SENTENZA IMPRESENTABILE, di Alessandro Sallusti

Pubblicato il 11 maggio, 2013 in Giustizia, Politica | Nessun commento »

La Corte di Appello di Milano ha confermato la condanna (4 anni di carcere e 5 di interdizione dai pubblici uffici) per Silvio Berlusconi, imputato nel processo sui diritti Mediaset, cioè l’acquisto nei primi anni Duemila di diritti per film americani da proiettare nelle sale e nelle tv italiane. Al gruppo Mediaset, che all’epoca dei fatti era il primo contribuente italiano, viene imputata una presunta evasione fiscale di pochi milioni compiuta da dirigenti infedeli (beccati e licenziati in tronco all’epoca dei fatti). Berlusconi è l’unico capitano d’industria che per i giudici non poteva non sapere che cosa combinavano i suoi manager, privilegio invece concesso quando nei guai sono finite le aziende, per esempio, degli Agnelli, dei De Benedetti e di importanti banchieri.

Continua dunque il doppio binario della giustizia. Quello riservato all’ex premier prevede procedure anomale, esclusione di testimoni chiave, non rispetto dei diritti della difesa, pene sproporzionate e tempistiche regolate per interferire sulla vita politica. È lo stesso film da 18 anni, e ancora non si vede la fine. Perché così come è successo in passato ben 32 volte su 32, difficilmente una sentenza così sgangherata supererà l’esame finale della Corte di Cassazione. Da oggi quindi riprende fiato il coro giustizialista che vorrà portare questa sentenza sul piano politico per fare saltare governo e pacificazione, un tranello dal quale mi auguro Berlusconi e il Pdl stiano alla larga, affidandosi alla saggezza dei giudici superiori. Una scommessa rischiosa, ma che vale la pena affrontare pur urlando forte la propria innocenza e l’affronto subito come è nel diritto di qualsiasi cittadino che si ritiene condannato ingiustamente. Lo fece, a ragione e tra lo scherno dei più, Enzo Tortora. È capitato più di recente al ministro Saverio Romano, massacrato da un’inchiesta infamante dalla quale è uscito alla fine completamente pulito. È successo, parliamo di pochi giorni fa, all’affarista Coppola, arrestato, perseguitato e rovinato da pm impazziti per poi ritrovarsi, a distanza di anni, prosciolto per non aver commesso il fatto.

Non è vero che ciò che viene deciso in aula di giustizia è la verità a prescindere. Alcuni pozzi sono avvelenati da tempo e in queste ore c’è chi continua a inquinare l’aria. Per esempio sostenendo che Nitto Palma non è persona degna a ricoprire la carica di presidente della Commissione Giustizia della Camera. Che cosa avrebbe di indegno? Vediamo. È un ex magistrato, come il neopresidente del Senato Grasso, è un ex magistrato ed ex ministro, come la Finocchiaro, ritenuta invece abile a occupare posizioni ben più prestigiose. E allora? Una differenza c’è: non è di sinistra ed è stato eletto nelle liste di Berlusconi. Così vanno le cose, ancora oggi, in questo Paese. Alessandro Sallusti, 11 maggio 2013

SI E’ SCIOLTO IL FLI, E FINI ESCE DI SCENA.

Pubblicato il 8 maggio, 2013 in Politica, Storia | Nessun commento »

8 maggio: atto finale di Fli. Fini esce di scena: dopo tre anni il suo progetto è fallito

Oggi, 8 maggio, è convocata a Roma l’ultima assemblea nazionale di Futuro e libertà. Fli si scioglie e il partito sarà traghettato da un triumvirato, formato da Roberto Menia, Aldo Di Biagio e Daniele Toto, verso una comune casa di destra.  Sarebbero in corso contatti sia con Fratelli d’Italia sia con il gruppo che ha dato vita giorni fa un incontro sulla destra all’Adriano cui hanno preso parte Silvano Moffa, Pasquale Viespoli, Mario Landolfi, Gennaro Malgieri e Domenico Benedetti Valentini.  E il 16 maggio a Palermo è in programma un convegno su An organizzato da Domenico Nania e al quale ci sarà anche Roberto Menia. Anche la Destra di Storace guarda con interesse a questi lavori in corso. Ovviamente Gianfranco Fini, che dovrebbe tenere  in assemblea il suo ultimo discorso agli amici ed ex camerati che l’hanno seguito nell’avventura futurista, è costretto a farsi da parte e ad addossarsi tutte le responsabilità del fallimento di un progetto di destra alternativa al berlusconismo ( forse si ritirerà a vita privata) . Il passo indietro, che probabilmente è destinato a segnare la definitiva uscita di scena dell’ex leader di An, consentirà così all’ala destra di Fli (quella che aveva sempre coltivato, in modo più o meno segreto, l’aspirazione a tornare nell’alveo rassicurante della rete degli ex An) di compiere l’unico percorso possibile, a questo punto, per una formazione prima ammaccata dalle accuse di tradimento, poi dalla scarsa chiarezza del progetto e quindi dall’abbraccio fatale con Casini e Monti. Un percorso che non sarà seguito da esponenti ex finiani che non hanno mai fatto mistero della loro collocazione al di là della destra e della sinistra: Fabio Granata, Enzo Raisi, Flavia Perina, Umberto Croppi. L’unico collante che teneva insieme personaggi tra loro così diversi era appunto Fini, il quale però dalla nascita di Fli in poi si è occupato di fare il presidente della Camera più che di fare il leader di partito.

