IN ATTESA DEL GOVERNO: PICCOLO CABOTAGGIO, PERICOLO DA EVITARE
Pubblicato il 27 aprile, 2013 in Politica | Nessun commento »
Il voto del 24 febbraio è ormai un ricordo lontano. Due mesi sono passati e le stanze di Palazzo Chigi non sono ancora occupate da un nuovo premier. È stato necessario chiedere al presidente Napolitano di restare al suo posto per arginare una crisi distruttiva che stava travolgendo l’istituzione più importante della Repubblica. È partito così il tentativo di dare al Paese un esecutivo di unità tra le diverse forze politiche. Solo un carico di risentimenti, faziosità e ostinazione ideologica aveva impedito di metterlo in campo subito dopo un risultato elettorale senza vincitori.
La sferzata del presidente della Repubblica, con il suo atto d’accusa in Parlamento, ha fatto superare il primo scoglio: il vicesegretario del Pd Enrico Letta è a un passo dal varo di un governo di coalizione sostenuto da Pd, Pdl e Scelta civica. I dirigenti del Partito democratico, impegnati in una guerra fratricida che ha avuto vittime illustri come Romano Prodi e Franco Marini, hanno messo la sordina ai veti e all’ostilità radicata a collaborare con il partito di Berlusconi. C’è un via libera sofferto e svogliato, pieno di timori per la reazione della mitica base e del popolo della Rete. Tanti retropensieri che proiettano ombre sulla durata del governo.
Sull’altro fronte il Pdl ha posto condizioni, sul programma economico e sulla partecipazione di ministri osteggiati dal mondo del Pd, che stanno complicando la chiusura della trattativa, fino al rischio di fallimento.
È come se i partiti non capissero che c’è un punto decisivo che, prima di ogni altra cosa, devono sciogliere: chiarire a se stessi e al Paese che il governo che sta nascendo non è un’alleanza con la pistola alla tempia, a cui partecipano solo per l’ultimatum del Quirinale. Se non hanno fiducia loro in quello che stanno facendo come potranno sostenere la prova nel Parlamento delle mille opposizioni? E soprattutto: se non credono alla possibilità di poter fare insieme qualcosa di utile come possono pensare che il Paese e i cittadini li sosterranno? Hanno il dovere di essere ambiziosi, di dimostrare che il governo che sta per nascere non è senza padri e, dunque, esposto alla tempesta di voti parlamentari che lo butterebbero giù in poco tempo.
Il compito principale è nelle mani del presidente del Consiglio incaricato. Molto dipende dalla sua capacità di fare le scelte giuste sul programma e sulla qualità dei ministri. Enrico Letta ha riconosciuto onestamente in passato un suo difetto: cercare di mediare sempre, anche troppo. Dialogare è giusto, soprattutto in una situazione difficile, ma troppe mediazioni possono portare a risultati deludenti.
Non ci si può accontentare di un governo di serie B. Letta presenti, come è nelle sue prerogative, una compagine ministeriale di alto profilo, senza cedere alla tentazione delle seconde file per evitare tensioni. E metta sul tavolo un pacchetto di misure immediate che diano il senso della svolta: provvedimenti fiscali anti recessione, azzeramento del finanziamento ai partiti, dimezzamento dei parlamentari, nuova legge elettorale. Perché un governo che nasca già debole, che così venga vissuto dai cittadini e dai mercati, è il contrario di quello che serve.
GOVERNO: ULTIMA CHIAMATA
Pubblicato il 25 aprile, 2013 in Politica | Nessun commento »
L’indicazione di Enrico Letta come possibile nuovo presidente del Consiglio sancisce il carattere politico, non «tecnico» o minimalista del governo che si sta formando per impulso del Quirinale. L’interminabile vacanza di una campagna elettorale rissosa, inconcludente, vuota, incapace di scegliere, potrebbe finalmente concludersi. Abbiamo trascorso mesi da incubo: mentre la politica era prigioniera della sua immobilità, immersa nei suoi temporeggiamenti puerili, la società italiana retrocedeva ogni giorno. La crisi non ha perso tempo, i partiti ne hanno perso sin troppo. Chi nel Pd voleva nascondersi dietro l’indistinto di un governo «tecnico» solo per fingere di aver imparato la brusca lezione impartita da Giorgio Napolitano davanti alle Camere, sarà costretto a ricredersi perché un governo affidato al suo vicesegretario non è un esecutivo incolore cui concedere un credito «obtorto collo». E nel Pdl dovranno dimostrare che la disponibilità a un governo di larghe intese non era solo una trovata propagandistica per mettere in difficoltà un avversario frastornato e drammaticamente diviso al proprio interno, ma un impegno vero, costante nel tempo e non vulnerabile alle incostanze degli umori e dei malumori.
