La frettolosa offerta di Bersani a Grillo è il frutto di un vizio antico: inseguire ogni nuovo radicalismo come se fosse una «costola della sinistra», sperando così di riassorbirlo. Ma Grillo, nonostante abbia strappato molti elettori alla sinistra, non è un compagno che sbaglia. È un’altra cosa. E per capire che cos’è andrebbe innanzitutto preso in parola. La sua risposta a Bersani è infatti un programma politico: 1) non voterò mai la fiducia a nessun governo; 2) non certo a chi è stato sconfitto e si sarebbe già dovuto dimettere; 3) se proprio volete, votate voi la fiducia a un governo 5 Stelle. Tutto dice che non sta bluffando. Il suo movimento è nato per spazzare via il sistema dei partiti; perché mai dovrebbe accorrere a salvarlo proprio ora che è morente? Non sarà il senso di responsabilità a frenarlo, non ne ha: se la promessa di rimborsare l’Imu di Berlusconi è «voto di scambio», la sua proposta del reddito di cittadinanza è «aggiotaggio». E poi Grillo vuole cambiare il mondo, è portatore di una vera e propria ideologia: si batte per la decrescita felice, un’Italia in cui tutti siano più poveri ma più solidali ed ecocompatibili, «meno lavoro, meno energia, meno materiali». Non la svenderà per sedersi al tavolo di una trattativa politica.
Naturalmente possiamo sbagliarci. Ma, se non ci sbagliamo, il rompicapo italiano paradossalmente si semplifica. È infatti fuori discussione che bisogna formare un governo. Finché non ce n’è uno, nessuno investe, nessuno compra, nessuno presta: l’anno potrebbe finire con un altro crollo del due per cento di Pil. La decrescita è già tra noi, e non sembra affatto felice.
Serve dunque una maggioranza che voti la fiducia a un governo in entrambe le Camere. Se Grillo si escluderà, resteranno solo in tre: il Pd, il Pdl e Monti. La soluzione si trova lì, o non si trova.
È possibile? È molto difficile. Ma la comune rovina potrebbe diventare un’opportunità. Avendo perso insieme più di dieci milioni di voti, i due partiti maggiori dovrebbero cercare un nuovo inizio, piuttosto che sperare in un colpo di fortuna al casinò con un altro giro di Porcellum . Hanno entrambi bisogno di tempo per emendarsi, rigenerarsi, farsi perdonare. Il disastro politico che abbiamo di fronte è colpa loro. Del resto il Paese ha bisogno di qualcosa che solo loro possono fare: la riforma di una democrazia parlamentare che non funziona più. Da tempo il Pd chiede il modello elettorale a doppio turno; da tempo il Pdl aspira al presidenzialismo. Basterebbe sommare le due cose per darsi un sistema istituzionale forte come in Francia, che garantisce esiti elettorali certi e governi stabili.
A Grillo i partiti potrebbero rubare il programma di moralizzazione della vita politica semplicemente applicandolo, e nel modo più integrale: azzeramento del finanziamento pubblico, dimezzamento del numero dei parlamentari, eliminazione del Senato (diventerebbe una Camera dei rappresentanti delle Regioni), abolizione delle Province. In prima fila dovrebbero mandare la seconda generazione, accantonando i gruppi dirigenti attuali: quello del Pd perché ha perso troppe elezioni, quello del Pdl perché ha fallito in troppi governi. A Palazzo Chigi dovrebbe andare un homo novus , meglio se donna, e al Tesoro una personalità fuori dalla mischia che applichi gli impegni che abbiamo già preso con l’Europa. Un governo sostenuto dai due maggiori partiti avrebbe forse la forza di trattare con la Germania per un allentamento dell’austerità e con la Bce nell’eventualità di un paracadute; mentre ogni governicchio sarebbe un paria sulla scena internazionale e ogni avventura sarebbe un incubo.
