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L’82 % DEGLI ITALIANI DI CENTRODESTRA VOGLIONO CHE FINI LASCI LA POLTRONA DELLA CAMERA. CHE ASPETTA?

Pubblicato il 19 dicembre, 2010 in Politica | No Comments »

Se Gianfranco Fini non si dimette, lo «dimettono» gli italiani. Con un messaggio forte e chiaro, praticamente una lettera di licenziamento a mezzo stampa. Il 59 per cento dei nostri connazionali pensa infatti che il presidente della Camera dovrebbe mettere la parolina «ex» davanti alla sua carica, lasciando la Camera dei deputati. Lo dice un sondaggio condotto dall’istituto di ricerca Swg per Trendsetting, il sondaggio settimanale del sito affaritaliani.it. Quasi sei italiani su dieci, e quindi non solo gli elettori di centrodestra, sono stanchi di avere aggrappato alla terza poltrona dello Stato un uomo che negli ultimi mesi si è reso protagonista delle seguenti prodezze, non necessariamente in ordine di importanza: aver consentito la svendita del patrimonio devoluto da Anna Maria Colleoni ad An; aver permesso o quanto meno non impedito che nell’appartamento di Montecarlo, che di quell’eredità costituiva il pezzo pregiato, andasse a vivere il cognato Giancarlo Tulliani; aver lungamente taciuto sull’imbarazzante vicenda; aver tradito il suo elettorato uscendo dal Pdl e diventando opposizione di chi aveva portato lui a Montecitorio e molti suoi uomini al governo; aver cercato di far cadere il governo senza nemmeno riuscirci, clamorosa gaffe politica che entrerà tra vent’anni nei libri di testo di storia contemporanea. Tutto questo aggiunto al fatto che ormai Fini si trova a presiedere un’assemblea che lo ha eletto a maggioranza due anni e mezzo fa ma che oggi non lo rieleggerebbe. Una specie di sopravvissuto politico, un’anomalia.
Insomma, ce n’è abbastanza per una mozione di sfiducia coram populo. Che puntualmente arriva attraverso il sondaggio Swg, condotto su un campione di 2800 italiani i giorni 16 e 17 dicembre, stratificato per sesso, età e residenza. Interessante la scomposizione della risposta al quesito riguardante Fini per collocazione politica degli intervistati. Solo gli elettori di centrosinistra «salvano» Fini, con un 25 per cento di sì alle dimissioni e un 75 per cento di no. Gli elettori di centrodestra invece sfiorano il plebiscito: l’82 per cento vuole Fini lontano da Montecitorio e solo il 18 per cento ritiene giusto che resti al suo posto. Ma anche gli elettori che si definiscono di centro o non si definiscono proprio sono contro Fini: il 67 per cento è favorevole alle dimissioni, il 33 per cento no.
Non è questo il solo dato saliente del sondaggio Swg-affaritaliani.it: una seconda domanda evidenzia che la maggioranza degli italiani (il 54 per cento del campione) ritiene che, dopo la fiducia per tre voti strappata dal governo, sarebbe comunque meglio andare al voto: a caldeggiare il ritorno alle urne sono soprattutto gli elettori di centrosinistra (tra i quali il sì al voto anticipato tocca il 63 per cento), seguiti da quelli del centrodestra (53), mentre tra i centristi e i non etichettati prevale la voglia di lasciare tutto così com’è (57 per cento). Strano l’entusiasmo degli elettori di sinistra per un appuntamento elettorale che secondo gli stessi interpellati dalla Swg rischia di trasformarsi in un bagno di sangue per il Pd e per i suoi fratelli: secondo il 53 per cento del campione rivincerà il centrodestra (ma tra gli elettori del Pdl addirittura il dato tocca l’81 per cento), secondo il 20 per cento il centrosinistra (e anche tra gli elettori progressisti la fiducia è scarsa: solo il 51 per cento crede in una vittoria) e secondo il 15 per cento il presunto terzo polo, quel raggruppamento più o meno convinto di Fli, Udc, Api e Mpa. C’è un dodici per cento che non sa, quasi tutti di sinistra o centristi.

SE LA NEVE E’ ROSSA, IL DISASTRO NON HA PADRI

Pubblicato il 19 dicembre, 2010 in Politica | No Comments »

Mezza Italia è rimasta paralizzata sotto pochi centimetri di neve. È incredibile come in questo Paese la maggior parte della gente creda a Babbo Natale, ai miracoli, alle cartomanti e alla leggenda Maya che fissa la fine nel mondo nel 2015 ma nessuno creda alle previsioni del tempo. Che sarebbe nevicato era noto da giorni, ma i più non si sono attrezzati neppure un minimo, contribuendo alla paralisi della viabilità che ovviamente ha responsabili ben precisi. Con una variante rispetto al solito. Quando, dopo settimane di pioggia, cade un muro di Pompei la colpa è dei politici (il ministro Bondi); se invece la neve blocca strade e autostrade della rossa Toscana, i cattivi sono solo i tecnici. A nessuno viene in mente di mettere sotto processo il sindaco di Firenze, Renzi, o il governatore della Regione, Rossi. Ovvio, sono del Pd e per questo bravi ed efficienti.
Gli automobilisti rimasti in coda per ora devono ringraziare anche quei magistrati e quei giornalisti che hanno distrutto la Protezione civile modello Bertolaso, spacciando alcuni fatti di presunto malaffare per un sistema criminale, e come tale da smantellare. Purtroppo ci sono riusciti e oggi noi cittadini ne paghiamo le conseguenze. Come diceva Benedetto Croce, i politici e gli amministratori non andrebbero giudicati dalla loro moralità privata, ma in base alla loro efficienza pubblica. È degno di governare chi sa risolvere i problemi del Paese. Quando siamo malati al chirurgo chiediamo di salvarci la vita, il fatto che paghi le tasse fino all’ultima lira o che sia marito fedele poco ci importa. È il moralismo più bigotto, per giunta applicato a senso unico, che sta rovinando il Paese. Non so se Vendola, nuovo astro della sinistra, abbia amanti o scheletri nell’armadio, certo è che la sua Puglia è tra le regioni peggio amministrate, con buchi nel bilancio da brivido. Dicono che non abbia ombre anche Rosa Russo Iervolino, ma da quando lei è sindaco Napoli è precipitata ancora di più nell’abisso dell’abbandono oltre che dell’immondizia. Ora tocca alla Toscana.
Il giovane sindaco Renzi passa ore in televisione a spiegare come sia giunto il momento di rottamare Bersani e D’Alema. Il successo mediatico lo ha distratto, è scivolato sul ghiaccio. Per molto meno, due anni fa Letizia Moratti fu messa in croce da giornali e sinistra. Lui se la caverà con qualche rimbrotto, non finirà certo nel tritacarne di Annozero o dell’Infedele. Se piove, insomma, il governo è ladro ma solo se è di centrodestra. E mai come questa volta la neve non ha colore.
ALESSANRO SALLUSTI, Il Giornale, 19 dicembre 2010

