Archivi per febbraio, 2013

COSA DICONO I SONDAGGI ( A UNA SETTIMANA DAL VOTO), di Alessandro Sallusti

Pubblicato il 17 febbraio, 2013 in Politica | No Comments »

Sette giorni e si vota, ripristinando così la democrazia sospesa oltre un anno fa dalla sciagurata scelta di Napolitano di affidare la guida del Paese a un governo tecnico.

I risultati sono sotto gli occhi, e sulla pelle, di tutti: la situazione di famiglie e imprese è peggiorata. Eppure Napolitano insiste, come tutti i comunisti non ammette gli errori. E siccome Obama sa a mala pena dove sta l’Italia sul mappamondo, il nostro presidente gli ha spacciato per vera la favola di Monti salvatore della patria. Quello ha annuito per dovere di ospitalità e noi ora dovremmo berci che l’America vota Monti. Ma per favore. Neppure gli italiani, stando ai sondaggi, vogliono votarlo. Figuriamoci gli americani.

Comunque, a una settimana dal voto, la situazione sta più o meno così. Al Nord l’asse Pdl-Lega tiene bene, troppo bene, tanto che la solita procura sta pensando di giocarsi l’asso della disperazione. L’obiettivo è Roberto Maroni, candidato governatore della Lombardia. Il mezzo è Orsi, ormai ex presidente di Finmeccanica arrestato con un tempismo sospetto. La speranza è che il galeotto, a disagio in cella, accetti di confermare il teorema che lo vuole uomo organico alla Lega. Quindi, se nelle prossime ore leggerete il titolo «Avviso di garanzia per Maroni», sappiamo tutti di cosa si sta parlando.
Monti, come detto, è messo non male, malissimo. I suoi due soci, Casini e Fini, insieme valgono più o meno come il partito di Storace (il cognato di Tulliani rischia di non entrare in Parlamento). Ma lo stesso Monti sta scivolando sotto soglie che mettono a rischio di mancata elezione la sua pattuglia di senatori. È un pesce fuor d’acqua che si agita e scommetto che in settimana passerà dagli insulti ai fatti, svelando chissà quale presunta porcheria dei suoi avversari.
Bersani è come lo vedete. Paralizzato. Nelle rilevazioni l’encefalogramma del partito è piatto e non c’è verso di rianimarlo. Berlusconi parla di sorpasso avvenuto. Non posso confermare – la legge me lo impedisce -, ma in coscienza non me la sento di smentire. Posso solo aggiungere che Ingroia, sull’ala sinistra, piace più di Vendola, e questo complica di molto le cose in casa Pd. Un segnale in questo senso è proprio lo spot a Monti del compagno presidente Napolitano, che i sondaggi li conosce bene: o Monti cresce o, stando ai fatti, il vecchio presidente non riesce neppure stavolta, per fortuna l’ultima, a insediare a Palazzo Chigi un premier di sinistra.

E veniamo a Grillo, il presunto trionfatore. I vecchi politicanti arricciano il naso e ricordano un proverbio: piazze piene, urne vuote. I suoi avversari lo temono, ma lo stesso Grillo non si fida e, tradendo (buon ultimo) un giuramento, si concede da oggi alla tanto disprezzata televisione. Un motivo ci sarà, ed è che anche lui legge i sondaggi e vede che qualcosa non torna.
Partita aperta, quindi. E in sette giorni possono ancora cambiare tante cose. Come dice Mentana aprendo ogni suo tg: c’è fibrillazione alle stelle nel mondo della politica, ne vedremo delle belle. Alessandro Sallusti, 17 febbraio 2013