Inoltre, l’antiberlusconismo non avrebbe potuto ancora a lungo sostituire una chiara collocazione nello scenario politico del soggetto finiano soprattutto nella fase attuale che vede il Cavaliere trionfatore su vari tavoli. Fli era nato nel 2010 dopo la famosa direzione del Pdl in cui Fini si era scontrato con Berlusconi (quella del “che fai mi cacci?”). Era seguita un’altra direzione in cui Fini e le sue idee erano state dichiarate incompatibili con il Pdl. Di lì la decisione di uscire dal partito da poco fondato dallo stesso Fini con Silvio Berlusconi formando gruppi autonomi a Camera e Senato. Avevano aderito 34 deputati e 10 senatori. Ma dal primo congresso di Fli a Milano, dopo il fallito progetto di mandare a gambe all’aria il governo Berlusconi con un voto di sfiducia, erano emerse divisioni insanabili e guerre interne tra i colonnelli che avevano seguito Fini. Lo scandalo della casa di Montecarlo ha fatto il resto, distruggendo la credibilità di Fini sia presso i suoi ex elettori sia presso quella parte di opinione pubblica che avrebbe potuto guardare con faveore alla sua idea di destra postfascista, postmissina e non conservatrice. da Il Secolo d’Italia, 8 maggio 2013

…………….Non si infierisce su chi è stato causa del suo male. E’ il caso di Fini, Gianfranco, partito  da Bologna per poter vedere in pace, a Roma,  il film Berretti Verdi.  A  Roma, invece,  incontra la fortuna che man mano lo innalza a segretario nazionale del Fronte della Gioventù per volontà di Almirante, a successore di questi alla sua morte, di nuovo a  capo del MSI-DN dopo la breve eperienza di  segretario misisno di Pino Rauti e poi, nel 1993, a candidato prescelto da Berlusocni nella corsa asl Campidoglio e nel 1994 ad alleato di Berlusconi che inventa Forza Italia, la alleanza variegata del nuovo partito al nord con la Lega di Bossi e al Sud con il MSI-DN di Fini, e vince le elezioni portando il MSI-DN dalla opposizione durata 45 anni al governo, con Tatarella, alleato storico di Fini, che diventa  vicepresidente del Consiglio. Negli anni successivi, nonostante i tanti errori tattici di Fini – la fine della bicamerale, lo scioglimento anticipato delle Camere del 1996, l’alleanza con Segni alle elezioni europee del 1999 – Fini sale sul treno del potere che lo porterà alla vicepresisdenza del Consiglio e al Ministero degli Esteri e poi…e poi lo ubriacherà inducendolo a scontrarsi con Berlusconi alle elezioni del 2006 quando con Casini inventa l’alleanza a tre punte e poi alle sortite antiberlusconiane del 2008 – siamo alle comiche finali…, dirà della nascita del PDL annunciata da Berlusconi sul predelllino di una auto a Milano) per poi all’ultimo momento accordarsi con Berlusconi facendo confluire nel PDL la destra missina  nel 1995 trasformatasi in Alleanza Nazionale. Nel 2008, vinte le elezioni dal centrodestra, Fini viene eletto presidente della Camera, ed è il delfino designato di Berlusconi, ovviamente alla sua morte, almeno politica. Ma Fini non sa attendere e da presidente della Camera superpartes, si trasforma poco alla volta in una spina nel fianco del governo, del PDL e di Berlusconi. Non può durare e Fini, impaziente come tutti gli eredi per caso e per di più ingrati, rompe clamorosamente con Berlusconi e fonda un suo partito, il FLI, appunto. Che più che un partito di destra appare subito come un nebuloso contenitore di luoghi comuni che si vorrbbero far passare per novità politiche. Per di più è evidente lo strappo violento e ingiustificato di Fini con la storia politica nella quale si era formato e aveva vissuto. Di strappo in strappo finisce coll’apparire una delle tante meteore del cielo di sinistra senza idee e senza riferimenti. Dura poco. Alle elezioni di due mesi fa il partito che doveva rifondare la destra guardando a sinistra, cioè il FLI, raccoglie poche briciole di voti e nessun seggio alla  Camera, uno solo al Senato ma nella lista unica di Monti. E’ la fine annunciata di un equivoco politico ed umano chiamato Gianfranco Fini. Che da oggi è un pensionato della politica, dopo aver distrutto, anzi disintegrato,  la Destra italiana, quella (ri)nata dopo la fine della guerra, costruita poco alla volta con i sacrificio di giovani e meno giovani che vi avevano creduto. Non lo rimpiangerà nessuno,  nessuno infierisca. g.

E’ MORTO GIULIO ANDREOTTI: LA TESTIMONIANZA DI MASSIMO FRANCO

Pubblicato il 7 maggio, 2013 in Politica, Storia | Nessun commento »

Lì sul suo letto vestito di blu con il rosario nero tra le mani

Giulio Andreotti (Ansa/Peri)

Ha il solito doppiopetto blu presidenziale. E se non fosse per il rosario nero che gli avvolge le mani intrecciate sul grembo, e perché è sdraiato sul letto vestito di tutto punto con gli occhi chiusi, potrebbe quasi sembrare il Giulio Andreotti di sempre. Ma il piccolo presepe vivente che lo circonda, stavolta, non è nella sua stanza da letto per ascoltare le battute al curaro, o le perle di buonsenso romano-papalino. Le tre bombole a ossigeno accostate alla parete raccontano giorni di sofferenza. E il senatore a vita Emilio Colombo, vecchio alleato e avversario in decine di congressi democristiani e di quasi altrettanti governi, si fa un segno della croce che non è solo un saluto a lui ma il commiato a un’epoca della storia d’Italia.
In questa stanza nella penombra al quarto piano di corso Vittorio Emanuele che si affaccia sul Tevere e sul Vaticano, sorvegliato e protetto da un grande crocifisso di porcellana appeso sopra al letto, è morto ieri mattina, poco dopo mezzogiorno, l’uomo-simbolo della Prima Repubblica. In quel momento in casa c’erano soltanto Gloria, la badante filippina che lo assisteva con altri due connazionali, e Giancarlo Buttarelli, il capo della scorta con lui da oltre trentacinque anni. C’era anche la signora Livia, ma per fortuna non si è accorta di nulla. E anche adesso, alle cinque del pomeriggio, mentre un silenzioso viavai di amici e mondi tramontati viene accompagnato a salutarlo per l’ultima volta, la moglie è in cucina in compagnia della cognata Antonella Danese. Forse non capisce quanto è successo. I figli vogliono che non si accorga che suo marito Giulio se n’è andato a novantaquattro anni.