I SONDAGGI RILANCIANO IL PDL E LA LEGA, AFFONDA IL TERZO POLO

Pubblicato il 19 dicembre, 2010 in Politica | No Comments »

Berlusconi è rinfrancato dagli ultimi sondaggi che benedicono il bipolarismo, bocciando il Terzo polo. Ecco perché il messaggio berlusconiano è chiaro: o di qua o di là. Da una parte i moderati, dall’altra gli altri.
Concetti ribaditi ieri sera in un intervento telefonico alla festa del Pdl alla Fortezza da Basso di Firenze. Ai 5mila presenti il premier lancia messaggi ottimistici: «Abbiamo sconfitto il tentativo di ribaltone. Gli avversari si sono alleati con l’unico scopo di eliminarmi ma la grande prova della Camera e del Senato ha sconfitto questo progetto. La fiducia del 14 è stato uno spartiacque importante per la democrazia: se avessero vinto loro saremmo tornati alla Prima Repubblica. Voglio finire la legislatura e sono convinto che il senso di responsabilità e la coscienza di molti parlamentari eletti con il Pdl farà naufragare questo disegno». Le urne non fanno paura, anzi: «State sicuri che governeremo. Se non ci riuscissimo – dice il premier – si andrà alle elezioni e le vinceremo alla grandissima».
Poi, spazio alle battute: «Sapete perché sono sempre così carino con le signore? Deriva dall’anagramma del mio nome: l’unico boss virile». E a Monica Faenzi, portavoce toscana del partito che gli chiede conto dell’anagramma del nome di Casini, risponde sicuro: «Perdi se andrai con Fini». La platea ride e commenta anche gli ultimi sondaggi che circolano nel Pdl.
In effetti, secondo l’istituto Demopolis, se oggi si andasse al voto le sinistre avrebbero il 38%; il Terzo polo – in forte calo – il 14; l’asse Pdl-Lega il 42%. Un recupero di 3 punti percentuali in una sola settimana. Insomma, l’alchimia terzopolista è destinata a fallire perché mera operazione di Palazzo.

INTRERVISTA A ENRICO MENTANA: LA VERITA’ SU BERLUSCONI, DELL’UTRI E MONTANELLI

Pubblicato il 19 dicembre, 2010 in Politica | No Comments »

di Stefano Lorenzetto

La sera del 3 dicembre En­rico Mentana era al teatro Nuovo di Verona a ritirare il premio 12 Apostoli. Fol­to pubblico. Sindaco Fla­vio Tosi in prima fila. Sul palco, col direttore del Tg La7 , anche l’altro premia­to, Milo Manara, e alcuni dei 12 giurati, fra cui Etto­re Mo, Luca Goldoni, Mar­zio Breda e Alfredo Meoc­ci, l’ex direttore generale della Rai che trent’anni or­sono fu suo compagno di banco al Tg1 . Posso rac­contare la scenetta per­ché ero accanto a loro. Al­l’improvviso Mentana ha sbirciato l’orologio. «Scu­sate, ma adesso sono le 7 e devo correre a fare il tele­giornale », ha interrotto il dibattito. Da oltre tre me­si, le 7 e La7 per lui si equi­valgono. A quell’ora, ca­scasse il mondo, deve pre­pararsi ad andare in onda, ovunque si trovi. Così s’è infilato il cappotto ed è cor­so all’hotel Ramada, dove aveva fatto allestire (in ca­mera? nello scantinato?) un ministudio televi­sivo. E da lì ha condotto la 95ª edizio­ne consecu­tiva del tele­giornale del­le 20. Dopo­diché, fre­sco come un branzino di paranza, alle 21 è ri­comparso al ristorante 12 Apostoli per la cena in suo onore. Oggi, domenica, dovrebbe esse­re l’edizione numero 111. «Sarà: non voglio rovinarle il pezzo». Solo il 112, il 113 e il 118, nel senso di carabinieri, polizia ed emergenza sanitaria, potrebbero fermarlo. A muoverlo è sempre la Passionac­cia . Quella per il giornalismo che ha dato il titolo al libro ristampato poche settimane fa da Rizzoli per i Saggi della Bur. Quella che da stu­dente gli faceva vendere A , rivista anarchica, davanti all’istituto per geometri Carlo Cattaneo di Mila­no, la sua città natale. Quella che nel 1973, a soli 18 anni, lo fece di­ventare correttore di bozze alla Gazzetta dello Sport , dove suo pa­dre Franco era inviato per il calcio. Quella che nel 1980 lo portò al Tg1 e nel 1989 al Tg2 come vicediretto­re. Quella che gli ha cucito addos­so la divisa da pioniere: direttore del primo Tg5 (13 gennaio 1992), conduttore del primo Matrix ( 6 set­tembre 2005), direttore del primo Tg La7 (30 agosto 2010).

Ma come fa a stare in video ogni sera da più di 100 giorni?
«Non soffro di stress. Arrivo in stu­dio un minuto prima, mi allaccio il colletto della camicia button­down e comincio. È questione di carattere. Sono ansioso solo per le persone che amo. Di me stesso mi sento sicuro. Mi conosco da tem­po ».
Perché uno studio così spoglio? Quello di Vremja , il telegiornale brezneviano, al confronto sem­brava progettato a Las Vegas.
«Quando gli spettacoli hanno trop­po arredo, significa che non c’è so­stanza ».
E perché si fa rischiarare il viso dai neon nascosti sotto il vetro della scrivania? Circonfuso di luce bianca come il Direttore dei direttori nei film di Fantoz­zi.
«Scelte degli scenografi. Io guardo la telecamera. Siccome non uso né fogli scritti né gobbo elettronico, devo pensare a quello che dico».
Conduce a braccio?
«Certo, che c’è di strano? Ho ben presente quali sono le notizie. È co­me imparare i numeri di telefono: se li scrivi, non li ricordi a memo­ria ».

So che il verde nel fondale dello studio l’ha voluto lei.
«Mi piace. È un colore snobbato».
Non in Parlamento.

«Ho notizie certe che il verde esi­stesse già prima della Lega».
Preferisce Chicco o Mitragliet­ta?