..…..Quando si tifa, il tifoso è sempre pronto a credere ciò che più gli piace. Sallusti non è un tifoso qualsiasi, è un giornalista in gamba, un uomo d’onore (ma non è siciliano!), non racconta frottole, quantomeno ne racconta meno di altri. Per non incorrere nei rigori della legge che per lui sarebbe rigorosissima, non svela i sondaggi elettorali che da una settimana sono proibiti per legge ma solo sulla stampa,  perchè in internet circolano tranquillamente, ma di certo li conosce per via della posizione che si ritrova. Possiamo immaginare che i sondagg cui si riferisce Sallusti continuano a non delinerare con certezza un vincitore, ma forse delinea tanti perdenti, in primo luogo  gli elettori,  quanto mai frastornati e per molti versi indifferenti, anche per via del periodo che non è tra i migliori per una campagna elettorale vecchio stile. Questa volta di vecchio c’è solo la legge elettorale che fa storcere il muso a tanti, salvo ai “predestinati”, quelli cioè che per misteriose (!?) ragioni occupano in ciascuna lista i posti in alto garantendosi la elezione e che sono guardati con gelosa cattiveria da quelli che stanno indietro,  chiamati a far tappezzeria, a riempire i buchi di un sistema elettorale che affida agli elettori solo il compito di mettere una corce su uno delle centinaia di simboli elettorali, ma vieta loro di votare il candidato di proprio gradimento   e da cui vorrebbero essere rappresentati. Così stando le cose, come  è  stato argurtamente osservato da qualcuno, la prossima volta invece di mandare una cinquantina di milioni di persone nei seggi, basterà mandarvi qualche  migliaio di “sondaggiati”, anzi non mandarli affato, e assegnare le percentuali a ciascun partito e quindi il numero dei seggi  sulla scorta delle rilevazioni effettuate via telefono o altre più moderne diavolerie elettroniche. g.

MONTI SI FA IN TRE MA NON NE AZZECCA UNA

Pubblicato il 15 febbraio, 2013 in Il territorio, Politica | No Comments »

Monti si fa in tre ma non ne azzecca una

Uno e Trino, senza essere blasfemi. È il nuovo miracolo di Sua Santa Sobrietà che, nel rush finale della campagna elettorale, si è spacchettato in tre: il Monti fu tecnopremier (che piace solo a Casini); il Monti versione famiglia (moglie, cagnolino, cotechino e croccantini) costruito nella speranza di acchiappare qualche consenso; il Monti candidato, che invece promette l’esatto contrario di quanto ha fatto. Per averne prova, basta dare un’occhiata alle parole pronunciate nel suo patetico tour. Il Pil è crollato, facendo registrare uno dei peggiori dati della nostra storia economica. E lui, come se niente fosse, dichiara che lo farà salire del 6% grazie alla sua bacchetta magica. Non risponde a chi gli fa notare che il crollo è dovuto al suo rigore esasperato e neppure a chi gli dice che è una conseguenza del suo essere servile con la Germania. È un professore, non deve risposte a nessuno. Ha lasciato 7 miliardi di euro da coprire (lo dice Fassina) ma Monti fa spallucce, che vuoi che siano. C’è il record delle imprese che hanno chiuso i battenti? Riapriranno. La mazzata che ha dato con l’Imu è stata troppo pesante? La renderà più leggera. La scuola ha subìto tagli? Le darà i soldi. Ha creato tre milioni di disoccupati? Creerà sei milioni di posti di lavoro. Due milioni di anziani non riescono più ad affrontare i costi delle cure mediche e dei farmaci? Pazienza, tutti devono rinunciare a qualcosa e fare sacrifici. Intanto, viene ripreso dai fotografi mentre mangia il pasticciotto, accarezza il cagnolino e cerca di tenere buoni alleati recalcitranti e con i consensi elettorali al lumicino, perché vampirizzati da quella “Scelta civica” che diventa ogni giorno più “Scelta cinica”.  Alla possibile sconfitta penserà domani. Anzi, ci penserà la Merkel. A trovargli una “giusta” collocazione. 15 febbraio 2013

.……………Intanto del sobrio Monti che salì umile  e servile le scale del Qurinale per afferrare iol laticlavio a vita di senatore, pagamento anticipato per i servizi che prometteva di rendere al Paese, non v’è più alcuna traccia. Borioso e suponente come sempre lo abbiamo visto, descritto e considerato, Monti, salito in politica dopo essere sceso dall’olimpo  dei falsi dioscuri di cui è popolata l’Unione Europea, specializzata nel succhiare il sangue dei popoli che le si sono affidati, ora scopre l’altra faccia, la paeggiore, di cui dispone, la faccia della cattiveria fine a se stessa. Oggi ha definito cialtrone Berlusconi e governo di cialtroni quello dimessosi per fargli posto, e ovviamente il partito del quale l’uno e l’altro erano emanazione, cioè il PDL. Gli ha replicato Berlusconi defindendolo disperato ma nessuna disperazione, anche nel recente passato, avrebbe potuto giustificare tanta cattiveria e tanta ingratitudine da parte di un oscuro burocrate, che nel 1994 si fece in quattro per faersi nomnare commissario europeo da Berlusconi, dopo averlo votato e che rinnovato nel’incarico da Prodi quattro anni dopo, a Bruxelles si è distinto per il suo anonimato dietro il quale ha costruito una fama di esperto in economia che i fatti hanno ampiamente smentito. Certo la politica non sta offrendo un buon spettacolo,  nè dando una buona prova di sè in questo periodo storico, ma  peggio della politica i tecnici e i burocrati di cui Monti è la peggior espressione. g.