Già, ci sono anche gli Andreotti: la tribù più discreta e invisibile del potere romano. Per il momento Stefano e Serena, due dei quattro figli. Gli altri, Lamberto, presidente della multinazionale Meyers Squibb, arriverà da New York in serata, e la figlia maggiore Marilena è partita da Torino, dove vive. In compenso ci sono alcuni dei nipoti, Giulio Andreotti e Giulia Ravaglioli, figlio il primo di Stefano e l’altra di Serena e del giornalista della Rai Marco Ravaglioli. Ci sono anche Marco e Luca Danese, i cugini. E sono loro, tutti insieme, ad accogliere ex ambasciatori e capi di gabinetto, alti burocrati e parlamentari figli della diaspora scudocrociata; e naturalmente sacerdoti. Il segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone, si è offerto di celebrare la messa. E anche il suo predecessore, il decano del Sacro Collegio, Angelo Sodano.
«E il cardinale Fiorenzo Angelini non viene?», si chiedono nel salottino con le cineserie e le scatoline d’argento allineate in ordine su un tavolino rotondo col drappo di velluto marrone. No, non ce la fa. E nemmeno il cardinale Achille Silvestrini. Sono molto vecchi anche loro, reduci di mille battaglie e pezzi d’antiquariato del «partito romano» italo-vaticano. Ci sono invece il vescovo Matteo Zuppi, parroco di Santa Maria in Trastevere, la chiesa della comunità di Sant’Egidio, e padre Luigi Venturi, il parroco di San Giovan Battista dei Fiorentini, la chiesa di quartiere dove oggi alle 17 si celebreranno i funerali in forma privata: perché la famiglia non vuole una cerimonia di Stato. Parlano tutti del «Presidente», come continuano a chiamarlo ricordando pagine ormai ingiallite di storia repubblicana. E la famiglia, con discrezione e garbo, ringrazia e stringe mani. Ma sempre un po’ appartata, cordiale e insieme vigile. Come se concedesse per l’ultima volta il padre e il nonno a quelle persone che lo hanno visto più di loro.

Non è una veglia di potenti, ma di vecchi amici. Sì, sembra che Andreotti avesse anche amici. Non piange nessuno, perché probabilmente il «divo Giulio», o «Belzebù», come lo chiamano tuttora gli avversari più irriducibili, non approverebbe. Anche Pier Ferdinando Casini e Gianni Letta sono confusi fra l’avvocato Barone e Luigi Turchi e il figlio Franz. Parlano come se tutto fosse uguale a prima. Le segretarie, Daniela e Patrizia, raccontano che lo studio a palazzo Giustiniani ormai era un guscio vuoto da mesi; e che da febbraio i figli avevano deciso di restituirlo al Senato per non tenere occupate le stanze in nome di una finzione. È passato a salutare anche il sindaco di Roma, Gianni Alemanno. Sono arrivati appena si è saputa la notizia Franco e Sandra Carraro. C’è la signora Santarelli, figlia di un amico storico dell’ex presidente. E figli e nipoti osservano, rispondono alle domande, sorridono perfino, con gentilezza.
Quando Stefano Andreotti presenta a un Gianni Letta affranto il figlio, dicendogli: «Ecco Giulio Andreotti», c’è un attimo di sorpresa. Poi spunta un ragazzo alto, con i capelli un po’ lunghi, in giacca blu e cravatta, che ha il nome del nonno e fa l’avvocato. L’altro, quello «vero», è sul letto con la coperta verde di lana a fiori e la foto di madre Teresa di Calcutta sul comodino, nella stanza a metà corridoio: quella annunciata dalla mensola di vetro dove sono esposti una parte dei campanelli d’argento che il senatore a vita ha collezionato per gran parte della sua lunga vita. Oltre la porta a due ante, in questo appartamento bello ma senza lusso, riposa quello che per decenni è stato considerato il sopravvissuto per antonomasia. Al punto che gli piaceva dire con civetteria: «Io, in fondo, sono postumo di me stesso». Perché lui continuava a vivere mentre finivano la Guerra fredda, la Prima e la Seconda Repubblica, e morivano o si dimettevano i Papi.

Non l’avevano schiantato né i processi per mafia, dai quali era uscito assolto e, per alcuni reati, solo prescritto, né un potere che aveva regole, riferimenti e protagonisti lontani ormai anni luce da lui. Finché era esistito un modo diviso fra Occidente e comunismo, Andreotti era parso eterno. Era il «suo» mondo, nel quale si muoveva con la leggiadria e il cinismo di chi ne conosceva non solo le apparenze, ma anche il sottosuolo. Aveva presieduto i suoi primi governi nel 1972, alleato con i liberali. Il terzo era stato nel 1976, appoggiato dal Pci. E l’ultimo, il settimo, nel 1989, a capo di un’alleanza con i socialisti di Bettino Craxi: l’ultimo della Prima Repubblica. Obiettivo: preservare la continuità dello Stato democristiano e un progresso senza avventure; e garantire il Vaticano, l’Europa e gli Usa come stelle polari. La Dc era solo uno strumento per governare. In realtà, la forza e il potere andreottiani erano fuori, non dentro al partito.
La sua base elettorale erano la Ciociaria, la burocrazia ministeriale romana, i conventi di suore, le congregazioni religiose. Come disse una volta lo scomparso capo dello Stato, Francesco Cossiga, Andreotti era «il popolo del Papa dentro la Dc». Oppure «un cardinale esterno», nella definizione dello storico Andrea Riccardi. Dei democristiani, di cui era un esemplare unico e dunque atipico, diffidava: forse perché aveva visto come erano stati rapidi a giubilare il suo mentore politico, Alcide De Gasperi, alla fine del centrismo e all’inizio degli Anni Cinquanta del secolo scorso. Non per nulla non aveva mai ricoperto cariche di partito, tranne quella di capogruppo alla Camera. E la sua corrente era piccola, combattiva e così variegata, per usare un eufemismo, che gli altri la chiamavano con una punta di razzismo «le truppe di colore» andreottiane.