«Chicco. Mi chiamava così la mia mamma».
Angelo Guido Lombardi, figlio del leggendario «amico degli animali», mi ha confidato che sua suocera la chiama Andalù, come l’ascaro del programma trasmesso dalla Rai in bianco e nero.L’ha saputo da Giorgio Fo­rattini.
«Frequento mia suocera più di Fo­rattini. Mai sentito un sopranno­me del genere».
Com’è che un recordman degli ascolti finisce ad accontentarsi di un 6-9% contro il 20-25% dei concorrenti Tg1 e Tg5 ?
«È tanto. Siamo partiti dal 2%, con 90 giornalisti. Che non sono pochi, ma finora hanno lavorato con con­­tratti di solidarietà: quattro giorni a settimana e niente straordinari. Neppure l’osservatore più benevo­lo ci pronosticava oltre il 5%».
Da parecchie edizioni non pro­nuncia la parola «Avetrana». Merita un premio.
«Siamo onesti:i servizi sull’uccisio­ne di Sarah Scazzi, basati sul nulla, si fanno solo per lucrare ascolti fra telespettatori in crisi d’astinenza».
Premio Saulo, consegna a Da­masco: il suo Matrix s’è ingras­sato con le puntate sulla strage di Erba. La Procura di Roma l’ha persino indagata per le nuo­ve rivelazioni sul delitto di via Poma.
«Amo la cronaca, la più democrati­ca delle discipline. Ma l’accani­mento è orripilan­te. Ho avuto discus­sioni con colleghi stimabili come Bru­no Vespa: a che ser­vivano tutte quelle puntate su Co­gne? ».
Pensa davvero che la televisione di Telecom decol­lerà? Non sono tempi per terzi po­li, questi. Né in po­litica né nell’ete­re.
«Non mi pare il peri­odo più fausto per certi paragoni. Ma quando un telegiornale nato da nulla è visto mediamente tutti i giorni da più di 2 milioni di perso­ne, direi che è un mezzo miracolo. Nell’anno solare 2010 i primi 50 ascolti di La7 sono 50 edizioni del Tg La7 ».
«Fatti fama, poi siedi all’ombra della palma e riposa», come mi consigliò anni fa Albino Lon­ghi, che fu suo direttore al Tg1 .
«Io ritengo che il nostro lavoro sia già parecchio riposante. Se penso a chi fatica in fonderia o nei campi, per di più senza alcuna gratificazio­ne… Mi sento come un cuoco che non ha nemmeno il dovere d’in­ventarsi gli ingredienti: mi arriva­no sul tavolo tutti i giorni».
Fosse Gianfranco Fini, che fa­rebbe?
«Non lo so. Non sono mai stato Gianfranco Fini».
La fortuna le arride.
«Nel nostro mestiere bisogna met­t­ersi dal punto di vista del cacciato­re ma anche della lepre. Fossi Fini, me la giocherei fino in fondo. Quando il dado è tratto, non si può tornare indietro».
E se fosse Pier Ferdinando Ca­sini?

«Sarei in brodo di giuggiole. Berlu­sconi e Fini hanno lavorato soltan­to per Casini negli ultimi sei mesi».
E se fosse Silvio Berlusconi?
«Le direi: Lorenzetto, mi rispetti, sono sempre il fratello del suo edi­tore ».
Nient’altro?
«Mi godrei di più, anzi mi godrei ancora di più, la vita. Chi ha la pos­sibilità di guardare le bellezze del mondo, non solo quelle che inte­ressano maggiormente al Cavalie­re, e invece passa le giornate con Fabrizio Cicchitto e Maurizio Gaspar­ri, si fa del male da solo».

Profezia su Berlu­sconi espressa da Indro Monta­nelli nel 1993: «Si è convinto che la politica ha bisogno di lui e che lui ha biso­gno della politi­ca, non c’è forza umana o richia­mo alla ragione­volezza che val­gano a trattener­lo: si butterà nel­la fornace e vi si brucerà». Non molto azzeccata.
«Nessuno di noi ci ha mai azzecca­to su Berlusconi. Se Montanelli fos­se vivo direbbe: “Non so se avevo sottovalutato Berlusconi o soprav­valutato i suoi avversari”. Il proble­ma di questo Paese è la clamorosa mancanza di alternativa a un uo­mo che, piaccia o no, dal punto di vista politico ha compiuto un’im­presa straordinaria, compattando un centrodestra che persino in que­sto momento è comunque più coe­so del centrosinistra. Come disse Indro a Ferruccio de Bortoli nel 1994, di ritorno dal pranzo in cui annunciò a Berlusconi che lascia­va Il Giornale , il Cavaliere s’è mes­so in politica per disperazione, ma è anche vero che si crede un incro­cio tra Churchill e De Gaulle. Giudi­zio perfetto. Il premier è così bravo nella retorica di sé che un giorno leggeremo sui libri di storia questa frase: “Churchill si credeva una via di mezzo fra De Gaulle e Berlusco­ni” ».
Quando scese in politica, lei ri­mase direttore del Tg5 . Non mi vorrà far credere che aveva più coglioni di Montanelli, per dirla con Oriana Fallaci, tanto da po­ter resistere alla forza d’urto del suo editore.
«Toccare un telegiornale di massa avrebbe comportato ricadute eco­nomiche pesanti. E poi avevo dalla mia un signore che si chiama Fede­le Confalonieri, il quale sa che co­s’è l’equilibrio».
Tornerebbe a Mediaset? So che Berlusconi e Confalonieri glie­l’hanno offerto.
«Ho trovato un’altra strada. Loro non hanno bisogno di me, io non ho bisogno di loro.
Ho fatto il Tg5 per 12 anni e nessuno mi ha mai ordinato o anche solo consi­gliato che cosa do­vessi o non dovessi mandare in onda. So che farò infuria­re gli avversari di Berlusconi, ma que­sta è la pura verità».
Si sentiva circon­dato da astio per il fatto di lavora­re in un’emitten­te di proprietà del Cavaliere?
«Nella logica del ri­flesso condizionato potresti essere Walter Cronkite (l’anchorman morto nel 2009 che per vent’anni condusse il telegiornale della Cbs, ndr) ma, se lavori a Mediaset, vieni percepito in un altro modo. Come se un hitleriano lavorasse a Raitre: passerebbe sempre per comuni­sta ».
Lei crede che Mediaset sia stata creata con i soldi di Cosa nostra e che Marcello Dell’Utri sia un mafioso?
«Se lo avessi creduto, non ci sarei andato a lavorare. Anzi, come testi­moniai al processo davanti al pub­blico ministero Antonio Ingroia, fu proprio Dell’Utri ad autorizzarmi a produrre nel 1993, poco prima che fondasse Forza Italia con Berlu­sconi, Cinque delitti imperfetti, un ciclo di storie di mafia che ripercor­reva le vite di Peppino Impastato, Boris Giuliano, Giuseppe Insala­co,
[Emblema]
Mauro Rostagno e Giovanni Falcone».
In Passionaccia lei chiama il Pm «l’amico Ingroia».