DAL MONTE DEI PASCHI ALLA FINMECCANICA: LATITANTI SONO LE REGOLE, di Sergio Rizzo

Pubblicato il 14 febbraio, 2013 in Economia, Giustizia, Politica | No Comments »

Dopo l’arresto di Giuseppe Orsi la sospensione dei pagamenti alla Finmeccanica da parte dell’India era scontata. Non finirà lì, temiamo. Si parla di un’azienda pubblica nel cui capitale sono presenti molti investitori privati, che opera in un settore strategico e ha una fortissima proiezione internazionale, con rapporti anche governativi. È impossibile prevedere quali ripercussioni avrà questa vicenda in quei contesti. Ma nell’opera di ricostruzione dell’immagine aziendale i nuovi vertici dovranno impegnarsi a fondo. La Finmeccanica ha 70 mila dipendenti, rappresenta il cuore tecnologico dell’industria italiana ed è espressione di quel poco che ancora ci resta della grande impresa manifatturiera.

Le implicazioni rischiano dunque di rivelarsi ben più pesanti di una giornata di passione in Borsa. Anche perché, in concomitanza di una campagna elettorale che getta un’ombra di incertezza sulla stabilità di qualunque futuro governo inquietando i mercati, quella della Finmeccanica non è l’unica ferita a grondare sangue. Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni, altra grande impresa pubblica il cui ruolo viene spesso paragonato a quello di un vero e proprio ministero degli Esteri «parallelo», è indagato per una faccenda di presunte tangenti algerine. Mentre l’ex presidente della terza banca italiana, il Monte dei Paschi di Siena, è sotto inchiesta per aver nascosto agli organi di vigilanza alcune operazioni che hanno causato gravi perdite: con l’aggravante, per Giuseppe Mussari, di essere stato per tre anni il capo dei banchieri italiani, incaricato di trattare in nome e per conto di tutti loro gli accordi di Basilea. Lo scandalo senese, poco ma sicuro, non migliorerà i rapporti internazionali delle nostre banche.

In questa tempesta perfetta non mancano pesanti responsabilità. Così premurosa quando si tratta di spartire poltrone nelle aziende pubbliche e in certe banche, la nostra politica non mostra mai identica reattività quando sarebbe necessario. Nel caso del Monte dei Paschi, ha tollerato il permanere di un rapporto perverso fra banca e partiti locali. Per non parlare della colpevole inerzia del governo di fronte al dilagare del tumore dei derivati. Nel caso della Finmeccanica, invece, ha chiaramente sottovalutato il rischio. Si poteva intervenire prima? Probabilmente si doveva. Difficilmente, in Paesi come la Germania o il Regno Unito, l’azionista pubblico sarebbe rimasto completamente indifferente davanti a un’accusa di corruzione internazionale formulata dalla magistratura già molti mesi fa. Non fosse altro, per tutelare entrambi: l’azienda e l’accusato. In Italia, invece, no.

Anziché intervenire per tempo, qui si preferisce fare esercizi di dietrologia. Sempre dopo. C’è chi si chiede se lo scandalo del Monte non sia scoppiato ad arte proprio ora per mettere in difficoltà il Pd, e chi sospetta che l’arresto di Orsi nasconda un siluro alla Lega Nord, partito certo non ostile a quel manager, il cui leader Roberto Maroni punta a governare la Lombardia. Altri non escludono che pure l’inchiesta sull’Eni faccia parte di un’offensiva dei magistrati in piena campagna elettorale… L’unico fatto sicuro è che quando in certi casi la politica non agisce tempestivamente lo spazio vuoto viene occupato dalla magistratura. Lo sappiamo da almeno vent’anni. Peccato che la lezione non sia servita a niente. Sergio Rizzo, Il Corriere della Sera, 14 febbraio 2013

IERI SERA IL FESTIVAL DELLA CANZONE ROSSA…..