Erano la sua piccola massa di manovra per ottenere ministeri; per garantirsi una longevità governativa dovuta non tanto alle sue strategie, quanto al ruolo di conservatore del sistema e conoscitore della macchina dello Stato. Eppure, quando la Dc finì insieme con la Guerra fredda, lui ne rimase un cultore nostalgico: capiva che l’archiviazione dell’unità politica dei cattolici era anche quella dei suoi punti cardinali e della sua cultura politica. Dopo la diaspora scudocrociata, a piazza del Gesù, sede storica della Dc a Roma, non voleva andare. Diceva che gli sembrava un condominio litigioso, con un partitino diverso a ogni piano. Da anni non era più un burattinaio. Anzi, rischiava di essere usato per operazioni politiche che non condivideva. Accadde nel 2006, quando Silvio Berlusconi lo candidò alla presidenza del Senato contro un altro ex democristiano, Franco Marini, scelto dal centrosinistra. Si illuse di essere «una goccia d’olio» in grado di sbloccare la situazione.
Ma fu la sua ultima illusione di potere, prima di un lungo oblìo dal quale è uscito solo ieri poco dopo mezzogiorno; e prima di essere di nuovo usato da partiti nei quali non si riconosce, come è accaduto dopo la notizia della sua morte. Il piccolo mondo antico che ieri si è ritrovato nel suo appartamento si è mimetizzato e adattato ai nuovi potenti. Ma sapeva che l’uomo adagiato in doppiopetto blu nella stanza accanto, e poi nella bara all’ingresso di casa, era la loro autobiografia: lo specchio nel quale per decenni la maggioranza silenziosa e moderata dell’Italia si era riflessa. Si tratta di un’Italia che ha rifiutato fino all’ultimo la sua scomparsa, perpetuando il mito dell’eternità andreottiana per non ammettere di essere postuma anche lei di se stessa. Ma «c’est fini», è finita, confessava a se stesso da tempo il suo segretario a palazzo Giustiniani, Salvatore Ruggieri.

E stavolta è finita davvero. Andreotti sarà ricordato come quello della battuta sul «potere che logora chi non ce l’ha»: un monumento lessicale a un potere senza alternativa, cresciuto negli ultimi anni della Dc; e pagato a caro prezzo quando quella stagione si è chiusa. Peccato che pochi ne ricordino un’altra, di molti anni prima. Chiesero all’allora ministro di qualcosa che avrebbe fatto se avesse avuto il potere assoluto. Andreotti ci pensò un secondo. Poi rispose: «Sicuramente qualche sciocchezza». Era una lezione di democrazia che molti, a cominciare da lui, hanno finito per rimuovere. Massimo Franco, Il Corriere della Sera, 7 maggio 2013

……Abbiamo scelto questa testimonianza di Massimo Franco, editorialista e notista politico del Corriere della Sera, per evitare elogi sperticati e altrettanto sperticati giudizi negativi. Gli uni e gli altri non sarebbero piaciuti  a Giulio a Andreotti che della discrezione fece il suo biglietto da visita. Nessuno può negare che egli sia stato uno dei cavallidi razza della Dc e nessuno può negare che egli sia stato uno statista.Ebbe molti amici, altrettanti avversari, irriducibili nemici, come il Procuratore Caselli che nemmeno dinanzi alla morte ha voluto cedere il passo alla pietà. Di certo lo avrebbe fatto Andreotti. Che ne ha passate tante ma le ha superate tutte  con lo spirito romanesco che gli fu sempre congeniale. Fu cattolico praticante e costante, sebbene, alimentata da egli stesso, è sempre circolata la battuta che voleva De Gasperi, in Chiesa, parlare con Dio e lui, Andreotti, parlare con il parroco. Perchè, ebbe a dire egli stesso, con l’ironia che non gli mancava mai, il parroco ha anche i voti. Che lo sommersero sempre di largo suffragio, specie nella sua terra di origine,  la Cioaciaria, che egli amò, a modo suo,  profondamente. Senza darlo a vedere, come con le donne, per le quali si disse che non ne aveva mai baciato una, e tanto gli bastò per dire, a proposito del bacio a Riina, che mai avrebbe baciato un uomo, come invecve l’aveva accusato Buscetta, burattinaio che si trasformò in burattino. Andreotti è morto in casa sua, le esequie saranno celebrate privatamente, su di lui sarà la storia a dire la parola finale. Lo ha detto il presidente Napolitano e lo condividiamo. g.

IL CINQUE MAGGIO (1821)

Pubblicato il 5 maggio, 2013 in Costume, Storia | Nessun commento »

Ricorre oggi l’anniversario della morte di Napoleone. Mentre tutti si affannano a rincorrere la effimera notorietà quotidiana,  pubblichiamo i versi immortali dell’Ode che Alessandro Manzoni dedicò al grande corso per celebrarne la gloria perenne, conquistata sui campi di battaglia e in giro per l’Europa.

Il Cinque Maggio

Ei fu. Siccome immobile,

dato il mortal sospiro,

stette la spoglia immemore

orba di tanto spiro,

così percossa, attonita

la terra al nunzio sta,

muta pensando all’ultima

ora dell’uom fatale;

né sa quando una simile

orma di piè mortale

la sua cruenta polvere

a calpestar verrà.

Lui folgorante in solio

vide il mio genio e tacque;

quando, con vece assidua,

cadde, risorse e giacque,

di mille voci al sònito

mista la sua non ha:

vergin di servo encomio

e di codardo oltraggio,

sorge or commosso al sùbito

sparir di tanto raggio;

e scioglie all’urna un cantico

che forse non morrà.