«La vuol sapere una cosa? Conser­vo una foto, scattata a Madrid nel maggio scorso, in cui si vedono In­groia e il sottoscritto con Maurizio Belpietro».
Non posso crederci.
«E Ingroia ha una copia di Libero
sotto il braccio. Tutti e tre tifosi del­­l’Inter ».
Un’aggravante specifica.

«Eravamo lì per la finale di Cham­pions League».
Di che male soffre il giornali­smo?

«Del fatto che si rivolge solo a letto­ri e telespettatori che non vogliono essere informati bensì confermati nei loro pregiudizi».
Ma lei, Mentana, da che parte sta?

«Mi spiace, deludo tutti. Non sto da nes­suna parte. Ho smesso di votare nel 1994».
Perché aveva vin­to Berlusconi?
«Se il problema fos­se stato Berlusconi, tutto avrei fatto tran­ne che smettere di votare, le pare? No, è che nell’era del maggioritario la po­litica è diventata una cosa strana, di­versa. Con qualcu­no che ha sempre ragione e qualcu­no che ha sempre torto. Sono tor­nato alle urne solo nel 2006 e ho po­sto una croce sul simbolo della Ro­sa del pugno. Dopo pochi mesi, ve­dendo all’opera il centrosinistra, m’ero già pentito».
Al Tg1 ha avuto come direttori Emilio Rossi, Franco Colombo, Emilio Fede, Albino Longhi, Nuccio Fava. Il migliore?
«Emilio Rossi. E non perché mi as­sunse in quota al Psi su suggeri­mento di un mio amico socialista, Pasquale Guadagnolo, che lascia­va il Tg1 ».
Allora perché?

«Perché nessun telespettatore lo vi­de mai in faccia se non nelle foto dell’attentato, quando le Brigate rosse lo gambizzarono. I terroristi lo aspettavano alla fermata del bus. Ha mai sentito di un direttore che va al lavoro con i mezzi pubbli­ci?
Rossi non era una primadonna. Apparteneva a una schiera di catto­lici che esercitavano il potere per spirito di servizio. Un civil servant
dell’informazione, ecco».
Del Tg1 di Augusto Minzolini che cosa pensa?

«Sono un avversario del Tg1 di Min­zolini, non sarebbe elegante».
Suvvia, Minzolini ha le spalle larghe.

«Ha fatto una scelta che da un lato è chiarificatrice e dall’altrolo espo­ne. Il Tg1 è sempre stato filogover­nativo. Lui lo ha dichiarato e teoriz­zato nei suoi editoriali».
Arriva una notizia sgradevole che riguarda il suo amico Diego Della Valle. Che fa? La dà nuda e cruda oppure gli telefona?
«La do nuda e cruda e gli telefono per sentire la sua reazione. Come feci con Giovanni Consorte, Stefa­no Ricucci, Gianpiero Fiorani, Lu­ciano Moggi, Fabrizio Corona. Co­me farei con chiunque. Il punto di vista di chi diventa protagonista suo malgrado è sempre interessan­te ».
Roberto D’Agostino mi ha con­fessato che una notizia sgrade­vole sui suoi amici Barbara Pa­lombelli e Renzo Arbore non la darebbe mai.
«Il bello eventuale di Dagospia è che lo dice e lo sa, non pretende d’essere il New York Times . Maun telegiornale è un’altra cosa.So qua­li sono i miei compiti».
Che rapporto ha con la religio­ne di sua madre?
«Lo stesso che ho con quella di mio padre. Mi sento a un tempo ebreo e cattolico».
Battezzato dal futuro Paolo VI.
«Non fui testimone diretto, però sì, ero presente. Sono legato cultural­mente a entrambe le religioni. Le considero il fondamento di gran parte delle cose che diciamo e che pensiamo. Le nostre radici sono davvero giudaico-cristiane, non è una frase fatta».
Hanno mai usato questo argo­mento contro di lei?
«No. Dico di più: ho dedicato un ca­p­itolo di Passionaccia al caso di Lu­is Marsiglia, il professore di origini ebraiche che s’inventò d’essere sta­to aggredito a Verona da un com­mando neonazista, proprio per smontare questo riflesso condizio­nato di tipo religioso per cui se uno dà a un altro del cattolico di merda si offende al massimo il diretto inte­ressato mentre se gli dà dell’ebreo di merda scatta tutta la trafila: la Shoah, Auschwitz, il razzismo… Non avverto antisemitismo in Ita­lia e, se sussiste, è ampiamente al di sotto del livello di guardia. Dai miei genitori ho imparato ad ama­re tanto gli israeliti quanto i cristia­ni. Ho capito che Dio non può esse­re così sadico da farci nascere ebrei in un luogo e cattolici in un altro luogo, da darci una religione giusta e una sbagliata. O Dio esiste o non esiste. E per me esiste».
Il suo matrimonio con Michela Rocco di Torrepadula, miss Ita­lia 1987, resiste da oltre otto an­ni. Un record nel mondo delle miss. E anche dei giornalisti, vi­sto che lei aveva già avuto due compagne.
«I matrimoni non sono maratone. Talvolta gli amori purtroppo fini­scono ».
Ho letto che sua moglie condur­rà pr­esto un programma di cuci­na su La7.

L’ATENEO DI BARI RICORDA ALDO MORO E BETTINO CRAXI

Pubblicato il 18 dicembre, 2010 in Cronaca, Cultura | No Comments »

L’Ateneo di Bari

Arte, storia, politica e attualità in un convegno a Bari per ricordare due eminenti figure della storia politica del nostro Paese: Aldo Moro e Bettino Craxi.

In realtà l’iniziativa – che ha avuto luogo venerdì 17 alle ore 16 presso la Facoltà di Giurisprudenza delll’Ateneo barese – è nata dalla donazione di un’opera pittorica dell’artista barese Vito Stramaglia, che ritrae insieme i due statisti, alla Fondazione Craxi di Roma. Pertanto, madrina dell’evento non poteva non essere la figlia Stefania, sotto segretario agli Esteri ed animatrice della stessa Fondazione, che ha l’obiettivo di  tutelare la personalità, l’immagine e il patrimonio culturale e politico di Bettino Craxi.