Se fossimo in Germania un governo così sarebbe già nato, e non è escluso che un risultato elettorale ambiguo lo faccia nascere davvero anche lì a fine anno. In Italia ha davanti a sé due formidabili ostacoli: la guerra civile strisciante che dura da vent’anni e la posizione giudiziaria di Silvio Berlusconi, che a lui fa sognare lo scudo di una carica istituzionale e ai suoi nemici fa sperare in un nuovo esilio d’oltremare. Ma il Pd e il Pdl devono sapere che quando i partiti non servono a governare vengono spazzati via. In Francia stavano per farlo i generali, prima che de Gaulle desse vita alla Quinta Repubblica. In Italia sta per farlo Grillo. Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 1° marzo 2013
Dalle otto di questa sera, la Sede di Pietro sarà vacante. Secondo una modalità senza precedenti nei duemila anni di storia della Chiesa. Il Papa rinuncia al ministero petrino senza, per questo, scendere dalla barca di Pietro. Perché il suo accettare «sempre» e «per sempre» la chiamata rivoltagli dal Signore il 19 aprile del 2005, non è contraddetto dalla sua scelta. Perché «il “sempre” è anche un “per sempre”», e non c’è, da questo, ritorno a una vita “normale”. «Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di San Pietro».
Congedandosi ieri dai fedeli, nella sua ultima udienza generale, Benedetto XVI ci ha fatto l’ultimo regalo di un altro, indimenticabile discorso. Intriso di commozione per il momento e di amore per la Chiesa, e di riconoscenza per quanto ricevuto. Un discorso semplice e, a un tempo, altissimo, per ringraziare di quanto gli è stato donato, e senza un cenno a quanto lui ha dato. Alla Chiesa, a tutti noi. A un mondo che ieri ha seguito il suo saluto in silenzio, trovando nelle sue parole pacate, quiete, serene, le risposte a tutti i “perché” – gli umanissimi, sgomenti perché? di chi il Papa lo ama, ma anche i perché, senza punto interrogativo, di chi ha preteso di spiegare le “dimissioni” in una logica mondana – che in questi giorni si sono affastellati l’uno sull’altro attorno alla rinuncia.
Adesso capiamo, sappiamo. Da stasera, il Papa è nascosto “agli occhi del mondo”, ma non “nascosto al mondo”. C’è. Ci è vicino. Un distacco necessario, dopo che «in questi ultimi mesi, ho sentito che le mie forze erano diminuite», maturato nella preghiera «per farmi prendere la decisione più giusta non per il mio bene, ma per il bene della Chiesa». Fino a una scelta compiuta «nella piena consapevolezza della sua gravità e anche novità, ma con una profonda serenità d’animo».
Perché «amare la Chiesa significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi». Scelta grave, dunque. Stridente con un mondo che cerca disperatamente, quasi a tutti i costi, di vivere sotto i riflettori, e rispetto al quale Papa Benedetto ci ha mostrato l’imprescindibile valore dell’essere.
Un essere contrapposto a un apparire che, sempre più spesso, malinconicamente, è solo un sembrare. Essere uomo di fede radicalmente, fino in fondo, senza compromessi. Testimoniando, ancora una volta, la coerenza con la sua idea di essere sacerdote, che non può, non deve coincidere mai, in nessun modo, con l’attaccamento a un ruolo o a una carriera, ma ministero, servizio, a ogni livello, in ogni momento, della Chiesa e alla Chiesa. Chiesa che non è nostra, ma di Dio. C’è voluto un coraggio da leone, e una fede incrollabile, per fare quello che Papa Benedetto ha fatto. Non lo potremo mai ringraziare abbastanza, per questo e per come, da padre e da maestro, ce lo ha spiegato e sempre meglio fatto comprendere. E se, umanamente, non riusciamo a non sentirci un po’ tristi, anche questo, paradossalmente, fa parte di quella «gioia di essere cristiano» che Papa Benedetto, salutandoci, ci augurato di poter noi tutti, sempre, sentire. Salvatore Mazza, 28 febbraio 2013
Ieri Berlusconi ha aperto il suo videomessaggio ricordando una frase del programma Pdl: l’Italia è il Paese che amo.
Sotto la neve di Monaco di Baviera lo ha pensato e lo ha fatto capire ai tedeschi anche Giorgio Napolitano, che con la voce rotta dalla commozione, ha detto: «Esigiamo rispetto per il nostro Paese». Ha difeso così l’Italia, all’indomani della tempesta perfetta del risultato elettorale, perché la frase di quel gaffeur di Peer Steinbrueck non gli è proprio andata giù. Del resto il candidato cancelliere della Spd aveva definito i due vincitori delle elezioni, Grillo e Berlusconi, «due clown». E meno male che Napolitano c’è.
Perché di quelle parole «fuori luogo e peggio», indirizzate a due esponenti politici, ma soprattutto alla metà del popolo italiano e sovrano che li ha votati, pare non essersi accorto nessuno. Un insulto ben più grave dell’epiteto «culona» con cui Berlusconi definì la cancelliera Merkel e per il quale si levarono cori di moralisti e benpensanti che presero le distanze da quel maleducato, rozzo, maschilista Cavaliere.