Dall’Alpi alle Piramidi,

dal Manzanarre al Reno,

di quel securo il fulmine

tenea dietro al baleno;

scoppiò da Scilla al Tanai,

dall’uno all’altro mar.

Fu vera gloria? Ai posteri

l’ardua sentenza: nui

chiniam la fronte al Massimo

Fattor, che volle in lui

del creator suo spirito

più vasta orma stampar.

La procellosa e trepida

gioia d’un gran disegno,

l’ansia d’un cor che indocile

serve, pensando al regno;

e il giunge, e tiene un premio

ch’era follia sperar;

tutto ei provò: la gloria

maggior dopo il periglio,

la fuga e la vittoria,

la reggia e il tristo esiglio;

due volte nella polvere,

due volte sull’altar.

Ei si nomò: due secoli,

l’un contro l’altro armato,

sommessi a lui si volsero,

come aspettando il fato;

ei fè silenzio, ed arbitro

s’assise in mezzo a lor.

E sparve, e i dì nell’ozio

chiuse in sì breve sponda,

segno d’immensa invidia

e di pietà profonda,

d’inestinguibil odio

e d’indomato amor.

Come sul capo al naufrago

l’onda s’avvolve e pesa,

l’onda su cui del misero,

alta pur dianzi e tesa,

scorrea la vista a scernere

prode remote invan;

tal su quell’alma il cumulo

delle memorie scese.

Oh quante volte ai posteri

narrar se stesso imprese,

e sull’eterne pagine

cadde la stanca man!

Oh quante volte, al tacito

morir d’un giorno inerte,

chinati i rai fulminei,

le braccia al sen conserte,

stette, e dei dì che furono

l’assalse il sovvenir!

E ripensò le mobili

tende, e i percossi valli,

e il lampo dè manipoli,

e l’onda dei cavalli,

e il concitato imperio

e il celere ubbidir.

Ahi! Forse a tanto strazio

cadde lo spirto anelo,

e disperò; ma valida

venne una man dal cielo,

e in più spirabil aere

pietosa il trasportò;

e l’avviò, pei floridi

sentier della speranza,

ai campi eterni, al premio

che i desideri avanza,

dov’è silenzio e tenebre

la gloria che passò.

Bella Immortal! Benefica

Fede ai trionfi avvezza!

Scrivi ancor questo, allegrati;

ché più superba altezza

al disonor del Gòlgota

giammai non si chinò.

Tu dalle stanche ceneri

sperdi ogni ria parola:

il Dio che atterra e suscita,

che affanna e che consola,

sulla deserta coltrice

accanto a lui posò.

da PensieriParole <http://www.pensieriparole.it/poesie/poesie-d-autore/poesia-19319>

IL LINGUAGGIO DELLA VERITA’, OVVERO LE DUE CONDIZIONI PER LE LARGHE INTESE

Pubblicato il 3 maggio, 2013 in Politica | Nessun commento »

Affinché l’esperimento Napolitano-Letta abbia successo, da subito devono essere raggiunte, e mantenute in seguito, due condizioni. Un atteggiamento realistico e responsabile verso la crisi economica, condiviso dai partiti che all’esperimento partecipano e continuamente ribadito nei confronti dei cittadini. Una attenuazione marcata dello scontro tra le due principali forze politiche della nostra Repubblica, una «messa tra parentesi» delle ragioni anomale che l’hanno alimentato fino ad oggi. Condizioni entrambe difficili da raggiungere e mantenere.

La prima discende da un’analisi corretta della crisi in cui versiamo. Non entro nel dettaglio delle misure che dovranno essere prese per reagire, sulle quali già si comincia a litigare, e mi limito alle loro premesse: non si uscirà dalla crisi, non si riprenderà a crescere, se non ci si convince che la causa di fondo sta in un grande ritardo di innovazione, efficienza, produttività in gran parte dei segmenti pubblici e privati del nostro sistema produttivo. Ritardi accumulati in un lungo periodo di riforme mancate e non avvertiti a seguito dell’effetto anestetizzante dell’indebitamento e, prima ancora, della svalutazione del cambio. Indebitarsi e svalutare non è più possibile, e oggi possiamo distribuire per consumi e investimenti solo quanto riusciamo a produrre e vendere. È per questo che diventare più efficienti e competitivi è un imperativo categorico se vogliamo mantenere i livelli di benessere cui ci siamo assuefatti. Già li abbiamo intaccati e «il linguaggio sovversivo della verità» – quello che Napolitano ha raccomandato a Letta – impone che si dica ai cittadini che questi livelli potranno ridursi ancora, che ci aspettano anni di vacche magre durante i quali solo due obiettivi andranno perseguiti con ossessione: 1) il miglioramento della produttività e dell’efficienza in tutti i principali comparti del sistema; 2) in nome dell’equità, una ricalibratura del welfare indirizzata a lenire le aree di povertà che già si sono aperte e si allargheranno.

Letta non ha seguito fino in fondo la raccomandazione «sovversiva» di Napolitano, come neppure l’aveva seguita il precedente governo tecnico, quando suggeriva che rigore, crescita ed equità potessero essere tenuti insieme, e in tempi brevi. Non è così, non si rimedia facilmente a lunghi decenni di mancate riforme, e va tolta l’illusione che l’Europa possa svolgere un compito che è solo nostro: se va bene, può attenuare un poco l’austerità – e sarebbe già una forte manifestazione di fiducia verso i Paesi più deboli e verso il futuro dell’Unione se lo facesse – ma il compito di diventare più efficienti e competitivi dobbiamo addossarcelo noi. Il linguaggio «sovversivo» della verità non è facile per un politico, cui vengono più spontanee promesse miracolistiche al fine di acquistare consenso. Fare accettare «sudore, lacrime e sangue» riuscì a Churchill di fronte alla minaccia nazista: sembra impossibile possa riuscire a politici screditati e rissosi. Ma se la rissa si attenua, se c’è una comune assunzione di responsabilità nazionale, se la Grande Coalizione è intesa non come intollerabile rinuncia delle proprie identità di parte, ma come occasione eccezionale di servizio al Paese, se è accompagnata da una forte riduzione dei costi della politica e da una spietata lotta alla corruzione, forse anche i cittadini possono convincersi che i loro sacrifici non saranno sprecati.