L’occasione ha raccolto vecchi esponenti della vita politica degli anni ’70 e ‘80, ma anche giovani interessati alla storia della Prima Repubblica.

Le vite di Craxi e Moro si sono drammaticamente incontrate in uno dei periodi più difficili del nostro Paese, quello del sequestro di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse (16 marzo-9 maggio 1978). Allora Moro era presidente della Democrazia Cristiana, mentre Bettino Craxi era segretario del PSI e proprio a lui Moro rivolse alcune sue lettere durante il rapimento. Durante il sequestro Moro Craxi fu infatti l’unico leader politico a dichiararsi disponibile ad una trattativa, attirandosi addosso anche parecchie critiche.

A ricordarli sono stati tra gli altri gli organizzatori dell’evento, Luigi Ferlicchia, Giovanni Copertino, Aldo Loiodice, Franco Gagliardi La Gala delle associazioni “Critica Sociale”, “Nuovi percorsi” e del “Centro Studi Moro-Dell’Andro”, tutti d’accordo nel descriverli come uomini che vivevano di luce propria e caratterizzati dalla moderazione e dalla capacità di dialogo.

Dello stesso parere è stato il senatore Gaetano Quagliariello, che ha avuto il piacere di conoscerli e si è detto emozionato perché proprio nel giorno del convegno che ricorda i due uomini politici della prima Repubblica, nella stessa aula in cui si è svolta l’iniziativa, il senatore ha conseguito nell’84 la laurea in Scienze Politiche.

“Erano entrambi anticomunisti”, ha detto, “che pensavano con la loro testa e non si identificavano in tutto con il loro partito. Moro e Craxi appartenevano alla tradizione dell’umanesimo politico e la loro idea di democrazia era quella di una democrazia compiuta. Anche nella politica estera hanno operato la scelta atlantica e guardato al bacino del Mediterraneo. Craxi è stato però troppo ottimista nei confronti dei comunisti che invece si rifanno sempre al principio che c’è sempre dall’altra parte un nemico da distruggere. “Vicenda dunque quanto mai attuale”, ha concluso il senatore, “nell’illusione che tutto si può risolvere distruggendo la realtà per tornare al passato”.

Stefania Craxi ha ricordato i due politici come coloro che hanno contribuito alla modernità del nostro Paese. “Hanno avuto in comune la passione politica e la capacità di comando. Moro era un democratico che aveva a cuore la democrazia. Craxi invece un innovatore che ben presto si rese conto che il socialismo del primo Novecento non era più presentabile. La sua formula del liberismo liberale è tutt’ora in corso, mentre del comunismo di allora non c’è più traccia né alcun rimpianto”.

La sensibilità di un giovane artista, dunque, ha riportato alla memoria una delle pagine più dolorose e significative della storia del nostro Paese, che ancora oggi rivivono con lo stesso fervore di allora.

Fonte: L’Occidentale, 18 docembre 2010

IL TERZO POLO:I DUBBI DEGLI INTELLETTUALI FINIANI

Pubblicato il 18 dicembre, 2010 in Politica | No Comments »

Dopo averlo indotto a intraprendere strade senza sbocco, ora sono propro gli intellettuali vicino a Fini a nutrire seri dubbi sull’esperimento del terzo polo nel quale,  dopo la clamorosa sconfitta alla Camera,  si è imbarcato l’ex fascista Fini ora in approdo sulla riva “gouche” della politica italiana. Come al solito i primi saltare giù dallabarca che imbarca acqua sono i “laudatores”. Ne parla Salvaore Merlo sul Foglio di questa mattina.

“Se il terzo polo è soltanto una diga parlamentare, tattica, non serve a nulla. Ma se adesso lo si riempie di contenuti, lo si trasforma nel centrodestra concorrente, ma non nemico, di Silvio Berlusconi, allora, dopo la sconfitta, per Gianfranco Fini sarà una ripartenza. Ma è necessario uscire dal Palazzo e dal suo formulario stantio”. Dice così al Foglio il professor Alessandro Campi, il direttore scientifico della fondazione finiana FareFuturo che in questi giorni, assieme alla collega Sofia Ventura, incarna una sorta di fronda intellettuale, di minoranza (ma chissà), all’interno dell’area che fa riferimento al presidente della Camera e leader di Fli.

Dice Ventura: “Questo polo della responsabilità è una risposta emergenziale e difensiva all’avanzata minacciosa di Berlusconi. Per questo direi che bisogna andarci cauti. Il rischio è che tutta la strada che abbiamo fatto in questi anni, con Fini e con FareFuturo, si perda. La nostra idea è sempre stata quella di costruire un centrodestra moderno e diverso da quello berlusconiano. Sicuri che questa sia anche l’idea di Casini? Cosa resta del presidenzialismo, del bipolarismo, della laicità? Sicuri che il gioco all’interno del Palazzo, e dei suoi codici, alla fine paghi davvero?”.

Fini, espulso dal Pdl, si è trovato nel corso dei mesi successivi all’esplosione viscerale del dissidio con Berlusconi a giocare sempre più di rimessa, allontanandosi, un po’ per necessità e un po’ perché costretto dal precipitare degli eventi, dal percorso politico-culturale che negli ultimi anni lo aveva lanciato come possibile successore della leadership berlusconiana e che, nel 2008, lo aveva portato ad aderire al Pdl. Il presidente della Camera ha allenato i propri muscoli per la futura leadership sognando una destra che non fosse più attaccata alle sottane dei vescovi, ma fosse moderna. Stretto tra le armate padane e quelle berlusconiane, Fini si era persino messo a studiare la sinistra perché immaginava di costruire un’altra destra: meno populista e più aperta alle novità, comprese quelle che arrivano da fuori. E, consigliato da intellettuali come Campi e Ventura, aveva trovato la narrazione giusta. Che ne rimane? E quanto di quella consistente elaborazione è trasferibile nel cosiddetto terzo polo, alla corte di Casini? Risponde Ventura: “Temo poco. L’Udc ha un progetto neodemocristiano, proporzionalista. Noi non siamo mai stati proporzionalisti e democristiani. Sarà complicato poter convivere con personalità espressione dell’ortodossia cattolica come, per esempio, Paola Binetti. Certo non è impossibile. Ma ci sono ancora troppe incognite e ambiguità. Non è chiaro, per esempio, se anche gli amici dell’Udc sono d’accordo sull’idea di costruire un partito alternativo al Pdl, che sia piantato come un chiodo nel bipolarismo”.