I due partiti maggiori che si accingono a formare un governo presieduto da Letta stanno compiendo un atto coraggioso. Sanno di avere a che fare con l’ansia dei rispettivi elettorati, che vivono talvolta con comprensibile dolore la coabitazione governativa con avversari lontani e ostili. Sanno che per loro questa è l’ultima chiamata. Sanno che non possono fallire. Sanno che dovranno pagare un conto salatissimo, se in tempi brevissimi non sapranno fronteggiare gli effetti di una crisi economica devastante, liberare l’economia italiana dalla morsa di un Fisco insopportabilmente esoso, tutelare con maggior vigore le fasce più deboli della società. Sanno che stavolta nessuno li perdonerà o avrà per loro indulgenza se il Parlamento non avvierà sul serio e nei tempi costituzionalmente più brevi la riforma delle istituzioni, e non solo la legge elettorale da tutti vilipesa ma che nessuno è stato in grado di modificare in un anno e passa di sconcertante paralisi. Sanno che si giocheranno ogni residuo credito se non abbatteranno i costi della politica, dall’abolizione non più rimandabile delle Province fino al drastico ridimensionamento del finanziamento ai partiti. Sanno che non ci saranno tempi supplementari: o si dimostreranno seri, oppure il verdetto dell’opinione pubblica sarà stavolta implacabile.
Per questo il coinvolgimento non svogliato dei partiti, a cominciare da quello del premier Letta, figura interamente politica, può essere un vantaggio e non una pillola amara da ingoiare recalcitranti e malmostosi. Può offrire una motivazione in più a fare le cose urgenti e indispensabili, con convinzione e senza paralizzanti riserve mentali. Un governo vero, dove si vince o si perde. Tutti, senza distinzioni.Pierluigi Battista, Il Corriere della Sera, 25 aprile 2013
……Ieri sera da Bruno Vespa, Giuliano Ferrara l’ha detto chiaro e tondo: ora non sono più tollerabili giochi o giochini, da parte di tutti, senza eccezioni. Se il governo del Presidente non nasce, l’alternativa sono le urne. Con tutto ciò che questo comporta e le conseguenze che ne possono derivare. In Friuli l’altro ieri il 50% degli elettori ha disertato le urne, l’altra metà si è divisa tra centrosinistra e centrodestra, con un arretramento sostanziale dei grillini. Risultati che riflettono una volta di più il marasma e l’incertezza. C’è ancora qualcuno che a dispetto delle necessità del Paese vuole aumentare il marasma e incentivare l’incertezza? Si accomodi, ma si assume gravi e forse irreparabili responsabilità. E’ il momento di passare dalle parole ai fatti: non si può predicare di giorno il bene comune e di notte disfare la tela che Napolitano, inneggiato da tutti, ha tessuto sotto gli occhi e con il consenso di tutti. Per una volta tutti, ma proprio tutti, mettano da parte la fazioni e facciano davvero l’interesse di 60 milioni di italiani. E se è possibile, tutti, ma proprio tutti, cessino di rubare……. anche le uova di cioccolato. g.
E’ MORTO TEODORO BUONTEMPO, “ER PECORA”, UN AMICO CHE NON C’E’ PIU’
Pubblicato il 24 aprile, 2013 in Il territorio | Nessun commento »
Un politico di razza, sempre a destra, che non mollò mai. Si è spento questa notte Teodoro Buontempo, il 67enne presidente della Destra.
Nato a Carunchio (in provincia di Chieti), Buontempo ha cominciato l’attività politica sin da giovane. A Ortona a mare, sempre in Abruzzo, ha mosso i primi passi dirigendo le organizzazioni giovanili dell’Msi. A 22 anni si è trasferito a Roma dove ha partecipato alle lotte studentesche. Dirigente della Giovane Italia, nel 1970 è diventato il primo segretario del Fronte della Gioventù di Roma. È stato deputato in cinque legislature, sempre nelle file di Alleanza nazionale e poi della Destra, nonchè per sedici anni (dal 1981 al 1997) consigliere comunale di Roma. Dal dicembre 1993 al settembre 1994 ha ricoperto anche l’incarico di presidente del consiglio comunale. Nel 2007 ruppe con Alleanza Nazionale per partecipare con Francesco Storace alla fondazione della Destra di cui è presidente. Nel 2008 è stato candidato alla presidenza della provincia di Roma, di cui però poi divenne solo consigliere. Dal 2010, invece, è stato assessore alle politiche per la casa durante la Giunta guidata da Renata Polverini in Regione Lazio.
“La politica – disse molto tempo fa durante la presentazione di un suo libro sui sedici anni di vita politicca in Campidoglio – per valere deve lasciare un segno tangibile da consegnarte alla storia”". E Buontempo, di segni tangibili, ne ha lasciati tanti con le sue battaglie politiche.
“Per fare politica – amava ricordare Buontempo – venni a Roma e vivevo in una 500″. La politica vera, quella di base, tra la gente e nelle sezioni. Per questo era stimato da tutti, “camerati” o “compagni”, amici o detrattori. Era considerato un “pezzo” di politica romana, un uomo di valore capace di coniugare la passione e l’onestà. Un politico d’altri tempi ma sempre pronto a cogliere i tempi che cambiavano.Fonte Ansa.
Un politico di razza, sempre a destra, che non mollò mai. Si è spento questa notte Teodoro Buontempo, il 67enne presidente della Destra.

