DI VITTORIO SGARBI

Difficile situazione. Non posso non assumere tutta la responsabilità dell’insoddisfacente risultato della trasmissione che fu Il mio canto libero ed è stata Ci tocca anche Sgarbi. In realtà è toccata a pochi. E quei pochi (due milioni) sono prevelentemente apparsi soddisfatti se devo giudicarlo dalle congratulazioni verbali, dalle telefonate, dai messaggi telefonici dalle e-mail che hanno sommerso me e i miei collaboratori, tutti unanimi nel riconoscere l’originalità e la novità della trasmissione dalle scenografie agli argomenti, alle sigle, alla ricostruzione della mia storia televisiva con riferimenti a Federico Zeri, a Francesco Cossiga ed altri modelli come Buster Keaton nella sua resurrezione televisiva.

Devo riconoscere che, pur nella consapevolezza di alcune sbavature e nel difficile rapporto con gli ospiti, dal vescovo di Noto a mio figlio Carlo (apprezzatissimo e premiato con il 14% di share) Morgan, Carlo Vulpio, non avrei pensato a risultati così modesti per la naturale considerazione che ho di chi, come persona, guarda la televisione e per la convinzione di persuadere all’attenzione con gli argomenti e la dialettica come ho dimostrato in innumerevoli circostanze.

E invece no. Non è bastato. Raiuno, come molti mi avevano preannunciato, ha spettatori tradizionali abituati a un’offerta facile di prevalente intrattenimento, in prima serata. Così è accaduto, insistere su Raffaello e Michelangelo e poi, addirittura, deviare su Filippo Martinez e Luigi Serafini, contemporanei più intelligenti che provocatori, è troppo audace.

Pretendere poi di parlare della bellezza dell’Italia, del paesaggio, del mondo agricolo perduto con il conforto di Leo Longanesi, Guido Ceronetti, Pier Paolo Pasolini, Thomas Bernhard, Cesare Brandi, Carlo Petrini è un azzardo intollerabile se su un’altra rete c’è una partita di calcio o Chi l’ha visto?. L’assassinio di Melania è molto più attraente che non la richiesta di riflettere sull’articolo 9 della Costituzione o di ascoltare le parole struggenti di Antonio Delfini sul padre. E poi i dirigenti della Rai richiamano i valori, e indicano la necessità che il servizio pubblico contribuisca alla formazione e alla libertà delle coscienze. Tutte parole.

Ieri ho letto soltanto una sconfortante serie di banalità a cui è impossibile rispondere perché non sono neppure in grado di ascoltare. Un giorno potremo aggiungere i loro nomi a quanti hanno deliberatamente contribuito a distruggere l’Italia, a sfregiare il suo paesaggio. Non se ne accorgono, parlano per luoghi comuni, chiamano centrodestra tutto ciò che non corrisponde alla loro, perfino ingenua, attrazione per il pensiero unico. E il loro unico problema è «quanto è stato speso», «chi pagherà il conto». Una preoccupazione che ossessiona le loro menti ma non le attraversa quando riguarda i costi del cinema, del teatro, della lirica, per cui nessuno si chiede «quanto costa» e anzi si protesta se si minacciano tagli di fondi.

Nella televisione dilagano soltanto voyeurismo e pettegolezzo, piccoli e grandi scandali, orride cucine e tinelli, consumismo e banalità. Ma questo è ciò che il pubblico vuole, secondo i dirigenti Rai, e la televisione non ha responsabilità educative, deve badare ai conti, nessuna riflessione sul fatto che nella tv si specchi la realtà e si formino i modelli culturali e che non comprendere la necessità di esprimere altri e diversi pensieri equivale a considerare che la scuola debba accomodarsi ai gusti e al piacere degli studenti rinunciando ad argomenti difficili. Perché leggere Leopardi, Guicciardini e Foscolo se agli studenti piace Jovanotti o il Grande Fratello?

Con questi principi ogni ipotesi di televisione legata al pensiero lascia il posto all’intrattenimento facile, alla pigrizia dell’ascolto. Così io non ho nulla da rivendicare e non ho alcuna intenzione di correggere, emendare o cambiare i miei argomenti che si esprime nella televisione che faccio in ogni situazione, anche nella contaminazione; ma, tanto più, se io la devo costruire come forma del mio pensiero, sono anzi certo che se l’ascolto fosse stato più alto le mie idee non sarebbero state criticate come se si potesse misurare la loro efficacia o il loro peso nella quantità di persone che le ascoltano. Questo sembra volere la Rai, non una televisione che indica ed educa suggerendo letture, stimolando suggestioni, curiosità.

Per quelle pagine e per quei pensieri io ho immaginato uno studio meraviglioso, derivato dalla «Scuola di Atene» di Raffaello, non l’avrei contaminato con le vicende di Avetrana o le storie di Ruby; mi sarei astenuto dall’ossessione di occuparmi in modo pressoché esclusivo (come «Annozero» o «Ballarò») del nostro presidente del Consiglio. Non sono stato premiato ma non cambio idea, d’altra parte ricordavo ai miei severi critici, che forse non hanno ascoltato le belle pagine di Antonio Delfini, che da molti anni nei giornali la terza pagina è stata spostata verso la fine dei giornali, nei più piccoli fra pagina 19 e pagina 25, sul Corriere ad esempio dopo le Cronache regionali, intorno a pagina 50 (ieri a pagina 55). Cosa vuol dire? Che si accetta che molti non ci arrivino, o non le leggano, in esatta corrispondenza con il modello televisivo, per cui la cultura, i libri, le mostre vanno in terza serata. Una scelta rassegnata e obbligatoria.

Ma come si può sperare che un paese rinasca, che nuove idee si agitino se la televisione ha paura della cultura perché fa insufficienti ascolti, e allora non bisogna insistere, tentare di affermare un altro modo di fare televisione che non siano dibattiti regolati e confezionati ma discorsi e riflessioni argomentate, di uno scrittore (l’altroieri Gavino Ledda) di un vescovo (il teologo Antonio Staglianò), di un giornalista appassionato come Carlo Vulpio, di un cantante colto e originale come Morgan?
No. Bisogna rassegnarsi, rinunciare a una televisione diversa, accettare la legge dei numeri, chiudere tutto e lasciare spazio a pacchi, isole e caricature forzate di finti personaggi. Raiuno deve difendere la propria mediocrità e rinunciare ad ogni ambizione di mostrare forme, immagini, idee nuove. Benissimo. Obbedisco. VITTORIO SGARBI.
………… Il fatto che Sgarbi faccia autocritica non è cosa di poco conto e il fatto che riconosca che la puntata , la prima,   e pare l’ultima, del suo programma,  abbia fatto flop, è sicuramente segnale di profonda onestà intellettuale. Questa non manca a Sgarbi che può unirvi  la sua profonda e vasta cultura, quella che gli consente, talvolta al di sopra delle riga, di salire in cattedra e di urlare le sue ragioni. Quella, per esempio, che richiama nella sua autocritica a proposito delle preferenze dei telespettatori. Che ai programi di cultura preferiscono quelli di gossip, e spesso quelli che si basano sulla morbosità. Ha ragione Sgarbi in questo,  ma è anche per questo  forse che varrebbe la pena di ritentare. g.