Il primo Fini, nella versione precedente alla rottura con il Cavaliere e dunque precedente all’incontro forzato con Pier Ferdinando Casini, sembrava convinto ci fosse uno spazio culturale extra, punto d’incontro per una borghesia meno stantia, un ceto medio più giovane e nuovi extracomunitari in cerca di patria. Un progetto intrigante, ardito, concorrenziale a quello del Cav. Uno schema che si era reso interessante all’interno del perimetro del Pdl e del centrodestra a trazione berlusconiana. Poi il buio: il dissidio brutale con il premier, l’abbandono del Pdl, l’avvio di una fase segnata da un tatticismo esasperato e da venature di antiberlusconismo manicheo che hanno sovrastato tutto il resto spingendo Fini, e la sua nuova creatura, Fli, quasi oltre i confini del centrodestra. Fino alla conferenza stampa di mercoledì scorso, con l’annuncio della sghemba alleanza tattica con i neodemocristiani Casini e Rutelli e con l’autonomista siculo Raffaele Lombardo.

“Mettiamola così”, dice Campi, “se il terzo polo è la mera somma algebrica di Fli, Mpa e Udc è tutto un tragico sbaglio. Se la molla che fa scattare tutto è la necessità di sopravvivere e mettere i bastoni tra le ruote di Berlusconi, non si va da nessuna parte. Non sono queste le caratteristiche di un progetto ambizioso, come quello che da anni coltiva Fini. Tuttavia una sintesi cattolico-nazionale, con l’Udc, è possibile. Ma bisogna comunicare l’idea che non si tratta di una manovra di Palazzo, ma di un progetto duraturo e articolato”. Come si fa? “Con un’assemblea costituente, per esempio. Con dei seminari, degli incontri di studio, delle tavole rotonde. Il punto è che bisogna porsi ‘oltre Berlusconi’ ma liberandosi dall’ossessione di Berlusconi. Bisogna essere competitori del Pdl, senza essergli nemici. Deve essere una sfida tutta interna allo stesso recinto. Altrimenti non serve, non funziona e non funzionerà”. Salvatore Merlo, il Foglio, 18 dicembre 2010


IL METODO SCILIPOTI (E QUELLO WOODCOCK), di Alessandro Sallusti

Pubblicato il 18 dicembre, 2010 in Politica | No Comments »

Sta per scoppiare un’altra bufera originata da intercettazioni illegali che avrebbero interessato mezzo governo e parte del Parlamento, ascoltati dal grande fratello che ormai da tempo agisce nel nostro Paese al di là e al di sopra delle leggi. Lo anticipa questo editoriale di Alessandro Sallusti, direttore de Il Giornale che pubblichiamo. E intanto Berlusconi annuncia il varo del disegno di legge di riforma della Giustizia. Al più presto, prima che sia tropo tardi e che si realizzi  definitivamente nel nostro paese il peggiore dei governi, il governo dei giudici. g.

È una questione di metodo, hanno rinfacciato a questo Giornale quando abbiamo pubblicato la condanna di Dino Boffo per molestie telefoniche a sfondo sessuale o svelato il pasticcio brutto di Gianfranco Fini e della casa di Montecarlo. I paladini del moralismo ritenevano che il nostro giornalismo fosse un metodo disdicevole perché attaccava la persona nella sua vita privata. A parte che non c’è nulla di più pubblico di una condanna o della vendita di una casa intestata a un partito, gli stessi signori, giornali e trasmissioni televisive hanno messo nel loro personale tritacarne Domenico Scilipoti, il parlamentare di Di Pietro che ha lasciato l’Idv e ha votato la fiducia al governo Berlusconi. Insulti, pesanti sberleffi, agguati a parenti (compresa la madre novantenne), la sua vita privata messa in piazza con spregiudicatezza, accuse pesanti messe nero su bianco senza il ben che minimo riscontro.

Ma il «metodo Scilipoti» non fa scandalo, anzi diverte intellettuali, professorini del giornalismo, noti conduttori bacchettoni. Sparare a caso su Scilipoti non provoca l’intervento dell’Ordine dei giornalisti. E tutto questo perché chi decide di stare con Berlusconi, addirittura di contribuire a non fare cadere il suo governo, non merita nessun rispetto e tutela da parte di quegli stessi intellettuali e politici che sul «metodo Boffo» hanno costruito una stagione di grandi successi.
Funziona così questo Paese, in tutti i campi, compreso quello della giustizia dove vige impunito il «metodo Woodcock», il pm napoletano che, insieme ad altri colleghi, ha raccolto intercettazioni telefoniche, verbali di pedinamento (con tanto di foto allegate) che coinvolgono ministri, sottosegretari, deputati e senatori. Mezzo governo e un pezzo di Parlamento è stato spiato senza una precisa ipotesi di reato. Così, a strascico si dice: una telefonata tira l’altra e via. Tutele e leggi per i pm non contano. In cinque mangiano al ristorante?

Indaghiamo, può essere la prova che fanno parte di una associazione segreta. Così dopo la P2 e la P3, sta per irrompere sulla scena la P4. Questo è il metodo che piace a Di Pietro e ora anche a Bocchino e Fini. Quintali di spazzatura raccolta a Napoli stanno per invadere di nuovo l’Italia. Ma non sono quelli lasciati dai cittadini per strada. Prepariamoci a una nuova stagione di veleni. Alessandro Sallusti, Il Giornale, 18 dicembre 2010

FINI DEVE DIMETTERSI

Pubblicato il 18 dicembre, 2010 in Politica | No Comments »

Giafranco Fini
Giafranco Fini

Non si era mai visto un premier annunciare una visita al Quirinale per mettere in mora un presidente della Camera. Né si era mai visto un presidente della Camera convocare un’assemblea di partito per chiedere le dimissioni di un premier.

Ecco cosa ha innescato lo scontro tra Berlusconi e Fini, protagonisti di una crisi politica tracimata in una crisi istituzionale, che ha costretto ripetutamente Napolitano a intervenire persino sul calendario dei lavori parlamentari. E c’è un motivo se, ignorando i maldipancia delle opposizioni, il Quirinale impose a suo tempo che il dibattito sulla fiducia si svolgesse dopo l’approvazione della legge di Stabilità, per salvaguardare così i conti pubblici e l’interesse nazionale.
Il fatto è che nel duello con il Cavaliere, il presidente della Camera ha finito per esporre anche il ruolo che ricopre. E ora che il premier ha vinto la sfida con il voto di fiducia, il centrodestra ha accentuato la pressione sull’inquilino di Montecitorio. Senza mai chiederne formalmente le dimissioni, ha iniziato ad appellarsi al «senso di opportunità», e siccome non esistono strumenti parlamentari per sfiduciarlo, starebbe approntando un’iniziativa per indurre Fini al passo indietro. Non è dato sapere quale possa essere lo strumento, è certo che lo «strappo istituzionale» resta uno dei fattori della crisi. E sarà destinato ancora a pesare.