Ieri nessuna indignazione, nessun risentimento, nessun «vaffa» contro chi si ostina a considerarci «pulcinella» dell’Europa, spaghetti e mandolino o, peggio, spaghetti e pistola. Il presidente, già nel semestre bianco, ha difeso con un colpo solo l’unità e la dignità nazionale oltre che l’autonomia democratica di un’Italia che si appresta a vivere una fase politica inedita seppur preoccupante, difficilmente comprensibile per i tedeschi, con tre «minoranze» alla ricerca del dialogo impossibile. Quei partiti, Pd, Pdl e Movimento 5 Stelle, che lo stesso Napolitano, non solo riconosce come frutto della volontà dell’elettorato, ma che lui ascolterà senza alcuna preclusione, per poi decidere a chi affidare l’incarico.
Governo a parte, l’Europa ci guarda e il Paese va orgogliosamente difeso. L’arma più adatta è l’unità dell’Italia fatta di Comuni e Regioni non di «macroregioni». Con rispetto di Maroni. Sarina Biraghi, Il Tempo, 28 febbraio 2013
……Almeno questa volta Napolitano c’è!
Attenzione, i nemici non sono Bersani o Grillo, che ad abbattere Berlusconi ci hanno provato senza successo.
Ancora una volta il pericolo arriva dalla magistratura che, come dimostra il patetico caso Ingroia, era ed è politicizzata. E da ieri pure furente per la sonora bocciatura subita nelle urne da Rivoluzione civile, il partito dei pm manettari e dei giornalisti complici. Direte: ci risiamo con la menata della giustizia. Già, ci risiamo. E attenzione a non sottovalutare il problema. Perché il tribunale di Milano ha stilato un calendario di udienze e sentenze che riguardano Silvio Berlusconi che non ha precedenti nella storia. Eccolo: venerdì requisitoria del processo di appello per i diritti Mediaset, che andrà a sentenza il 23 marzo (presunta tangente pagata da Berlusconi a se stesso). Il 7 marzo sentenza per il processo Unipol (la pubblicazione dell’ormai famosa intercettazione: «Abbiamo una banca» pronunciata da Fassino). L’8 marzo, festa della donna (guarda caso), requisitoria della Boccassini per il processo Ruby, che andrà a sentenza il 18 o al più tardi il 25 dello stesso mese.
Una concentrazione tale di appuntamenti è incompatibile, oltre che con il buon senso, con i diritti della difesa e dell’imputato, che peraltro negli stessi giorni sarà impegnato a decidere se, come e con chi governare il Paese su mandato di una decina di milioni di italiani che, pur sapendo tutto, ma proprio tutto dei suoi presunti guai giudiziari, ha deciso di confermargli per l’ennesima volta un’ampia fiducia.
Questa ultima porcata ha un obiettivo chiaro: indebolire e delegittimare il leader del centrodestra agli occhi degli italiani e del mondo nei giorni della trattativa più delicata per la sinistra che, dopo aver perso la faccia nell’urna, ora rischia anche tutto il resto in Parlamento. Insomma, ci risiamo. Più il Pdl tiene, più il suo leader deve essere abbattuto per altre vie, nella fattispecie quella giudiziaria.
Calcolare i tempi dei processi in base alle esigenze politiche della sinistra è da criminali, oltre che incivile. Basterebbe congelare le prescrizioni e rinviare lo show a dopo il chiarimento politico. Questione di poche settimane per fatti (sulla cui fondatezza vi rimando all’articolo di Luca Fazzo) datati anni e anni fa. Non sarebbe la fine del mondo. Ma Ingroia insegna. Il loro mondo non è il nostro, è fatto di odi, partigianerie e impunità. Almeno che Napolitano ci metta una pezza e richiami tutti all’onestà che dovrebbe avere chiunque abbia deciso di servire lo Stato. Il Giornale, 27 febbraio 2013
La smacchiatura si è fermata al primo ciclo. Poi il giaguaro è uscito fuori e ha dato la sua zampata. Così l’imprevedibile Silvio Berlusconi ha sbaragliato i sondaggi e tramortito la sinistra. Ancora una volta un voto storico. Che va rispettato. Il risultato delle urne propone alcuni dati inequivocabili. Il centrodestra, condotto dal Cavaliere, è vivo e solido e, seggio più seggio meno, ieri lo ha certificato. Bersani è stato sconfitto due volte: alle Primarie con Renzi aveva mostrato tutta la sua debolezza, ora non perde, ma la sua è una vittoria di Pirro perché è così risicata che da solo non riuscirà a governare. Flop di Monti che, sarà pure soddisfatto del risultato, ma si è suicidato con l’Imu oltre a non aver salvato l’Italia e a non aver ascoltato con umiltà la gente. Non pervenuti Casini, con un centrino infeltrito, e Fini che scompare, dopo trent’anni, da Montecitorio. La rivoluzione di Ingroia non ha appassionato gli italiani e non perché non ha avuto spazio sui giornali o in tv. Una rivoluzione che riesce a fare però una vittima eccellente: Di Pietro, anche lui fuori dalla Camera. Giannino con Fare ha fatto tutto da solo e non ha superato neanche lo sbarramento. Forse ha perso anche il presidente Napolitano con l’idea del governo tecnico che ha «annullato» il vantaggio che avrebbe avuto la sinistra tredici mesi fa.
