Fini, sulla poltrona di presidente della Camera con accanto il fido Bocchino, l’uomo con la bava alla bocca che ieri con il suo discorso rabbioso contro Berlusconi ha mandato all’aria il progetto finiano.

Fini? Fini è solo. Questo dice il 14 dicembre. Non lo vede Casini, non lo vede Bersani, non lo ha mai visto Di Pietro. Non vuole più vederlo Berlusconi. E anche tra i suoi si sussurra che molte colombe vogliano tornare a casa. Quello che vede Gianfranco dal suo posto a Montecitorio è uno spettacolo desolante. Ma presto potrebbe tornare giù, ad altezza d’uomo. Tutti, a destra e sinistra, si aspettano che Fini si dimetta da presidente della Camera. Lo chiede la maggioranza con insolita chiarezza. E diversi ministri sono intervenuti perché faccia un passo indietro. C’è imbarazzo anche nell’opposizione. Follini con cortesia gli fa notare che quando lui lasciò la maggioranza si dimise da tutte le cariche: «Ma sono scelte personali». Niente da fare. Fini non è Follini. Ha scelto che lo scranno più alto di Montecitorio sarà il suo fortino. E ci si aggrappa come un naufrago, disperato.

Fini è la fotografia di una sconfitta. Legge con voce impersonale i numeri del suo fallimento. La delusione è tanta, il volto teso, con gli occhi sgranati. Davanti alla processione dei si alla fiducia mostra che forse non se lo aspettava. Era ancora sicuro di farcela. Eppure qualcosa non ha funzionato. Quando ha visto che Moffa non era lì a votare ci è rimasto davvero male. «Non me lo aspettavo. Non me lo aspettavo proprio», ha sussurrato con gli occhi bassi. Sconfitto da se stesso: se il Fli avesse retto ora saremmo qui a raccontare un’altra storia. Invece tocca a Fini masticare la delusione trasformandola in odio. Basta ascoltare cosa dice Bocchino dietro le quinte e Granata a destra e manca: «Berlusconi? Gli renderemo la vita impossibile».

La spallata non è riuscita. Ancora una volta non è stato all’altezza delle sue aspettative. Nelle scommesse politiche del presidente della Camera c’è sempre qualcosa che balla, una cifra che non torna, un azzardo che all’improvviso diventa troppo alto. Questa doveva essere la sua giornata. Questo 14 dicembre se lo era costruito a tavolino, sicuro che il suo avversario fosse alle corde, con le mani basse e senza via d’uscita. Il guaio di Fini è che sottovaluta sempre Berlusconi. È per questo che al momento di mostrare le carte i suoi bluff vengono scoperti.

Quello che ci lascia in eredità questa giornata fredda e con le strade ammaccate è l’inconsistenza del Fli. Il suo partito è depresso e diviso. La dittatura dei suoi nuovi colonnelli, Bocchino, Granata, Briguglio, ha umiliato chi lo ha seguito per una scelta di cuore. Non immaginando che il capo anche questa volta si sarebbe dimostrato freddo e distante. Non è facile innamorarsi di Fini. È uno che ti fa sentire in debito con la vita. L’unica cosa concreta che è riuscito ad ottenere da questa vicenda è il clima da guerra civile che si respira nel centrodestra. Il resto è un muro.

La chiarezza di schierarsi all’opposizione non cambia i suoi progetti. Si va avanti con la strategia della guerriglia: sabotare, disfare, preparare agguati, contrastare. «D’ora in poi – sintetizza un finiano – saremo una falange macedone. Saremo un esercito compatto, perché dobbiamo difenderci…». Ma tutto questo ha un valore solo negativo. Non ha un futuro. È lo sfogo rancoroso di un antiberlusconismo privato e viscerale. È l’unica merce politica che riescono a mettere sul mercato. Solo che accanto al loro negozio ci sono concorrenti molto più ricchi e antichi.

Lo strappo dalla maggioranza non ha costruito nulla. La diaspora dell’altra destra non è un’alternativa. Fini ha deluso i suoi nuovi compagni di strada. Non è lui l’antidoto a Berlusconi. Ed è un uomo che ormai odora di insuccesso. L’alleanza con Casini non è mai decollata. Fini si è infilato in un vicolo cieco. Non può tornare da Berlusconi, ma non c’è nessun altro che è pronto a scommettere sulla sua fortuna. Non gli resta che correre da solo, con una squadra a pezzi e senza il favore degli elettori. È da qui che deve ripartire, ma ci vorrebbe un colpo d’ala.

Invece no. Quello che si vede è lo sforzo di un uomo che resta abbarbicato all’ultima poltrona della sua vita.

Salvatore TRAMONTANO PER IL GIORNALE, 15 DICEMBRE 2010

……L’ultima poltrona della sua vita, perchè la congiura fallita di ieri ha messo a nudo il re. Il re Fini, re solo di se stesso e delle sue smodate ambizioni e delle sue altrettanto furiose frustrazioni, ha finito di concionare e l’ultima cosa che può fare è di rimanere sulla poltrona di cui ha fatto squallido mercimonio per tentare di disarcionare il Cavaliere. Per farlo ha ridicolizzato se stesso con la tesi secondo cui quella di Berlusconi è una vittoria solo….numerica. Ma lo sa Fini che in democrazia sono i numeri a contare e a fare la differenza? E se per caso avesse prevalso la sfiducia per tre voti cosa avrebbe detto? Fini sa bene che sta arrampicandosi sugli specchi di una sconfitta che prima ancora che numerica è politica, politica senza appello, perchè da oggi in poi, nulla sarà più come prima. Certo, i suoi uomini ( e chissà quanti in verità!) si trasformeranno alla Camera (di certo non al Senato) in forsennati dipietristi, veri e propri terroristi, ma il terrorismo può fare qualche danno, può conseguire qualche vittoria momentanea, ma alla fine vince sempore lo Stato, vincono gli interessi nazionali, quelli dei quali da sempre Fini se ne impipa. D’altra parte è proprio da uno dei suoi randellatori che gli dovrebbe venire l’esempio. Briguglio, secondo solo a Bocchino in materia di killeraggio di Berlusconi, ieri sera si è dimesso da componente del COPASIR, l’organo parlamentare di controllo dei servizi segreti, con una lettera indirizzata al presidente dell’organo, D’Alema e allo stesso Fini. Ha scritto Briguglio nella lettera che essendo stato nominato in rappresentaza della maggioranza, non può rimanere nell’incarico essendo ormai passato all’opposizione, come stabilito da Fini, solo da lui, domenica scorsa durante la chiacchierata con la signora Annunziata. Ha fatto bene Briguglio. Fini lo imiti, al più presto. Anch’egli fu eletto dalla maggioranza e in rappresentanza della maggioranza. Ora che ufficialmente è passato all’opposizione dimettersi dalla carica di presidente della Camera non è solo un dovere morale, ma un obbligo istituzionale. Se ci rimane è un abusivo, anzi un portoghese. g.