Perché con le sue mosse da leader di partito, Fini ha rotto «la prassi», così scriveva Giuliano Ferrara ieri sul Foglio, invocando l’intervento del presidente della Repubblica, la sua capacità di persuasione «privata e pubblica» presso la terza carica dello Stato, in modo da rendere «indisponibile la presidenza della Camera per giochi politici hard core». In realtà Napolitano è già intervenuto, in forma «privata» e anche «pubblica».

Accadde il tre dicembre, quando Fini – nei panni di capo del Fli – disse che le elezioni sarebbero state scongiurate anche se Berlusconi fosse caduto: «Il capo dello Stato sa cosa fare, di più non posso dire». Con una nota non ufficiale, qualche ora dopo, il Colle sottolineò che nessuna presa di posizione politica, di qualsiasi parte, poteva oscurare le prerogative di esclusiva competenza del presidente della Repubblica. Ma quella sera, rivolgendosi al Quirinale con un greve «noi ce ne freghiamo», il coordinatore del Pdl Verdini spostò interamente su di sé i riflettori.

Dall’inizio il doppio ruolo di Fini è parso a Napolitano «una novazione» istituzionale, sebbene abbia tenuto a difenderne la figura dagli attacchi scomposti del Pdl. Ma nell’escalation del conflitto con Berlusconi, lo stesso Casini ha avuto modo di confidare le proprie perplessità su alcune sortite dell’inquilino di Montecitorio: specie alla vigilia del voto di fiducia, quando – nel corso di un’intervista tv – anticipò che il Fli avrebbe «comunque» votato contro il premier, «a prescindere» dal discorso che si apprestava a fare davanti alle Camere. Così, paradossalmente, Fini aveva colpito se stesso, il ruolo di custode solenne del confronto nelle Aule parlamentari.
Dopo averlo battuto, il centrodestra pare abbia intenzione di chiudere il conto con l’ex alleato. Nelle argomentazioni – che sono giunte anche al Quirinale – viene fatto notare come si sia creato a Montecitorio un «pericoloso precedente» da sanare per evitare che il successore di Fini possa avvalersi della «novazione» istituzionale.

C’è anche questo nodo nel complesso negoziato in corso tra la maggioranza e il leader centrista, Casini, interessato a usare il mese e mezzo di tregua con il Cavaliere per evitare le elezioni anticipate. Ogni possibile elemento di conflitto va depotenziato, con beneficio reciproco per le parti. Così la mozione di sfiducia contro il ministro Bondi, già posticipata, potrebbe non avere impatto sul governo al momento del voto grazie a un atteggiamento di «responsabilità» del terzo polo. E nel frattempo la maggioranza al Senato potrebbe accettare la delibera della Camera sull’interpretazione della legge elettorale europea, dando il via libera all’udc Trematerra per il seggio a Strasburgo. Non solo. Un clima rasserenato, senza più la presidenza della Camera al centro del conflitto, potrebbe consentire di discutere sulle norme da adottare nel caso in cui la Consulta a gennaio dovesse bocciare la costituzionalità del legittimo impedimento, legge che fu ideata proprio dai centristi. Ma la tregua regge su fondamenta instabili. Dovessero cedere, il presidente della Camera tornerebbe nel mirino della maggioranza. A quel punto, a fine gennaio, con le elezioni ormai certe, Fini potrebbe lasciare Montecitorio: magari a Milano, proprio nel giorno in cui Futuro e libertà diventerà ufficialmente un partito. Francesco Verderami, Il Corriere della Sera, 18 dicembre 2010

PARLA UN POLIZIOTTO: I DIMOSTRANTI AVEVANO PICCONI ED ACCETTE. NOI SIAMO I BERSAGLI PER 1200 EURO AL MESE

Pubblicato il 18 dicembre, 2010 in Cronaca, Politica | No Comments »

Il Corriere della sera ha intervistato un assistente di polizia che martedì era in piazza ad arginmare la violenza dei dimostranti, armati di picconi ed accette. E’ uno sfogo che dedichiamo a terzaforzisti di sempre, alla sinistra ceh fa finta di solidarizzare con le forze dell’ordine e in realtà tenta di scaricare sui poliziotti la responsbilità delle violenze. Dice il poliziotto intervistato dal Corriere che i genitori dei fermati invece di rimproverare i figli, inveivano contro “i pezzi di m…da  che no li rilasciano”.  E stigmatizza il rilascio ordinato dalla Magistratiura che così incita alla violenza. Ecco l’intervista.

ROMA – «Dio non voglia che questi, un giorno, raggiungano il loro scopo: uccidere uno di noi. Come gli ultrà hanno fatto con Raciti. Perché allora non so proprio come andrebbe a finire. I politici, gli onorevoli come li chiamo io, devono capire che bisogna cambiare strada. Subito». «Drago» è una montagna. Lo è nell’aspetto, ma anche dentro. Due lauree brevi, una famiglia da mantenere. Gianluca Salvatori («Ma se non dite Luca Drago nessuno mi riconosce», ci tiene a sottolineare) ha 43 anni, è un assistente capo della polizia. E un punto di riferimento per gli agenti del Reparto mobile di Roma. Un celerino, insomma. Di quelli che martedì scorso si sono ritrovati a fronteggiare centinaia di teppisti scatenati.

«Da soli, in 25, abbiamo respinto 5 mila energumeni armati di “male e peggio”, picconi, accette: ma quando ci daranno qualcosa di meglio di uno scudo e un manganello? Dove sono gli idranti e i “capsulum” (un potente lancia-peperoncino)?», chiede «Drago», che a piazza del Popolo ha preso colpi al petto e a una spalla, ed è finito in ospedale.

Luca è un giellista (dal Gl40, piccolo fucile usato per sparare lacrimogeni) e guida i blindati. È anche impegnato nei sindacati, come segretario provinciale della Consap. Ma la sua casa è la caserma di Ponte Galeria. Sulla carta oltre 500 uomini, «ma alla fine siamo 250. Un gruppo unito, legato da affetto fraterno, una squadra più simile a una famiglia». Con una vita in prima linea. «Per 1.200 euro al mese, più 13 di indennità nei giorni di ordine pubblico – svela l’agente -. Quanto guadagniamo all’ora nemmeno ve lo dico perché è ridicolo. I nostri colleghi spagnoli prendono quasi il triplo, gli altri anche di più. Ce la battiamo solo con i greci, ma lì è un’altra storia».