Il secondo obiettivo di un governo politico di grande coalizione – attenuare l’esasperazione del conflitto tra il centrodestra «berlusconiano» e il centrosinistra «comunista» è importante di per se stesso ma è soprattutto essenziale al raggiungimento del primo, di un’analisi seria della crisi e di un progetto di riforme ad essa conseguente. Centrosinistra e centrodestra possono benissimo, quando è necessario, fare accordi comuni di governo: avviene ovunque. Ma quando all’inevitabile tensione tra questi due diversi indirizzi politici si aggiunge il conflitto non negoziabile tra berlusconiani e antiberlusconiani – conflitto solo italiano – ogni mediazione diventa impossibile, e questo il nostro Paese non può permetterselo oggi. Non si chiede a nessuna delle due parti di rinunciare alle proprie idee e ai propri giudizi, ma di ridurne le conseguenze politiche per un periodo limitato. Non un impossibile pacto de olvido – un accordo di dimenticanza e reciproca smobilitazione – ma una provvisoria e parziale messa tra parentesi del conflitto alla luce di un interesse superiore: ci sono riusciti grandi Paesi per conflitti normativi ben più drammatici – implicitamente ho menzionato la Spagna – e sarebbe incomprensibile se non ci riuscisse l’Italia.

Se e quando il M5S o Sel presenteranno in Parlamento una dura legge sul conflitto di interessi o se e quando Berlusconi sarà raggiunto da una condanna in uno dei tanti giudizi che ha in corso – entrambi eventi possibili, forse imminenti – vedremo come si comporteranno Pd e Pdl e se il mio auspicio in merito alla saggezza di questi partiti verrà confermato dai fatti. Michele Salvati, Il Corriere della Sera, 3 maggio 2013

.…..Ci sembra che le parole di Salvati sono parole di buon senso oltre che un richiamo esplicito al linguaggio della verità tre le due più grandi forze politihe del nostro Paese, specie  mentre altre nubi si addensano nel cielo d’Italia. Confidiamo che queste parole non cadono nel vuoto. Ne va del futuro del nostro Paese e sopratutto delle nuove generazioni. g.

VISITE FISCALI NELLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE: SOSPESE DALL’INPS PER MANCANZA DI FONDI

Pubblicato il 2 maggio, 2013 in Economia | Nessun commento »

Antonio Mastrapasqua visite fiscali 367

L’Inps sospende tutte le visite fiscali d’ufficio per i dipendenti della pubblica amministrazione.
La decisione, resa nota dall’agenzia di stampa Agi, è stata comunicata in una circolare rivolta ai medici denominata “Temporanea sospensione delle procedure riguardanti le visite mediche di controllo” ed è stata presa al fine di raggiungere l’obiettivo di 500 milioni di risparmi sul bilancio 2013, previsto dalla legge di stabilità.

Sembrano lontani i tempi in cui il ministro Brunetta tuonava contro i “fannulloni” del pubblico impiego annunciando le nuove modalità per le  visite fiscali d’ufficio, per verificare le assenze per malattia in aziende ed enti pubblici.

La soppressione delle visite fiscali è la conseguenza della crisi dell’Inps. L’istituto di previdenza spende annualmente 50 milioni per questo tipo di attività e le visite fiscali d’ufficio da sole ammontano al 75% delle visite totali, pari a circa 1,5 milioni di controlli.
Contro la circolare si sono schierati i medici di famiglia della Fimmg (Federazione italiana medici di medicina generale) che temono un picchi di assenteismo e il licenziamento di qualcosa come mille medici.

“L’Istituto – ha dichiarato Alfredo Petrone, coordinatore nazionale di Fimmg Inps – ha deciso la temporanea sospensione delle visite mediche di controllo disposte d’ufficio. Si tratta di un provvedimento preso senza alcun preavviso e rispetto al quale esprimiamo forte dissenso. In poche settimane verificheremo un importante aumento delle assenze per malattia e quindi una spesa ben superiore rispetto a quanto l’Istituto investe in un anno per le visite mediche di controllo d’ufficio. Per questo motivo chiederemo un incontro urgente con la dirigenza dell’Inps e con il ministro del Lavoro, riservandoci di informare anche la Corte dei conti di ciò che si profila come un errore perfetto”.
Se è vero infatti che sospendendo le visite l’istituto risparmia, “basta un aumento dello 0,1% di assenze per malattia – fa notare ancora Petrone -  per far perdere 100 milioni“.

Assenteismo e produttività

Rimane aperta la possibilità che a decidere la visita sia l’azienda, a patto che ne sostenga il costo.
La lotta all’assenteismo, considerato una delle zavorre principali della produttività, rimane una delle priorità delle aziende. E tra le sue cause prevalgono le malattie brevi. Un’emicrania, un mal di denti, una generica indisposizione “non epidemica” sufficiente a stare a casa qualche giorno. In molte aziende sotto una certa soglia non serve nemmeno il certificato medico. E comunque nessuna visita fiscale potrebbe sbugiardare un falso malato di questo tipo. Risultato: l’incidenza delle assenze per malattie brevi sulla produttività è alta.

Val la pena ricordare che in un importante contratto collettivo nazionale – quello del commercio - il tabù della malattia retribuita è crollato due anni orsono. L’accordo concluso a fine febbraio 2011 ha introdotto un giro di vite sulle malattie inferiori a 12 giorni.
La regola prevede che per i primi due episodi di malattia la retribuzione:

•  per i primi tre giorni è al l00%,
•  per il terzo e il quarto giorno al 50%,
•  dal quinto giorno in poi viene tagliata del tutto.

