Un vento rosso è tornato ad ammutolire l’area riformista e adesso montiana del Pd. Dopo Nichi Vendola in Puglia, Giuliano Pisapia a Milano, Massimo Zedda a Cagliari, per non parlare di Luigi De Magistris a Napoli, anche le primarie di Genova sono state vinte da un esponente della sinistra massimalista, Marco Doria. Ancora una volta nelle urne la sinistra antagonista ha sconfitto quella governativa. Qualcuno dice che il caso Genova investirà come uno tsunami il Pd. Di sicuro è il segnale che la crisi è profonda e che l’esperienza Monti costa. Il motivo è lì, davanti a tutti, anche se l’intero gruppo dirigente democratico fa finta di non vederlo: per colpire il governo Berlusconi, Pier Luigi Bersani e soci hanno cavalcato politiche demagogiche e conservatrici, hanno lodato Angela Merkel, Nicolas Sarkozy e le agenzie di rating; oggi, con il bocconiano a Palazzo Chigi, invece, hanno cambiato filosofia, i no sugli stessi argomenti sono diventati dei sì e gli alleati di prima sono diventati i nemici. Un processo fatto in fretta e furia, strumentalmente, senza un ripensamento culturale o l’ammissione di qualche errore. Senza, insomma, indurre la base del partito a una riflessione.

No, c’è stato il solito «controordine, compagni», che purtroppo per Bersani e soci non funziona più. Anche perché il gruppo dirigente del Pd non ha legato questo cambio di linea andando al governo in prima persona. Non è stato come con Romano Prodi o con Massimo D’Alema: ci apriamo alla modernità, facciamo i sacrifici che ci chiede il nostro uomo di fiducia. Questa volta una sinistra che per anni è stata abituata a dire sempre no deve dire sì a una sorta di dittatura finanziaria, deve dire sì alle lobby, al governo delle banche, le uniche risparmiate dalla politica dei sacrifici. Insomma, secondo i dirigenti del Pd i camalli di Genova dovrebbero accettare senza crederci i rappresentanti di quel mondo che ha costretto gli scaricatori del porto del Pireo a mettere a ferro e fuoco Atene.

Difficile da credere. Si tratta di un’operazione ad alto rischio, speculare al processo che sta avvenendo nel centrodestra. Anche il Pdl sta svendendo pezzi della propria identità. Accetta liberalizzazioni che colpiscono parte del proprio elettorato, ma che risparmiano banche, assicurazioni, petrolieri. Cioè i poteri veri. Inoltre il Pdl, come del resto il Pd, sposa una politica difficile affidandosi a un «tecnico». Insegue un’illusione: ci mettiamo dietro a Mario Monti e nessuno ci chiederà conto delle scelte di oggi; poi passata la burrasca ci riprenderemo la guida del Paese. Nulla di più sbagliato.

Da che mondo è mondo le leadership si consacrano nei momenti difficili. È stato così anche per quelle che ci sono oggi: il gruppo dirigente del Pd è ancora, a parte Achille Occhetto, quello della «svolta»; il carisma del Cavaliere è legato al dopo Tangentopoli. I processi si guidano: se è il momento della grande coalizione, allora si rivendica questa politica. Si va alle elezioni proponendo questa formula, o la si realizza in questa legislatura stando al governo in prima persona. Senza nessuna ipocrisia. Invece ci si attarda nei litigi tra Angelino Alfano e Roberto Formigoni sul nome, appunto, di un «tecnico», Corrado Passera, sperando, che passata la tempesta, qualcuno possa in nome del Pdl rivendicare la guida del Paese. O si punta alla chirurgia politica, sulla legge elettorale, per ridisegnare lo scenario politico: una legge elettorale tedesca, ad alto sbarramento, con quattro-cinque forze che apparecchi sul tavolo senza sforzo la «Große Koalition».

Ma chi l’ha detto che perdendo pezzi di identità i grandi partiti resteranno gli stessi? Chi può scommettere sul fatto che, messo da parte il bipolarismo, non venga fuori un palcoscenico con 7-8 partiti? I calcoli spesso si sbagliano. Magari a quel punto ci saranno i «tecnici», ma forse non il Pdl e neppure il Pd. Augusto Minzolini, Panorama, febbraio 2012