Quasi tutti i giorni con casco, scudo e mimetica imbottita. Nelle manifestazioni e allo stadio. Gli insulti nemmeno li sente più: «Di quelli non mi preoccupo – aggiunge il poliziotto – non mi offendo, anzi non ci offendiamo, noi del Reparto: li guardi in faccia, questi ragazzini, anche loro con i caschi e gli scudi. A qualcuno gliel’ho anche detto: “Ma lo capisci che con un arresto ti rovino il futuro?” C’è chi ti sta a sentire, chi ti ringrazia, come uno di Pisa che ho incontrato in ospedale. Ma tanti se ne fregano. E magari un giorno te li ritrovi a fare politica».

«Drago» c’era anche a largo Goldoni, durante l’aggressione al finanziere. Con i suoi («Compagni, camerati, colleghi? Come li devo chiamare per non essere etichettato?») è fra coloro che sono corsi in aiuto del militare. «C’erano tutte le condizioni perché usasse la pistola che volevano portargli via – spiega l’assistente capo – ma lui non l’ha fatto. Immaginate cosa sarebbe successo se un manifestante fosse riuscito a prenderla? Nell’ordine pubblico non si può sbagliare, non è come fare le indagini, dove c’è il tempo di fare correzioni. Da noi no. Quello che si prevede non è mai quello che accade. E in piazza non siamo solo poliziotti: siamo i supplenti di un governo, come anche ha detto il capo della polizia, di destra o di sinistra che sia, che invece non ci tutela come dovrebbe. I politici promettono aiuti che non arrivano mai e noi sacrifichiamo le nostre vite, privato compreso».
Essere un celerino vuol dire anche questo: «Certo, crediamo in quello che facciamo, per me è una vocazione. Martedì, come le altre volte, siamo stati i difensori di Roma contro un’orda di barbari. Ma anche noi abbiamo il diritto di tornare a casa tutti interi. Abbiamo madri, mogli e figli che ci aspettano. Proprio come i teppisti che fermiamo. Invece ci lapidano e ci ordinano di stare fermi, immobili. A subire di tutto. Non dico che le “teste calde” che ci sono fra noi facciano bene a sfogarsi. È chiaro che sbagliano, ma dopo 12 ore di questa storia…».

Alcuni fra i 53 feriti delle forze dell’ordine vogliono costituirsi parte civile contro chi li ha fatti finire in ospedale negli scontri a via del Corso e piazza del Popolo. Finora per tutti loro l’unica soddisfazione di una giornata drammatica è stato l’sms di ringraziamento inviato dal questore Francesco Tagliente. «Un onore, un conforto, non era mai successo prima», spiega «Drago», che però protesta: «Se un agente sbaglia paga tre volte rispetto a un cittadino normale, ma i danni fatti da questi teppisti a chi li chiediamo? Ai genitori? Tanto nemmeno loro capiscono: sempre martedì, in commissariato, ne ho incontrati alcuni – racconta l’agente -. Volevano notizie dei figli fermati. Per loro era come se fosse stato normale. “Dobbiamo aspettare che ste’ m…. decidono se carcerarlo oppure no”, diceva uno. Ma che scherziamo? Se succedesse a mio figlio il primo a picchiarlo sarei io». L’ultimo affronto poi è arrivato con la scarcerazione dei 22 arrestati di martedì. E su questo «Drago» chiude il discorso: «Ormai si sentono legittimati a fare tutto. Legittimati dalla giustizia che li mette fuori dopo tutto quel casino. E a ripresentarsi in piazza la settimana prossima. Ma ci saremo anche noi, come sempre». Rinaldo Frignani, Il Corrioere della sera, 18 dicembre 2010

BERLUSCONI: IN UN ANNO FINI E’ PASSATO DA MIO EREDE A VICE DI CASINI

Pubblicato il 18 dicembre, 2010 in Politica | No Comments »

Berlusconi, nessun calciomercato
Toni accattivanti con Pier Ferdinando Casini, ironia e sarcasmo verso Gianfranco Fini. Silvio Berlusconi anche questa sera, nel corso di un collegamento telefonico con la festa degli Amici del presidente del Molise, Michele Iorio, ha infierito contro il presidente della Camera: “Hanno voluto giocare allo sfascio sulla pelle degli italiani – ha attaccato il premier – hanno cercato, con una congiura di palazzo, di rovesciare la volontà degli elettori. E così il tentativo di ribaltone di Fini e del Pd ha fatto sì che Fini stesso, in un anno, sia passato da erede di Berlusconi a vice di Casini”. Liquidato così il ‘tentato ribaltone’, Berlusconi ha sfoggiato il consueto ottimismo dicendosi certo che il suo governo arriverà al traguardo del 2013, e comunque – ha osservato – se la situazione dovesse cambiare si tornerà al voto, al “giudizio del popolo”, e “vinceremo ancora”.

“Questa è stata la settimana della verità – ha detto il premier – sono stati smentiti tutti i pronostici e abbiamo avuto una vittoria politica. Ho la certezza di portare a termine la legislatura fino al 2013. I deputati saliti sul carro a guida Fini si sono trovati sul convoglio con destinazione ’sinistra’”. “Abbiamo sconfitto il tentativo di portare indietro l’Italia, alla prima repubblica. Per il terzo polo alleato della sinistra – ha ribadito Berlusconi – non c’é prospettiva. Cattolici e moderati non si fidano di loro. Abbiamo le idee chiare e i numeri”. E proprio i cattolici e i moderati sono oggetto di corteggiamento da parte del Cavaliere desideroso di allagare la maggioranza anche a quei deputati che militano in partiti aderenti al Ppe. “Ci sono cariche a disposizione, ma – ha puntualizzato non è calciomercato. La squadra di governo che ho è la migliore di tutta la storia della Repubblica, allargarla significa offrire una possibilità di arricchimento, coinvolgendo chi condivide il nostro programma”.

Intanto Berlusconi ha fissato le sue priorità: riforma della giustizia e intercettazioni. “Si riparte con i cinque punti del programma presentato a settembre, soprattutto la riforma della giustizia. Sarà difficile realizzare la vera riforma della giustizia per fare dell’Italia un Paese veramente libero”. “C’é una cosa – ha poi detto Berlusconi – per la quale gli uomini di Fini si erano opposti, per l’accordo con l’associazione nazionale magistrati: le intercettazioni. Ma queste violano la privacy. Non è possibile non poter parlare liberamente al telefono”. Fonte ANSA, 18 dicembre 2010