Nato a Carunchio (in provincia di Chieti), Buontempo ha cominciato l’attività politica sin da giovane. A Ortona a mare, sempre in Abruzzo, ha mosso i primi passi dirigendo le organizzazioni giovanili dell’Msi. A 22 anni si è trasferito a Roma dove ha partecipato alle lotte studentesche. Dirigente della Giovane Italia, nel 1970 è diventato il primo segretario del Fronte della Gioventù di Roma. È stato deputato in cinque legislature, sempre nelle file di Alleanza nazionale e poi della Destra, nonchè per sedici anni (dal 1981 al 1997) consigliere comunale di Roma. Dal dicembre 1993 al settembre 1994 ha ricoperto anche l’incarico di presidente del consiglio comunale. Nel 2007 ruppe con Alleanza Nazionale per partecipare con Francesco Storace alla fondazione della Destra di cui è presidente. Nel 2008 è stato candidato alla presidenza della provincia di Roma, di cui però poi divenne solo consigliere. Dal 2010, invece, è stato assessore alle politiche per la casa durante la Giunta guidata da Renata Polverini in Regione Lazio.
“La politica – disse molto tempo fa durante la presentazione di un suo libro sui sedici anni di vita politicca in Campidoglio – per valere deve lasciare un segno tangibile da consegnarte alla storia”". E Buontempo, di segni tangibili, ne ha lasciati tanti con le sue battaglie politiche.
“Per fare politica – amava ricordare Buontempo – venni a Roma e vivevo in una 500″. La politica vera, quella di base, tra la gente e nelle sezioni. Per questo era stimato da tutti, “camerati” o “compagni”, amici o detrattori. Era considerato un “pezzo” di politica romana, un uomo di valore capace di coniugare la passione e l’onestà. Un politico d’altri tempi ma sempre pronto a cogliere i tempi che cambiavano.Fonte Ansa.
……….Teodoro Buontempo, “er pecora”, protagonista indimenticato di tante battaglie politiche della destra italiana, è morto questa mattina. Aveva 67 anni, buona parte dei quali vissuti all’insegna dei Valori della Destra. Era originario dell’Abbruzzo ma si era trasferito a Roma giovanissimo, senza mezzi, ma armato di una fede incrollabile. Viveva e dormiva nella sua “500″ nei pressi di Stazione Termini e di qui il nomignolo che gli fu affibbiato di “er pecora” che gli è rimasto attaccato addosso per sempre. Era un militante e unm dirigente straordinario, con un carattere gioviale e carismatico. Lo abbiamo conosciuto alcuni decenni fa, dopo che il MSI si era trasformato in Destra Nazionale, ad un campo scuola del Fronte della Goventù in un albergo di Montesilvano, nel suo Abruzzo. Simpatizzammo subito e fu amicia a prima vista tra una lezione e l’altra di politica e di cultura, animatore il filosofo Armando Plebe, uomo di sinistra che si provò in quegli anni lontani a dare una immagine nuova della cultura di destra. Ci tenemmo in contatto, talvolta ci scambiavamo gli auguri. Poi venne la scissione del MSI-DN, ciascuno prese una strada diversa. Ci siamo rincontrati, per caso, decenni dopo, ad una manifestazione del centrodestra, e fu come se non ci fossimo mai lasciati. Avevamo ripreso a tenerci in contatto. La notizia della sua morte ci rattrista. Lo ricorderemo per sempre. g.
VIRTU’ REPUBBLICANE, di Antonio Polito
Pubblicato il 23 aprile, 2013 in Politica | Nessun commento »
Oggi che l’espressione «uomo del secolo scorso» suona quasi come un insulto, bisogna onorarla in Giorgio Napolitano, nato nel 1925, appena sette anni dopo la fine della Grande Guerra, e appena chiamato ad altri sette anni di servizio alla Repubblica, che gli auguriamo duri fino al 2020. Perché è vero che i giovani sono il nerbo di una nazione, ma ci sono momenti in cui anche loro hanno bisogno della lezione dei padri della patria.
Questo è stato, una lezione di virtù repubblicana, il discorso breve, severo, ma intriso di commozione personale, con cui Napolitano non ha parlato al Paese, ma in nome del Paese. Ai parlamentari ha detto: la politica non è uno stato di guerra di tutti contro tutti, è un modo di governare la cosa pubblica; come tutti gli italiani, sono stanco di ricordarvelo; voi non rappresentate qui le vostre fazioni, e nemmeno i vostri elettorati, ma la nazione intera.
Il presidente, pur sempre esplicito, non aveva mai parlato così fuori dai denti. Ha indicato le cause del misero stato attuale nella «lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità» dei partiti. Ha indicato nella «imperdonabile» mancata riforma del Porcellum la causa dell’ingovernabilità, e nella gara per la conquista del suo «abnorme premio» il miraggio che ha incantato il Pd di Bersani, «vincitore che ha finito per non riuscire a governare una simile sovra-rappresentanza» (del resto anche il vincitore precedente, che nel 2008 aveva ottenuto una ben più solida maggioranza, se l’era vista evaporare nel giro di due anni). Ha poi ricordato al Movimento 5 Stelle che la via del cambiamento non è nella contrapposizione tra Parlamento e Paese, e che tutti i partiti e i movimenti politici sono comunque vincolati «all’imperativo costituzionale del metodo democratico» (frase, almeno quella, che i parlamentari grillini avrebbero fatto bene ad applaudire).