.….Fonte: Virgilio, 2 maggio 2013 (NELLA FOTO IL PRESIDENTE DELL’INPS CHE PERCEPISCE UNO STIPENDIO DA NABABBI NON ASSOGGETTATO A RIDUZIONI….)

MAGISTRATI: GUADAGNERANNO 8 MILA EURO IN PIU’

Pubblicato il 2 maggio, 2013 in Costume, Politica | Nessun commento »

Non c'è crisi per le toghe: si aumentano lo stipendio di 8mila euro (grazie a Monti)

Si può tagliare tutto in mome dell’austerity. Ma non toccate gli stipendi dei magistrati. Quelli devono crescere nonostante il blocco agli aumenti che la finanziaria del 2010 aveva previsto per le buste paga delle toghe. Una sentenza della Corte Costituzionale ha ribaltato la deciusone dell’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti che aveva chiuso i rubinetti delle casse togate fino al 2015. La decisone fu presa dal governo Berlusconi per risparmiare qualcosa nelle casse dello stato strozzate da spread e debito pubblico. Il provvedimento prevedva un blocco dell’aumento del 5 per cento per 5 anni. I giudici sono subito entrati in guerra con ricorsi al Tar e richiami alla Corte costituzionale che li ha accontentai.

Via libera all’aumento - Oggi, con un decreto del presidente del Consiglio, firmato Mario Monti si dà semaforo verde all’aumento degli stipendi con retroattività fino al 2012. Una decisone quella della Corte Costituzionale che testimonia come la busta paga delle toghe sia ritenuta inviolabile. A sostenerlo è proprio la Corte Costituzionale.

Salario sacro - Per la Corte il blocco dell’aumento è un attentato all’indipendenza dei giudici, “una violazione del principio di indipendenza della magistratura, in quanto le decurtazioni dello stipendio, incidendo sullo status economico del giudice, creerebbero una sorta di dipendenza del potere giudiziario dal potere legislativo ed esecutivo, i quali finirebbero con il controllare, in maniera arbitraria, la magistratura e, quindi, a comprometterne l’indipendenza”. Dunque le buste paga dei magistrati sono intoccabili e inviolabili. Così grazie alla sentenza e al decerto del Loden un magistrato che nel 2011 guadagnava 174 mila euro all’anno, ora ne guadagnerà 182 mila. Insomma 8 mila euro in più in tempo di crisi non sono pochi.

Se le cose vanno male, si guadagna di più - Inoltre le toghe godranno ancora di un “indennità giudiziaria”. Si tratta di un importo fisso che tutti i magistrati percepiscono in misura eguale, cioè a prescindere dal grado di carriera che, stando al legislatore, viene corrisposta in relazione agli oneri che gli stessi incontrano nello svolgimento della loro attività. Secondo la Corte questa indennità costituisce “compenso all’attività dei magistrati di supplenza alle gravi lacune organizzative dell’apparato della giustizia”. L’indennità corrisponde ad un sesto della busta paga. La percepiscono tutti. Pure chi non lavora in condizioni disagiate. La magistratura potrebbe dunque non avere nessun interesse ad avere una giustizia efficiente perchè sistemate le carenze verrebbe meno il diritto ai quattrini perchè si possa far fronte alle carenze strutturali.

Precedente Amato - Eppure, già nel 1992, Giuliano Amato aveva messo mano alla busta paga dei magistrati. Anche quello era un periodo di austerity. Le cose erano andate per il verso giusto. ora invece le toghe si aggrapopano allo stipendio con le barricate. Sono state accontentate. La busta paga, come la legge, non è uguale per tutti. Fonte: Libero, 2 maggio 2013

..….Che dire? Ai pensionati lo Stato ha bloccato anche il misero aumento di poche decine di euro l’anno in nome dell’austerità e nel silenzio della Corte Costituzionale. Ai magistrati invece, grazie alla Corte Costituzionale che ha cassato i decreti che bloccavano anche per loro gli aumenti, andranno aumenti pari più o meno alla metà delle pensioni medie annue dei lavoratori italiani. E poi  ci si chiede perchè il popolo ha scarsa fiducia nella Magistratura….

GOVERNO: UNA GENERAZIONE DI POLITICI E’ USCITA DI SCENA

Pubblicato il 28 aprile, 2013 in Politica | Nessun commento »

Ecco la prima chiara conseguenza del durissimo discorso di Giorgio Napolitano dopo la rielezione: una generazione è uscita di scena.

Molti di quelli che applaudivano le bordate del Presidente, oggi non lo farebbero più. Ora che il conto è stato presentato proprio a loro che occupavano ruoli di primo piano nei due maggiori partiti e nei precedenti governi politici. Un conto salato, figlio della necessità di un gesto di discontinuità che ha eliminato i responsabili delle mancate riforme.

Non poteva essere altrimenti. Letta non poteva permettersi di avere a bordo i big del passato e nemmeno i falchi dei due schieramenti sia perché la richiesta di cambiamento sarebbe parsa carta straccia, sia perché gli elettori dei due maggiori schieramenti, già a disagio (per usare un eufemismo) per le larghe intese, non lo avrebbero accettato.

Così un governo di facce più giovani e meno caratterizzate, anche se con due pesi massimi come Bonino e Saccomanni, può trasformare la sua debolezza in una forza. Se la debolezza sono i volti fino a oggi di secondo piano, la forza è che non scatenano crociate e saranno giudicati per quello che faranno e non per il passato. Il Paese ha atteso troppo, ora non si perda più tempo e si parli di futuro. Mario Calabrese, La Stampa, 28 aprile 2013

GOVERNO: UN ACCORDO A TEMPO SUI RISULTATI

Pubblicato il 28 aprile, 2013 in Politica | Nessun commento »

Niente usato sicuro. Ringiovanimento, competenza, donne, nessun falco, qualche sorpresa e un primato. Soddisfazione sobria, per usare le parole dello stesso premier Letta, per il nuovo governo che oggi giurerà nelle mani del suo «padre putativo», Giorgio Napolitano. E un sospiro di sollievo.

