni, ha lasciato il gruppo per andare con i finiani ed è chiaro che la maggioranza non può permettersi altre fuoriuscite dalle sue truppe. Quale elemento sarà determinante nelle prossime settimane? La paura. Quella dei parlamentari che sanno di poter perdere il seggio (e quindi faranno di tutto per restarvi incollati), quella di chi non ha ancora un progetto politico compiuto (e cercherà di prendere tempo), quella di chi non vuole consegnarsi mani e piedi a un lento e inesorabile logoramento (e quindi vorrà accelerare la crisi e andare al voto). La partita sarà vinta da chi ha più paura. E nello stesso tempo la determinazione e il coraggio di muoversi prima dell’avversario. Mario Sechi.

CASO CALIENDO: L’ARRAMPICATA SUGLI SPECCHI DEI FINIANI

Pubblicato il 4 agosto, 2010 in Il territorio | No Comments »

La sfiducia al sottosegretario alla Giustizia Caliendo è stata respinta alla Camera con 299 voti contro, 229 a favore e 75 astenuti. Tra gli astenuti 25 finiani il cui voto di astensione è stato motivato dal deputato ex radicale Della Vedova…motivato è un modo di dire perchè quella di Della Vedova, incaricato di farlo, è stata una vera e propria arrampiacata sugli specchi. Perchè dire che si è contro il giustizialismo ma anche il garantismo non va….oppure dire che il caso Caliendo è diverso dal caso Brancher o dal caso Cosentino e però ci asteniamo comunque…oppure  dire che si fa parte della maggioranza ma solo per il programma e  la sfiducia a Caliendo non fa parte del programma….oppure dire che quella contro Caliendo è una azione strumentale ma non si può votare contro la mozione della opPosizione….beh, tutto ciò è davvero una arrmpiacata sugli specchi, per non dire che si tratta di una vera e propria mascalzonata di cui si è fatto portavoce proprio uno come Della Vedova che non foss’altro che per il suo passato di radicale, formatosi alla scuola di Pannella e quindi alla scuola della difesa dei diritti dei singoli avrebbe dovuto rifiutare, per rispetto del suo passato e di se stesso, di farsene interprete. Se si aggiunge a questo che alcuni dei finiani, quelli facenti parte del governo che peraltro sedevano, non si sa quanto a proprio agio, proprio sui banchi del governo, sotto gli occhi di tutti, hanno votato contro la mozione antiCaliebndo, si ha il quadro completo della totale confusione che sta regolando il passo dei finiani, definiti oggi, da un deputato del Movimento Noi Sud,  traditori. In verità, come molti osservstori hanno rilevato, al voto di astensione  i finiani sono giunti dopo che tra di loro sono sorte divergenze di vedute tra chi voleva votare a favore della mozione contro Caliendo e chi riteneva ciò Una assurdità, per cui  il maestrino Fini per evitare la rottura ha scelto per i suoi cari la strada dell’astensione che è quella tipica di chi non sa che fare o piuttosto lo sa ma non ha il coraggio di farlo. Ma anche con l’astensione Fini ha mostrato il suo vero volto, il volto di un rancoroso ex despota che ormai è corpo estraneo al centrodestra e che  è pronto a tutto pur di farne cadere il governo, nella logica infame  del “muoia Sansone con tutti i filistei”. E benchè  in Parlamento il PDL  abbia tributato a Berlusconi una straordinaria ovazione in un clima da stadio, Berlusconi, a nostro avviso, deve trarre dal voto di oggi le dovute conseguenze. Deve marciare speditamente vero il voto anticipato, anche ad ottobre, anzi ad ottobre. Ogni indugio nuoce al govenro, al PDL e, sopratutto, al Paese. Dopo averne difeso e tutelato l’economia, più e meglio di tutti gli altri paesi europei, ora si rischia di far affondare il Paese nella melmosa abitudine dei  continui compromessi  che giovano soltanto ai politicastri abituati a tutelare solo le loro spocchiose vanità. Il presidente Berlusconi non può ignorare che l’asse PDL-LEGA, maggioranza nel Paese che lavora, produce, si arrovella nella quotidiana battaglia  per la  soppravivenza, è di fatto minoranza numerica in Parlamento e perciò inidonea a realizzare le promesse riforme istituzionali da sempre attese e sempre più inprocastinabili. Se il Presidente Berlusconi acconsente alla tattica devastante del rancorso ex despota del MSI, Fini, che mira alla distruzione e non alla realizzazione delle promesse elettorali, rischia di consegnare il Paese non certo al cosiddetto terzo polo ma ad una nuova e più aggressiva sinistra, quella che ha le faccie  iraconde dell’on. Franceschini e della on. Biondi. Comprendiamo le titubanze del Presidente Berlusconi ma ogni ritardo può determinare danni incalcolabili. g.