Soprattutto Napolitano ha spiegato a tutti, specialmente ai tanti nuovi deputati che in queste settimane hanno più volte dimostrato di non saperlo e a chi li aizza dall’esterno, che la politica democratica consiste nel fare i conti con la realtà del risultato elettorale, e che non se ne può più di questa «sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze»; perché nessun partito ha vinto le elezioni, e d’altra parte in tutti i Paesi d’Europa governano delle coalizioni, talvolta anche tra forze in competizione, o perfino avverse tra di loro. A meno di non voler «prendere atto della ingovernabilità». Ma, alzando la voce, a questo punto Giorgio Napolitano ha aggiunto la frase chiave del discorso: «Non è per prendere atto di questo che ho accolto l’invito a prestare di nuovo giuramento come presidente della Repubblica».
Napolitano formerà dunque un governo. Spetterà alle Camere dargli la fiducia. «Se mi troverò di nuovo davanti a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato – ha concluso – non esiterò a trarne le conseguenze davanti al Paese». Stavolta dispone di un’arma più forte della moral suasion , e la userà. Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 23 aprile 2013
…….Ieri il Presidente Napolitano, nel suo discorso alle Camere ma sopratutto al Paese, ha duramenbte sferzato la classe politica, tutta, senza esclusioni, che lo ha appaludito, ricevendone da Napolitano una dura rampogna: non pensiate che l’applauso alle mie parole, ha sottolineato il Presidente, cosituisca una ammenda per voi. Anzi… Anzi se non opererete, da ora in poi, nel solco degli interessi nazionali ne trarrò le conseguenze dinanzi al Paese. La casta avrà capito il monito di Nappolitano? Ci basteranno poche ore per accertarlo. Nel frattempo Napolitano si guadagna, egli solo, la medaglia di patriota. g.
NAPOLITANO:UN GRANDE GESTO D’AMORE PER L’ITALIA
Pubblicato il 21 aprile, 2013 in Il territorio, Politica | Nessun commento »
Nell’arco di due mesi due eventi di portata storica mai accaduti prima: a febbraio un Papa dimissionario e ora un Presidente che succede a se stesso. Ci sarebbe anche il terzo evento: la protesta rabbiosa e antidemocratica dei grillini, in piazza Montecitorio, alla proclamazione, scatenata dal commento «Questo è un golpe», lanciato da Grillo in marcia su Roma.
Napolitano, già il primo ex comunista a salire al Colle, da ieri detiene un altro primato: un Presidente della Repubblica bis. Aveva detto che sarebbe stata una «soluzione pasticciata» la sua permanenza al Quirinale ma alle richieste di Bersani, Berlusconi e Monti non ha potuto dire no. Una soluzione che, già un anno fa, dalle colonne di questo giornale, consideravamo come l’unica possibile perché Re Giorgio oltre che una figura istituzionale di alto profilo, dentro e fuori l’Italia, è un politico capace di tenere insieme il sistema partitico italiano, passato dal bipolarismo al tripolarismo con l’ingresso in campo dei pentastelluti che stentano a trasformarsi da movimento di lotta a movimento di governo. Un mandato che non rientrava nei progetti ma che il «migliorista» ha accettato con generosità, senso di responsabilità, spirito di sacrificio, attaccamento alla cultura democratica per salvare il Paese, per far uscire dal terribile stallo la sua Italia in piena crisi istituzionale ed economica. Napolitano, punto di equilibrio per tutti, salva così anche il Pd, «un» partito che non c’è più e che in tre giorni di elezioni del Presidente ha sacrificato due vittime, Marini e Prodi, e perso il segretario Bersani. Un partito in frantumi che si avvia al congresso e su cui Grillo, candidando Rodotà (preferito anche dal futuro leader della sinistra, ma non grande elettore, Fabrizio Barca) ha lanciato un’opa.
Grande sconfitta è donna Clio. La nostra first lady è sempre stata la più contraria al prolungamento della missione al Colle di Re Giorgio. Dopo sette anni vissuti al massimo voleva «godersi» il marito ed evitargli altre preoccupazioni… Non è mancanza d’amore, gentile donna Clio, ma più di lei è l’Italia ad aver bisogno di suo marito, il Presidente della Repubblica bis Giorgio Napolitano.