Pubblicato il 13 febbraio, 2013 in Costume, Politica, Spettacolo | No Comments »

Assist di Crozza al Pdl. E il Cavaliere preferisce Juve-Celtic

Berlusconi bugiardo, imbonitore da strapazzo firmato Crozza, la struggente nostalgia per l’Unione sovietica di Toto Cutugno, la coppia gay che vuole convolare a giuste nozze il 14 febbraio ma non può, persino l’appello allo ius soli. Un video elettorale di Nichi Vendola non avrebbe saputo fare di meglio. La prima serata del Festival di Sanremo in versione fazionalpopolare a dieci giorni dal voto sforna tutto l’armamentario di una sinistra con la bava alla bocca. Il canovaccio di Fazio–Litizzetto è andato oltre ogni previsione. Il pubblico in sala non gradisce, “vai a casa”, “no politica” è il coro indirizzato a un Crozza spiazzato. Non se li aspettava quei fischi interminabili: bianco in faccia, salivazione azzerata, impietrito. Vestito da Berlusconi in versione chansonnier Verdini- Aznavour, con le  banconote nel taschino, prova a minimizzare: «Ragazzi, amici… non fate così…», finché non viene in soccorso Fazio. «Calmi, state calmi. Così non vale – dice il bravo presentatore –  dobbiamo divertirci…». Peccato che sembra di assistere a un comizio del Pci degli anni d’oro. Un boomerang per la sinistra? Forse. Berlusconi, ospite di Mattino 5, ci scherza su, abituato ai fendenti della satira, maestro di comunicazione, dice di non averlo visto e di aver preferito «una bella partita con la vittoria della Juve contro il Celtic». Non approfittate del festival per farvi notare con due urli…», dice ancora Fazio. La versione ufficiale, neanche a dirlo, è quella della claque prezzolata, due facinorosi spediti da via dell’Umiltà per rovinare la festa al povero Fabio. I capistruttura di viale Mazzini si affrettano a comunicare che i “quattro gatti” sono gli stessi che contestarono Celentano nel 2002. Difficile da credere visto che le telecamere Rai non inquadrano mai la sala e si concentrano sul volto di Crozza. Perché l’ha fatto? «Perché ho pagato 168 euro per sentire le canzoni», racconta uno dei contestatori. Tutto qui. Per Bersani da Crozza arriva solo qualche tiepida battuta. Come fanno a convivere Pd e Sel? Facile.«Ti finisco la Tav, così puoi andare in Francia a sposarti» promette il Crozza-Bersani a Vendola. E a proposito di matrimoni gay arriva l’esibizione di Stefano e Federico. «Ci amiamo, ci siamo conosciuti a una festa, poi siamo andati a casa, che è diventata la nostra casa. Adesso dopo 11 anni di vita insieme vogliamo sposarci, ma la legge italiana non ce lo permette. Andremo a New York». Tagliato il bacio finale. E anche il tema delle unioni omosessuali è archiviato. Manca solo l’ultima chicca. Toto Cotugno che si esibisce in una canzone russa e confessa di avere una grande nostalgia per la Russia di una volta. “L’italiano vero” rimpiange la dittatura comunista. Che c’è di male? Ognuno ha i suoi gusti, si dirà. E se avesse rimpianto la Germania di Hitler? Lo avrebbero esiliato. Giustamente.

..…e Fazio si infila nell’Armata Rossa…..

PAPA BENEDETTO: IL SEME FERTILE DELLA RINUNCIA

Pubblicato il 13 febbraio, 2013 in Storia | No Comments »

Con il passare delle ore appare sempre più evidente che il gesto con cui Benedetto XVI ha posto fine al suo pontificato, lungi dall’essere un gesto di «rinuncia», è stato in realtà l’opposto: un gesto di governo di grande portata e insieme un atto di alto magistero spirituale. Un gesto che ha qualcosa di quella risolutezza del pensiero, pronta a divenire decisione concreta nella prassi, di cui negli ultimi due secoli hanno dato tante prove le vicende della Germania di cui Ratzinger è un figlio.