Il vero vincitore, quello che ha raccolto il default del sistema politico italiano, è Beppe Grillo che diventa il primo partito alla Camera e che promette di combattere ogni inciucio tra centrodestra e centrosinistra facendo mettere i grillini «dietro ognuno di loro».
Tra vincitori e vinti il rischio per l’Italia è l’ingovernabilità. Servirà un governo di larga solidarietà nazionale, un’alleanza, anche a breve termine con lo scopo preciso di attuare almeno tre cose necessarie e non rinviabili per il Paese. Va cambiata la legge elettorale, va eletto il prossimo presidente della Repubblica, si deve far ripartire lo sviluppo e la crescita. Servono buon senso e una prova di responsabilità. Anche da parte dei grillini. La spallata l’hanno data alla politica, ora bisogna pensare all’Italia. Sarina Biraghi, Il Tempo, 26 febbraio 2013
.……Sottoscriviamo questo commento, pacato quanto equilibrato, , del Direttore de Il Tempo, sui risultati elettorali delle elezioni politiche appena conclusesi. I risultati certificano, al di la ogni sofisma, la ingovernabilità del Paese dopo i 14 mesi del governo tecnico voluto da Napolitano che ne ha determinato il crollo economico sotto il peso della valanga fiscale e il blocco delo sviluppo insieme a quello dei consumi. Le elezioni di ieri non hanno eletto un Parlamento capace di esprimere un governo in grado di affrontare con la forza e l’autorevolezza necessarie i gravi problemi del Paese. E se non si vuole ricorrere ad un nuovo passaggio elettorale che potrebbe provocare un tsunami ancor più travolgente di quello che ha appena visto protagonista assoluto Grillo e i suoi grillini, per una volta, alemno per una volta, le forze maggiori, benchè comunque entrambe ampiamente penalizzate dagli elettori, dovrebbero, debbono!, lavorare insieme. In questo momento, mentre incombe lo spettro di una nuova aggressione alla nostra economia da parte dei mercati e degli speculatori, bisogna mettere da parte ciò che divide per ricercare le ragioni della reciproca consapevolezza dei doveri di ciascuno verso gli elettori. Fuor di metafora, pensiamo che in questo momento, con il Senato di fatto ingovernabile, occorre che le due forse maggiori, il PD e il PDL diano vita ad un governo di emergenza nazionale, di salute pubblica, di grandi intese, o comunque lo si voglia chiamare, che fissi i problemi improcastinabli del Paese, delinei i confini sia programamqtici che temporali di questa intesa, salvi il Paese e poi, solo poi, si potrà tornare alle urne per restituire agli elettori, con una nuova e più ragionata e democratica legge elettorale, la parola con il compito di individuare con certezza il vincitore e lo sconfitto. E’ una strada indubbiamente difficile, in un Paese abituato da sempre a dividersi in brutti e belli, in buoni e cattivi, alti e bassi, ma se davero si vuole il bene del Paese è un sacrificio che va compiuto. Berlusconi che non è lo sconfitto se ne è dichiarato consapevole, dall’altra parte ieri sera è venuto un alt da parte di un portavoce molto prolisso, tal Mogor, si attende ancora che ne parli Bersani. Pensi Bersani che dopo non essere stato il vincitore non è il caso che si trasformi in affossatore di quel che resta di questo Paese. Si può passare alla cronaca per aver fatto per un breve periodo il presidente del consiglio ma si può passare alla storia per aver fatto scelte penalizzanti per se stessi ma lungimiranti per il proprio Paese. g.