…..Per Giorgio Napolitano non abbiamo mai provato grande simpatia. Per via del suo passato di comunista ortodosso, sin nel midollo, tanto da aver giustificato tra l’altro la invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956 e anche quella di Praga del 1968. Però non abbiamo mai dubitato delle sue capacità politiche e del suo sapersi muovere all’interno delle Istituzioni repubblicane, tutte, sino alla più alta, scalate non sempre per via delle sue capacità, talvolta per via del suo sapersi immergere all’occorrenza. Così avvenne nel 2006, all’indomani della vittoria elettorale di Prodi. Non era Napolitano il candidato della allora maggioranza alla Presidenza della Repubblica ma lo era Massimo D’Alema. Vinse Napolitano, eletto dalla sinistra con il voto bianco del centrodestra. Nei sette anni da allora trascorsi non si può negare che Napolitano, a capovolgere i dubbi per via del suo passato, ha dimostrato di essere, pur non rinnegando la sua cultura, un Uomo di Stato, capace di superare le fazioni per essere uomo di unità. Nel corso di questi sette anni non sono mancate ragioni di critiche al suo operato ma mai nessuno ha potuto mettere in dubbio la lealtà dei suoi comportamenti, anche quando ha prodotto scelte non sempre condivise o condivisibili, come nel caso del governo Monti. Ieri però Napolitano si è guadagnato la medaglia di patriota. Ha accettato di essere rieletto alla Presidenza della Repubblica benché la sua età lo avesse indotto a rifiutare con forza tale evenienza quando gli era stata prospettata. Ma dinanzi alla clamorosa sconfitta della politica dei partiti, che annaspava tra squallide faide interne e pur legittime voglie di rivincita, Napolitano ha fatto violenza a se stesso ed ha accettato di essere rieletto, sia per superare lo stallo determinato dalla totale inconsistenza dei partiti, sia per offrire ai partiti una seconda chance per trovare e varare provvedimenti, economici e istituzionali, per tirare fuori l’Italia dalle secche in cui si è impantanata. Se e quanto i partiti sapranno cogliere questa opportunità lo vedremo nei prossimi giorni. Ma oggi non possiamo non dare atto a Napolitano di aver compiuto un vero, grande, straordinario atto d’amore per l’Italia. Grazie, Presidente. g.
LE VOLPI E I LEONI DELLA REPUBBLICA, di Angelo Panebianco
Pubblicato il 15 aprile, 2013 in Il territorio | Nessun commento »
Siamo alla vigilia di una mutazione della Repubblica italiana? Le «volpi» stanno per essere sopraffatte dai «leoni»? È accaduto tante volte. Sta per accadere in Italia? Il modo in cui avverrà l’elezione del presidente della Repubblica non ci darà la risposta conclusiva ma forse chiarirà quale sia la direzione del nostro cammino. Tutto si riduce a un interrogativo: il Movimento 5 Stelle sarà determinante nella elezione del presidente, i suoi leader potranno intestarsi, di fronte alla opinione pubblica nazionale e internazionale, il titolo di king-makers ? Se ciò accadrà guadagneranno una legittimazione che li galvanizzerà e li renderà fortissimi, e anche coloro che si sono fin qui ostinati a non prendere sul serio le loro idee, la loro visione del mondo, i loro programmi, dovranno abbandonare ogni illusione. Perché nessuna delle due strategie immaginate per fronteggiare l’affermazione di questo nuovo soggetto politico reggerebbe.
Risulterebbe impraticabile la strategia passiva (« ha da passà ‘a nuttata »), di chi immagina che i 5 Stelle siano una meteora (come L’Uomo Qualunque o i poujadisti nella Francia degli anni Cinquanta) e che sia sufficiente aspettare che si distruggano da soli. Così come risulterebbe illusoria la strategia di chi ha pensato che fosse possibile coinvolgerli nel gioco politico con lo scopo di addomesticarli, di de-radicalizzarli (o, in subordine, di dividerli). Vari precedenti storici testimoniano di come il tentativo suddetto possa facilmente risolversi in un suicidio politico.
Il guanto della sfida alla nostra acciaccatissima democrazia rappresentativa è stato lanciato e, fino ad oggi, senza sbagliare un colpo. Non è vero che la democrazia rappresentativa sia sul punto di essere resa obsoleta, nel mondo occidentale, per l’avvento della cosiddetta democrazia del web. La democrazia rappresentativa è oggi, quasi dappertutto in Europa, in grave sofferenza a causa di una prolungata crisi economica. Solo in Italia (e in pochi altri luoghi), però, potrebbe uscirne davvero travolta o stravolta. Per la gracilità e il malfunzionamento delle nostre istituzioni e la radicalità degli odi che dividono le élite politiche tradizionali.
Occorrerebbe un governo stabile per porre in essere le condizioni necessarie alla ripresa economica. Ma la profondità della crisi politico-istituzionale, e il no di Bersani e dei suoi seguaci a un accordo con Berlusconi, rendono, al momento, impossibile la sua nascita. È un circolo vizioso: l’incapacità della politica tradizionale di trovare soluzioni stabili pone le condizioni per un ulteriore aggravamento della crisi economica e ciò promette di fare ulteriormente lievitare la protesta contro la politica tradizionale. Dove si colloca il punto di rottura? Quale è il momento superato il quale non c’è più ritorno?
La democrazia assembleare, checché molti oggi ne pensino, non è la soluzione. Ha funzionato qualche volta, solo in comunità piccole e isolate, autarchiche. Ove prevalgono le grandi dimensioni e l’interdipendenza sostituisce l’autarchia, la democrazia rappresentativa è la sola democrazia possibile. La partecipazione via web può influenzarla ma non surrogarla.
La sfida portata da un movimento rivoluzionario come i 5 Stelle risulterà, col senno del poi, un grande servizio per il Paese se convincerà anche i più accesi conservatori della necessità di un nuovo patto costituzionale, di una rigenerazione della democrazia rappresentativa mediante radicali innovazioni.Angelo0 Panebianco, Il Corriere della Sera, 15 aprile 2013
ORA LA POLITICA DEVE DECIDERE, di Michele Ainis
Pubblicato il 13 aprile, 2013 in Il territorio | Nessun commento »
I nostri dieci saggi si sono trasformati in dei saggisti. Nel senso che hanno generato un saggio, e nemmeno tanto breve: 83 pagine la parte scritta dal gruppo di lavoro sull’economia, 29 pagine quella firmata dal gruppo sulle riforme istituzionali. Ne valuteremo (pardon, ne saggeremo) a mente fredda le proposte, dove indubbiamente non manca qualche buona idea, specie sulla crescita, sulla concorrenza, sul lavoro. Quanto alle istituzioni, s’incontrano alcune idee esatte e altre originali. Peccato che le idee esatte non siano originali, mentre quelle originali suonino inesatte.