Le dimissioni papali vogliono dire con la forza delle cose un’oggettiva desacralizzazione della sua carica. Il contenuto teologico di questa (l’essere cioè egli il vicario di Cristo) rimarrà pure inalterato, ma sono i suoi modi di designazione e il suo esercizio, la sua «aura», che vengono riportati a una dimensione assolutamente comune. Se infatti è possibile che il Papa si dimetta – rovesciando così una prassi secolare del vertice supremo – allora anche altre novità sono possibili. Anche altre prassi secolari possono egualmente essere rovesciate ai livelli inferiori. Con il gesto di Benedetto XVI è dunque il modo d’essere della struttura centrale del governo della Chiesa che viene in realtà messo in discussione: sottoposto al riscontro dei fatti, alla dura prova del tempo e della pochezza umana. E i fatti di quella struttura, come si sa, hanno offerto ultimamente uno spettacolo penoso di cattivi costumi, di calunnie, di giochi di potere, di ambizioni senza freno, di latrocini. Colpa delle regole fin qui in vigore nella Curia e non solo lì: ma quelle regole possono e devono cambiare, dice il gesto del Papa. Come per l’appunto egli ha fatto con una regola (e quale regola!) che lo riguardava. Può ancora, per esempio, la sua stessa elezione essere riservata a un pugno di anziani oligarchi maschi per entrare nel cui novero non si bada a nulla? Può ancora il potere delle Congregazioni essere tutto concentrato nelle loro mani? È ammissibile che esista tuttora un bubbone come lo Ior, la banca vaticana?

Le dimissioni di Benedetto XVI interrogano esplicitamente la Chiesa su queste e molte altre questioni di fondo. Con un sottinteso non detto che però non è difficile intuire: o voi o io. In questo senso esse rappresentano un gesto di governo di assoluta risolutezza: l’unico probabilmente che gli consentiva il suo isolamento politico e la fragilità del consenso interno. Un gesto estremo, il più clamoroso, compiuto senza esitare.

Tuttavia, si dice, le dimissioni sono pur sempre un tirarsi indietro, una rinuncia. Certamente. Ma una rinuncia che in questo caso suona come un invito a ridefinire la gerarchia delle cose, a stabilire priorità più autentiche, a distinguere ciò che conta da ciò che non conta. E dunque a cambiare rispetto a ciò che siamo. Un invito che va ben oltre i confini della cattolicità. Di fronte al travolgente mutamento dell’epoca che incalza da ogni dove, il capo della più antica e veneranda istituzione dell’Occidente, dà una lezione spirituale di segno fortissimo mutando esso per primo attraverso la rinuncia. Le nostre società, noi stessi – esso sembra dirci – non possiamo essere più ciò che fino ad oggi siamo stati. I segni dei tempi ci impongono di trovare altre regole, di immaginare altri scopi, altri ideali per il nostro stare insieme. Dal tratto più intimo, più sobrio, più vero. È di un tale rinnovamento che abbiamo bisogno. Ma la premessa necessaria non è proprio, secondo l’esempio del Papa, dichiarare consapevolmente il proprio tempo finito?

PAPA BENEDETTO XVI: DA FIGLIO DI UNA CUOCA A OPERAIO NELLA VIGNA DI CRISTO

Pubblicato il 12 febbraio, 2013 in Storia | No Comments »

Che le dimissioni del Papa fossero da attendersi è dire troppo. Che ce ne fossero le premesse, è la pura verità. Ci sono uomini cui il destino dà più di quanto loro non desiderino e Joseph Ratzinger non avrebbe mai voluto essere il successore di Pietro.
Il peso dei suoi quasi ottantasei anni – ingravescentem aetatem – cui il Pontefice si è riferito per spiegare il gesto, è solo un motivo aggiuntivo. Già quando, ancora settantenne, la sua crescente fama faceva pensare che sarebbe potuto succedere a papa Wojtyla, Ratzinger voleva tirarsi indietro. Quante volte negli ultimi anni del lungo regno di Giovanni Paolo II, il suo prezioso collaboratore bavarese gli aveva chiesto il permesso di ritirarsi a vita privata? Decine, dicono i bene informati. Avrebbe voluto – dopo diversi lustri in Vaticano, in cui si era trasferito da Monaco nel 1982 – tornare in Germania a scrivere libri, lasciando i gravosi compiti romani: quello di decano del Collegio cardinalizio e di prefetto della Congregazione per la fede (ex Sant’Uffizio).

