Quelli che dissero di no. 8 settembre 1943: la scelta degli italiani nei campi di prigionia inglesi e anericani.

Il più famoso è il Duca D’Aosta, l’eroe dell’Amba Alagi, al quale gli inglesi, dopo la strenua resistenza,  resero gli onori delle armi prima di deportarlo in India in un campo di prigionieri di guerra non cooperatori. Ad un generale suo sottoposto che gli proponeva di allearsi con gli inglesi, il Duca rispose: “dovrebbero arrestarci entrambi, lei che ha parlato ed io che l’ho ascoltata”. Il Duca non rientrò mai in Italia, morì di malaria in prigionia, in quel campo di non cooperatori, uno dei tanti allestiti da inglesi e americani,  dove tantissimi soldati italiani, dopo l’8 settembre, rimasero prigionieri, taluni per molti anni, prima di rientrare in Patria, senza aver accettato di cooperare con i vincitori. A narrarre la loro storia, a ricordarne i nomi, da Alberto Burri a Giuseppe Berto, a Gaetano Tumiati,   da Walter Chiari e Raimondo Vianello,  entrambi arruolatisi nella RSI, ignorati dalla pubblicistica della Resistenza  e liquidati come fascisti irrecuperabili,  è il libro di Arrigo Petacco, da oggi in libreria, dal titolo emblematico: Quelli che dissero di no. 8 settembre 1943: la scelta degli italiani nei campi di prigionia inglesi e americani, edito da Mondadori, 19 euro. “E’ un libro che fa male ai sentimenti questo di Petacco, ha scritto nel recensirlo Pietrangelo Buttafuoco. E’ documentato, e ogni pagina diventa sceneggiatura di un film, di un documentario, di un tornare dentro le profondità del nostro essere italiani e cavarsene fuori col terrore di non essere  oggi all’altezza di quella dignità e di quel coraggio o di quella spavalderia. Come fuggirsene dal campo di prigionia in Kenya per scalare il monte omonimo solo per piantare in cima il tricolore e magari finire in una tavola di Achille Beltrami sulla Domenica del Corriere”. E aggiunge Buttafuco ” non c’è il ritratto autoassolutorio degli italiani brava gente in Quelli che dissero di no. C’è al contrario, il racconto degli “italiani di carattere”, quelli della strada impervia, straordinari a dimostrare quanto fosse vera la parola d’ordine del credere, obbedire combattere,  rispetto alla disfatta fin troppo facile della stragrande maggioranza dei voltagabbana, tanti al punto di raccapricciare lo stesso nemico che, per la prima volta nella storia, s’impegna a rieducare il prigioniero, a trasformarlo in un cobelligerante. Tutto ciò mentre pochi uomini sdegnosamente rifiutavano l’elemosina di trasformarsi da vinti in vincitori. Ci sono pagine commoventi in questo libro così estraneo all’albertosordismo fino a diventare contravveleno alla vulgata ufficiale sull’esercito sconfitto”.  E, conclude Buttafuoco, “c’è ovviamente la storia mai conosciuta  in questo libro vivo come un racconto fatto a voce.” La storia, vogliamo sottolinearlo,  di uomini, noti e meno noti, che nei  campi della prigionia, furono protagonisti di testimonianze di ordinaria normalità, tanto ordinaria da sfiorare l’eroismo, come il colonnello Paolo Sabbatini, medaglia d’oro al valore militare, prigioniero in un “fascist kriminal camp” detenuto alle pendici dell’Himalaia in India,  non collaborazionista, che come tutti gli altri prigionieri  bruciava le lettere che gli arrivavano da casa per non  farsi prendere dalla nostalgia.  così resistere alla richiesta di farsi traditore, o come Beppe Niccolai, futuro fondatore del MSI e il tenente Giovanni Dello Jacovo, futuro deputato del PCI, entrambi, nello stesso campo,  non collaboratori, che si meritarono dagli stessi carcerieri  una medaglia di riconoscimento:” You are true soldiers”.  E’ un libro,  però, avverte   Buttafuco, “di straordinaria attualità in queste giornate in cui tutti attendono un nuovo Dino Grandi e ci aiuta a non poco a scandagliare la psicologia di noi italiani, sempre in bilico tra fedeltà e mugnugno, nell’eterno contrappasso”.  Un libro da leggere e da meditare. g.

……………Anche  molti soldati torittesi furono prigionieri non cooperatori, alcuni in India, altri in America.  Fra questi,  una  indimenticata figura  della politica locale, Francesco Giannini, don Ciccio per tutti, icona storica della Destra torittese. Catturato in Africa,  fu prigioniero in un “fascist kriminal camp” in India, non cooperatore e non collaborazionista, e ricordava  sempre con orgoglio questa sua scelta, sebbene gli fosse costata il rientro in Patria con molto ritardo, nel 1949. Gli fummo molti vicini e ora ci piace ricordarLo in occasione della recensione del libro di Petacco dedicato ai  soldati italiani prigionieri non cooperatori.g.