È il caso, per dirne una, dell’intenzione di rinvigorire il referendum, in modo che i cittadini possano contare davvero. Come? Elevando il numero delle sottoscrizioni necessarie per indirlo. Idem sulle leggi popolari, tanto per raffreddare gli entusiasmi. È il caso, per dirne un’altra, del progetto d’istituire la quarta Bicamerale, come se tre flop di fila non fossero abbastanza. È infine il caso delle sanzioni disciplinari ai magistrati: qui i saggi propongono una Consulta bis, disegnata e designata con i medesimi criteri. Dopo di che ci sarà un bel derby da giocare.
Quanto al resto, il gruppo di lavoro ha brevettato una nuova Camera: la Camera dell’ovvio. E dunque via al processo breve, come se qualcuno lo desiderasse lungo. Stop al sovraffollamento carcerario, riducendo le pene detentive. Una legge sui partiti, peraltro già suggerita da don Sturzo nel 1958. Un’altra sulle lobby, sollecitata invano da 40 progetti finora depositati in Parlamento. Robuste sforbiciate al numero dei parlamentari, così come alle competenze regionali (silenzio, però, sulle Province). Superamento del bicameralismo paritario. Pensose riflessioni sul troppo diritto che ci portiamo sul groppone. E la forma di governo? Qui i 4 saggi si dividono; ma quella parlamentare batte il presidenzialismo per 3 a 1.
Sarà stato per questo, per non alimentare ulteriori divisioni, che sulla legge elettorale il gruppo di lavoro ha scelto di non scegliere. Squadernando sullo scrittoio del presidente tutto il rosario dei modelli: francese, tedesco, spagnolo o altrimenti misto com’era il Mattarellum . Sicché Solone diventa Rigoletto: «Questa o quella per me pari sono». Certo, noi poveri mortali ci saremmo attesi una più netta indicazione. Tuttavia per ottenerla avremmo dovuto prelevare i saggi da Oltreoceano. Oppure anche in Italia, però da una parrocchia sola.
È la nostra tragedia nazionale: non sappiamo più parlarci. Se metti due italiani attorno a un tavolo, tirano fuori tre soluzioni contrapposte. E per conseguenza siamo incapaci di decidere, mentre là fuori il mondo corre veloce come un jet, mentre l’economia reclama risposte rapide, immediate. Anche l’espediente dei due gruppi di lavoro, escogitato da Napolitano per favorire la decantazione della crisi, si è concluso con una messa cantata. Per forza: ogni partito è affetto dal vizio di Narciso, si specchia nella propria immagine riflessa, osserva il proprio ombelico senza curarsi dell’ombelico altrui.
Almeno un risultato, tuttavia, i saggi ce lo hanno consegnato: per la prima volta si legge in un documento ufficiale il ripudio del Porcellum . Sempre ieri, il presidente Gallo ci ha ricordato come il monito della Corte costituzionale sia caduto nel vuoto, rendendo il Parlamento inadempiente. Chissà, forse questo doppio altolà potrà smuovere l’inerzia del governo a provvedere con decreto. Sempre che il governo decida di decidere.
DUE SCENARI DA EVITARE, di Angelo Panebianco
Pubblicato il 10 aprile, 2013 in Il territorio, Politica | Nessun commento »
I parlamentari che fra meno di due settimane dovranno scegliere il prossimo presidente della Repubblica sono certamente consapevoli delle poste in gioco secondarie connesse a quella scelta, ma non sembrano esserlo altrettanto di quella principale. La posta in gioco principale non è, detto con tutto il rispetto, il destino personale di Bersani o di Berlusconi. E nemmeno la scelta fra un governo di tregua e le elezioni. La posta in gioco principale è il destino della Repubblica. Parole grosse, certamente, che richiedono una spiegazione. Che sia in gioco il destino della Repubblica dipende dal fatto che la concomitanza di tre crisi (economica, politica, istituzionale) fa della Presidenza l’unico possibile «luogo» di difesa e di (parziale) stabilizzazione della democrazia rappresentativa. Un ruolo altamente politico, politicissimo, che va molto al di là della pura funzione di garanzia. Un ruolo imposto dalla forza delle cose e non dalla volontà di chicchessia. Un ruolo non previsto in questi termini dalla Carta del 1948, checché ne dicano certi costituzionalisti esperti nel gioco delle tre carte, che inventano sempre nuovi argomenti ad hoc per dimostrare che nulla è mai cambiato.
