A leggerle per intero, le dichiarazioni di Silvio Berlusconi pronunciate ieri mattina a Milano in occasione dell’inaugurazione del Memoriale della Shoa, sono meno mirabolanti di quel che si possa pensare e di come sono state pronunciate. Il Cavaliere ha condannato non soltanto le leggi razziali ma anche l’alleanza con la Germania di Hitler precisando che la scelta antisemita è stata la «peggior colpa» del Duce: il che, per inciso, lascia intendere che altre colpe, anche gravi, potrebbero essergli imputate.Ha poi aggiunto, senza entrare in particolari, che «per tanti altri versi» Mussolini aveva fatto bene. Poche parole, poche battute, ma sufficienti per innescare un vespaio. Nel corso di una campagna elettorale dai toni così accesi come quelli che si registrano ogni giorno, le parole di Berlusconi su Mussolini, sulle leggi razziali e sul fascismo hanno avuto l’effetto di radicalizzare ulteriormente la lotta politica rafforzando e ricompattando il fronte dell’antiberlusconismo. In realtà, se c’è una osservazione critica da muovere alle poche battute del Cavaliere, questa potrebbe riguardare l’opportunità di averle pronunciate in una occasione e in una sede che avrebbero dovuto indurre a una maggiore compostezza, se non anche cautela politica, perché il peso storico della tragedia dell’Olocausto rappresenta, con la sua unicità, un fatto di enorme portata di fronte al quale il silenzio e il raccoglimento dovrebbero essere d’obbligo. Detto questo, però, va anche precisato che Mussolini e il suo governo qualcosa di positivo pure lo fecero. Vorrei solo ricordare, in questo momento di grave crisi economica e con un disavanzo statale a livelli stratosferici, che fu proprio durante il primo governo Mussolini che, grazie alla politica economico-finanziaria di Alberto De Stefani, l’Italia riuscì a centrare l’obiettivo del pareggio del bilancio: un obiettivo che, in tutta la storia unitaria del paese, fu raggiunto in due sole occasioni, con il governo di Marco Minghetti e della Destra storica nel 1876 e, appunto, con il governo Mussolini nel 1924. Si potrebbero aggiungere, all’attivo di un ideale bilancio del regime, altri risultati di non poco conto: dalla riforma della scuola legata al nome di Giovanni Gentile alla chiusura della questione romana, dalle grandi bonifiche fino alla creazione di quella «economia mista» che è sopravvissuta al crollo del regime e ha finito per costituire un tratto caratterizzante dell’Italia democratica del secondo dopoguerra, dalla legislazione sociale allo Stato imprenditore. Tutti fatti, questi, che hanno spinto alcuni studiosi, soprattutto di scuola americana, ad assimilare il fascismo a una developmental dictatorship, cioè a dire a una «dittatura di sviluppo» o, se si preferisce, a un regime funzionale a uno stadio di trapasso economico verso l’industrializzazione. Ma de hoc est satis anche perché, sull’altro piatto della bilancia, c’è naturalmente il peso dell’illegalismo e della violenza delle origini cui fecero seguito, dopo il delitto Matteotti, la trasformazione dello Stato in senso autoritario, il consolidamento della dittatura e, nell’ultima fase, il tentativo di costruire uno Stato totalitario propriamente detto. Silvio Berlusconi ha lasciato intendere, nelle sue poche battute, che la fase di involuzione del fascismo, quella che avrebbe portato alla catastrofe, ebbe inizio proprio quando l’Italia scelse di allearsi con la Germania di Hitler mettendo in soffitta la tradizionale linea di politica estera, che, all’indomani del primo conflitto mondiale e fino alla guerra d’Etiopia, l’aveva vista ancora partecipe del «campo» dei Paesi vincitori del conflitto mondiale e preoccupata di garantire la pace europea. Si tratta, pur in prima approssimazione, di una interpretazione corretta perché proprio l’alleanza con la Germania significò l’imbocco di una strada di subalternità politica e sudditanza ideologica che avrebbe portato alla disastrosa scelta bellica e all’accettazione ingiustificata e ingiustificabile di aberranti e criminali pulsioni antisemite. Accennando in maniera implicita a tutto questo e pur tacendo il connotato illiberale e dittatoriale del fascismo, Berlusconi ha, senza dirlo apertamente, richiamato l’attenzione sull’opportunità che la storia non utilizzi le lenti deformanti dell’ideologia e che invece, in linea con la celebre espressione di Benedetto Croce, sia non «giustiziera» ma «giustificatrice», capace cioè di comprendere e far comprendere lo svolgimento dei fatti. Ma quale può esser mai, da un punto di vista politico, il motivo di questa uscita di Berlusconi che, per quanto in sé e per sé non inesatta, finisce per caricare i suoi avversari? È difficile pensare che quella del Cavaliere sia una «voce dal sen fuggita». È più probabile che si tratti di una strategia per far sì che il suo nome si al centro dell’attenzione. E che egli possa apparire, ancora una volta contro tutti, il Cavaliere coraggioso capace di dire cose impopolari. Il Tempo, 28 gennaio 2013