Fermo restando che non sono la differenza di genere né l’anagrafe le discriminanti di un esecutivo di successo che vince con la professionalità e il talento per affrontare le problematiche del Paese, fa piacere che ci siano sette donne tra cui due, Bonino e Cancellieri, in dicasteri di grande peso come gli Esteri e la Giustizia. Inoltre, per la prima volta nella storia della Repubblica italiana, c’è una ministra di colore deputata del Pd.

Un governo non snello, 21 componenti, sovradimensionato a sinistra (non quella bersaniana), ma fatto di persone di qualità che non dovrebbero cedere ai personalismi e quindi capaci di amalgamarsi e lavorare con un unico obiettivo: la salvezza dell’Italia. Confermata la promessa (obtorto collo) di non volere mettere paletti e Berlusconi incassa 5 ministri del Pdl con, in particolare, quello dell’Interno per il segretario Alfano che diventa anche vicepremier. Gli altri entrati, a parte la De Girolamo (lei che offese i contadini veneti all’Agricoltura) nessun fedelissimo ma tutti uomini di Angelino. E proprio Alfano con il collega Lupi e Mauro (di Scelta civica, già saggio) insieme allo stesso Letta, sono e saranno i magnifici quattro che hanno un ruolo per così dire «democristiano» (le origini non mentono), quello di collante di un governo di larghe intese, nato con 2 mesi di ritardo.

Non va al Pdl il ministero dell’Economia che sarà guidato da Saccomanni, il supertecnico capace di affrontare la Germania, che se non fosse stato ostacolato dall’allora ministro Tremonti, oggi sarebbe governatore di Bankitalia. Un ministero, però, al quale il Cavaliere ambiva per realizzare quelle riforme, dall’abbattimento del credito fiscale all’abolizione dell’Imu, su cui ha impostato il pre e post elezioni.

Da domani, quando Letta chiederà la fiducia, si capirà se questo governo politico, l’unico che poteva nascere, come ha ribadito con sollievo Napolitano, sarà un esperimento che andrà avanti e se sarà in grado di sciogliere i nodi che stanno soffocando il Paese: dare sicurezza ai conti pubblici ancora in bilico, abbassare il rigore, trovare i soldi per la cassa integrazione, risolvere il rebus degli esodati, garantire i 40 miliardi di crediti alle imprese, discutere la legge di bilancio per il prossimo anno, trattare con Bruxelles che vuole mettere fine all’austerity e Berlino che non ne vuole sapere.

La prospettiva? Se ci saranno risposte di qualità l’innovativo governo Letta andrà lontano, altrimenti sarà una bomba a orologeria. Timer giugno 2014, elezioni europee. Sarina Biraghi, Il Tempo, 28 aprile 2013

GOVERNO: RITORNO ALLA REALTA’

Pubblicato il 28 aprile, 2013 in Politica | Nessun commento »

L’immagine che immortala la nascita del governo di Enrico Letta non è quella solitaria del presidente del Consiglio mentre annuncia i suoi ministri. È l’altra di pochi attimi dopo, nella quale il premier stringe la mano con entrambe le sue a Giorgio Napolitano, apparso a sorpresa quasi per offrirgli un supplemento di legittimazione. Il capo dello Stato ha definito Letta «l’artefice» di una coalizione così inedita da cancellare vent’anni di Seconda Repubblica di «nemici». E ha chiesto di non cercare strani aggettivi per un governo semplicemente «politico», benché manchino tutti i protagonisti del passato.

È vero, è politico, con Angelino Alfano vicepremier. Ma lo sfondo evoca qualcosa di più. Segna il primo esplicito tentativo di pacificazione dell’Italia dopo la parentesi dell’esecutivo dei tecnici di Mario Monti, alla guida di una maggioranza definita allora «anomala». Adesso, quella maggioranza assume contorni «normali» che fanno storcere il naso a sacche di un elettorato trasversale di destra e di sinistra. Ma proprio per questo suggerisce una svolta. È la conferma che non si poteva tornare indietro; e la conseguenza obbligata di elezioni senza vincitori né vinti, almeno dal punto di vista dei numeri: gli unici che contino in democrazia, mentre si gonfia un’onda populista minacciosa.
L’equilibrio fra presenza maschile e femminile è evidente e positivo. Accanto però a esigenze altrettanto vistose di compromesso che lasciano trasparire qualche incognita sulla tenuta parlamentare. Esagerare il ricambio generazionale sarebbe riduttivo: declasserebbe un accorto bilanciamento di esperienze e sminuirebbe la scelta di rassicurare la comunità internazionale sul piano politico e finanziario. Emma Bonino alla Farnesina riflette un identikit atlantista sovrastato dalle sue storiche battaglie radicali, ma granitico. E Fabrizio Saccomanni all’Economia ribadisce il ruolo di garanzia di Bankitalia agli occhi della Bce, e non solo.

Si può anche dire che ha vinto ai punti Silvio Berlusconi; e che il Pd appare sottorappresentato nei ministeri. Ma gridarlo significherebbe sbilanciare strumentalmente l’equilibrio raggiunto. Quanto sta accadendo grazie alla determinazione di Napolitano, alla tenacia del premier e al senso di responsabilità, o magari solo alla rassegnazione dei partiti, è un ritorno della politica alla realtà: tutti hanno rinunciato a qualcosa. E dal modo in cui Letta e gli alleati riusciranno a governare e a durare, si capirà se segna anche il ritorno della politica in quanto tale. C’è poco tempo per dimostrarlo. E l’attesa dell’opinione pubblica è enorme e, a questo punto, giustamente impaziente. Massimo Franco, Il Corriere della Sera, 28 aprile 2013