Tutti oggi si concentrano, comprensibilmente, sullo stallo politico prodotto dalla mancanza di una maggioranza parlamentare. Ma questo è forse il minore dei nostri guai. Chi pensa che sarebbe sufficiente riformare la legge elettorale non capisce o finge di non capire. Gli sfugge la gravità e la profondità della crisi. Significa che nemmeno il clamoroso successo del Movimento 5 Stelle è riuscito a scalfire tante pseudo-certezze. Non si tiene conto di quanto sia ormai profonda la crisi dello Stato: come testimonia la condizione in cui versa l’amministrazione pubblica (che dello Stato, qui come altrove, è il cuore). Né si tiene conto del fatto che la fragilità della classe politica parlamentare non ha facili soluzioni. Se anche dalle prossime elezioni dovesse uscire una maggioranza di governo, quella fragilità non verrebbe meno. Perché ha a che fare con la debolezza e la precarietà dei rapporti fra i partiti e gli elettori. Voto di protesta, frammentazione politica e etero-direzione (gruppi extrapolitici di varia natura che impongono le proprie scelte a una classe partitica priva di forza e di autorevolezza proprie) ne sono la conseguenza.
In queste condizioni, sulle spalle del presidente della Repubblica, grazie alla durata del suo mandato, ai suoi poteri formali e di fatto, e al carisma che circonda l’istituzione della Presidenza (un carisma cresciuto nel tempo a partire da quando, negli anni Ottanta, iniziò la crisi della Repubblica dei partiti), è stato caricato un peso da novanta. Spetta a lui, o a lei, con le sue scelte, tenere insieme la Repubblica. Le sue qualità e capacità personali diventano decisive.
Non si tratta, moralisticamente, di deprecare il fatto che i politici badano, anche nella scelta di un Presidente, ai propri interessi di breve termine. È così, è un fatto. Deprecarlo è come prendersela con la legge di gravità perché ci impedisce di librarci nell’aria. Si tratta però di pretendere la consapevolezza che l’inevitabile perseguimento degli interessi di breve termine, partigiani, delle varie forze politiche, debba conciliarsi con il carattere strategico (per la sorte della Repubblica) della elezione del nuovo Presidente.
Nelle circostanze presenti, significa evitare che si realizzi l’uno o l’altro di due scenari, entrambi potenzialmente esiziali. Lo scenario A (da evitare) è quello di un accordo al ribasso: si sceglie una figura di scarsa rilevanza, in grado di svolgere solo un ruolo notarile, una figura che non riuscirebbe a entrare in sintonia con l’opinione pubblica, ad acquistare quella popolarità, e anche quel carisma personale, che, ormai, la dilatazione del ruolo politico della Presidenza impone.
Lo scenario B (anch’esso da evitare) è quello della scelta di una persona, magari anche dotata di un certo prestigio personale di partenza ma che, per le modalità della sua elezione, appaia all’opinione pubblica, come il Presidente di una sola parte. Il che accadrebbe oggi (il pericolo non è ancora del tutto rientrato) se un partito come il Pd, reduce da una non-vittoria elettorale, si eleggesse qualcuno di sua scelta acchiappando voti grillini in libera uscita. Quel Presidente sarebbe, fin dall’inizio del suo mandato, un’anatra zoppa. Ogni sua mossa verrebbe interpretata alla luce di quel vizio d’origine, sarebbe accompagnata da cori (applausi e fischi) da stadio. Le tante decisioni difficili e sofferte che dovrebbe prendere, nel corso del suo settennato, stante la persistente fragilità della classe politica parlamentare, avrebbero sempre l’effetto di dividere e mai di unire il Paese. Aggravando ulteriormente la crisi della Repubblica.
Uomo o donna che sia, il prossimo Presidente non potrà essere né una mezza figura né un’anatra zoppa. Perché dovrà unire (come è riuscito a Giorgio Napolitano), in tempi cupissimi per la nostra democrazia, la funzione del garante di tutti e le qualità politiche ormai richieste a un Presidente. Per questo è così strategica la sua scelta.
Naturalmente, sarebbe anche tempo di capire che, se si vorrà mettere in sicurezza la Repubblica, non si potrà ancora a lungo pretendere di «contenere» il ruolo del Presidente entro le formule costituzionali vigenti, occorrerà decidersi a ricomporre il rapporto fra potere e responsabilità mediante la sua elezione diretta. Ma questo passo, così logico e così necessario, richiederà alle classi dirigenti del Paese molta più energia morale e intellettuale, e molta più forza, di quelle oggi disponibili. Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera, 10 aprile 2013
………………….Ci sembra che la conclusione del “ragionamento” di Panebianco, oltre che la necessità di evitare nella elezione del nuovo Capo dello Stato i due scenari delineati dallo stesso Panebianco, sia, in prospettiva, la parte più importante: bisogna che ad eleggere il Capo dello Stato siano gli elettori, cosicchè da sottrarlo alle alchinie di partito e dal rischio che ogni volta si paventino i due scenari- A e B - prospettati da Panebianco. E’ ciò che sostiene il centrodestra, almeno a parole: il fatto che ora se ne faccia portavoce un politologo non certo di destra come Panebianco è un fatto da evidenziare. Ciò significa che la elezione diretta del Capo dello Stato, come avviene in tante democrazie occidentali, dagli USA alla Francia, non è più un tabù e non è solo un obiettivo del centro destra. Di oggi e di ieri. Negli anni ‘70 del secolo scorso a farsi portavoce di questa richiesta era il MSI e tanto bastava per rendere la proposta non accettabile dall’allora arco costituzionale che la considerava eversiva. Ma anche allora, in quegli anni turbolenti, ci fu anche chi da “sinistra” sostenne la stessa cosa. Chi ricorda Randolfo Pacciardi, uomo delle Istituzioni, ministro, ex partigiano, ex azionista, poi repubblicano, espulso dal PRI di Ugo La Malfa e quindi fondatore del Movimento “Nuova Repubblica”? Pochi lo ricordano anche perchè nella parte finale della sua vita politica le sue scelte furono oggetto di furibonde polemiche e di accuse al limite del ridicolo e del grottesco: fascista! E ciò solo perchè Pacciardi, sulla cui etica democratica non potevano esserci dubbi, con il suo Movimento si schierò apertamente a favore della trasformazione della nostra Repubblica parlamentare in Repubblica presidenziale. Sono passati da allora quattro decenni, un tempo enorme per la politica e per la vita del Paese, sono morte la prima e la seconda repubblica e alll’alba della nascita, forse, della terza, si ripropone il dilemma di un quarantennio fa: può restare in piedi l’impalcatura istituzionale nata dalla guerra e ormai sporofondata nella più totale incapacità di rispondere alle esigenze del mondo moderno, o non è giunto il momento di cambiare e di cambiare innazitutto il modello di Repubblica? Noi la pensavamo così ieri, la pensiamo ancor di più così oggi. Che sia la volta buona? Dipenderà solo dai partiti e dai loro personali egoismi se anche questa volta non si vorrà prendere il treno della storia e della modernità. g.
ADDIO A MARGARETH THATCHER, LA LADY DI FERRO INGLESE
Pubblicato il 8 aprile, 2013 in Politica estera | Nessun commento »
Si è spenta la Lady di Ferro, the Iron Lady come veniva affettuosamente chiamata in madrepatria. Margaret Thatcher, primo ministro britannico dal 1979 al 1990, prima e ad oggi unica donna a ricoprire la carica di premier del Regno Unito e a soggiornare a Downing Street per ben tre mandati. Da tempo residente in un noto albergo londinese, luogo che aveva scelto come dimora, la Thatcher si è spenta stamattina all’età di 87 anni dopo esser stata colpita da un ictus. La notizia è stata data dal suo portavoce, Lord Bell.
Nata Margaret Hilda Benson, figlia di un onesto ma umile droghiere di campagna, la baronessa Thatcher, dimostrò un’incrollabile determinazione scalando prima il bastione maschilista del partito Conservatore e poi guidando con il pugno di ferro il Regno Unito.
Da subito con il suo piglio decisionista tentò di far dimenticare il suo essere donna: con un lungo e durissimo braccio di ferro interno scontrandosi con il sindacato dei minatori di Arthur Scargill (1984-1985) e sul fronte esterno recuperando l’orgoglio nazionale della gloriosa ‘Britannia’, appannato, prima del suo arrivo a Downing Street, dalla tragica spedizione di Suez nel 1956, reagendo all’invasione delle Falkland ordinata dalla giunta militare argentina nel 1982. Il trionfo, a caro prezzo, della Falkland ful la spinta propulsiva su cui costrui’ il suo trionfo fino al tradimento interno e alla sua caduta nel 1990 per la fronda guidata da Michael Heseltine.
“Triste”. Così è lo stato d’animo della Regina Elisabetta, espresso in una nota di Buckinghan Palace sulla morte di Margaret Thatcher, peraltro rispettatta, ma mai amata dalla sovrana. La Gran Bretagna ha perso “un grande leader”, è stato invece il commento del primo ministro David Cameron. Impegnato in un viaggio in Europa, il primo ministro britannico ha deciso di rientrare subito da Madrid e nelle prossime ore sarà di nuovo a Londra, saltando la prevista tappa a Parigi dove avrebbe dovuto avere una cena di lavoro con il presidente francese, Francois Hollande. “Con grande tristezza”, ha aggiunto Cameron, “ho appreso della sua scomparsa. E’ stato un grande leader, un grande primo ministro e una grande britannica”. Fonte ANSA, 8 aprile 2013
.…………..La storia personale e politica della signora Thatcher dvrebbe insegnare qualcosa ai tanti sponsor delle liste di genere, finalizzata ad assicurare posti di potere – in ogni luogo – alle donne al di la dei loro meriti e delle loro capacità. La carriera della signora Thatcher non fu supportata da alcun privilegio in quanto donna, ma perchè brava e sopratutto di polso, molto più di tanti uomini che le contendevano il potere, prima nel partito conservatore, e poi al governo. E al governo seppe essere molto più uomo di qualsiasi altro uomo prima di lei, salvo Churchill che non a caso era il suo modello, governando con piglio e sicurezza uniti a notevole sagacia e acume politici che la iscrivono di diritto fra i più rispettati e anche amati goverrnanti inglesi degli ultimi due secoli. Non fu europeista, come nessun inglese lo è e lo è mai stato, ma ciò non le impedì di parecipare attivamente alle tante tappe della integrazione economica europea, meno, molto meno, e forse non fu per l’Inghilterra una scelta sbagliata, quella politica. g.