Ah, ristabilirsi tra i verdi prati in vista delle Alpi, anche a costo di passare tre quarti dell’anno sotto l’ombrello, ma senza il peso degli incarichi e accanto a Georg, il fratello maggiore. Quella era la vita cui ambiva e che ora, dopo un decennio fantastico ma che gli era sfuggito di mano, potrà finalmente realizzare. Fu Wojtyla, che lo voleva assolutamente al suo fianco, a forzarne la volontà, insistendo perché restasse a Roma e conferendogli, con la sua fiducia, quel prestigio che lo ha poi portato sul trono di Pietro. Finché, con la decisione di ieri, la natura umana di Ratzinger ha avuto il sopravvento sui progetti celesti.
Benedetto XVI fu eletto dopo soli due giorni di conclave, al quarto scrutinio, il pomeriggio del 19 aprile 2005. Si presentò al balcone, dopo l’Habemus Papam, incerto e intimidito, con l’aria di chi aveva assistito al verificarsi di ciò che più temeva. «Fratelli e sorelle – disse -, dopo il grande Papa Giovanni Paolo II, i signori cardinali hanno eletto me, un semplice e umile lavoratore della vigna del Signore». Nessuna falsa modestia, ma la percezione esatta che il neo papa aveva di sé. Pochi giorni prima, nell’omelia funebre del suo predecessore, Joseph aveva detto di lui con l’ammirazione sincera di chi intuiva che mai avrebbe saputo seguirne l’esempio: «Grazie a un profondo radicamento in Cristo, il Papa ha portato un peso che va oltre le forze puramente umane». Un radicamento in Cristo che è un dono di Dio e che il pontefice dimissionario dichiara adesso – umile e leale – di non possedere nello stesso grado.

Joseph è nato nel giorno di sabato santo del 1927 in un paesino della Baviera orientale, Marktl am Inn, che già dal nome – Mercatino sull’Inn – evoca la paciosità di un borgo rurale. Suo babbo, che si chiamava come lui, era graduato della gendarmeria locale, la mamma una cuoca d’albergo. Nonostante i modesti mezzi finanziari della famiglia, i due fratelli furono messi in seminario a pagamento, precocemente incanalati nel loro futuro. Si frapposero però la guerra e la regola nazista che obbligava l’arruolamento nella Hitlerjugend dei giovani a partire dai quattordici anni. Il sedicenne Joseph, fu assegnato all’artiglieria contraerea in difesa del complesso Bmw, poi alle intercettazioni telefoniche, infine allo scavo di trincee. Durante una marcia, il ragazzo disertò. Riacciuffato, scansò per un pelo la fucilazione con la fuga propiziata da un sergente. A Germania atterrata, il futuro Papa fu, come tanti sbandati, imprigionato dagli Alleati e recluso per alcune settimane in un lager.

Tornato in seminario, divenne prete a 24 anni, nel 1951, insieme a Georg. Quattro anni dopo, presentò una tesi su San Bonaventura, per l’abilitazione all’insegnamento di Dogmatica nell’Ateneo di Frisinga. Il lavoro fu bloccato dal relatore che la giudicò «pericolosamente modernista», per eccesso di «soggettivazione». Un’accusa che nel mondo cattolico tedesco suona come un cedimento alle sirene protestanti. Il mansueto Ratzinger si piegò all’insegnante e modificò la tesi, ottenendo il titolo. Per un decennio, insegnò in diverse università e, nel 1962, si affacciò per la prima volta a Roma, nell’officina del Concilio Vaticano Secondo. Era al seguito del cardinale di Colonia, come suo consulente teologico. Acuto, progressista e rigoroso insieme, si fece un nome tra le porpore. Chiuso il Concilio, tornò all’insegnamento tedesco ma con ormai un piede stabile nella Città leonina. Paolo VI, nel 1977, lo nominò arcivescovo di Monaco e Frisinga e, poco dopo, cardinale. Così, alla sua morte, il neo porporato partecipò al primo dei suo tre conclavi con l’elezione di Papa Luciani. Quaranta giorni dopo, Joseph entrò nuovamente nella Cappella Sistina per l’elevazione di Wojtyla. Il rapporto tra i due mitteleuropei fu di affinità e il legame di ferro. Fosse stato per l’affetto, Ratzinger avrebbe preso lo stesso nome pontificio del predecessore. Ma non volendo per venerazione paragonarsi, assunse quello di Benedetto, ormai in disuso. L’ultimo era stato Benedetto XV (Della Chiesa), il Papa della Grande guerra, che bollò come «inutile strage». Ed è proprio a questo atteggiamento che Ratzinger si è collegato chiarendo che la sua prima aspirazione era la pace.

Joseph sarebbe stato il Papa perfetto di un mondo armonico. Ama Mozart e i due gatti suoi conviventi nell’appartamento vaticano. È fedele al passato, tanto che nello stemma ha voluto i simboli di quando era arcivescovo di Frisinga: il Moro, emblema dell’Universalità della Chiesa e l’Orso che uccise il cavallo col quale San Corbiniano si stava recando a Roma e che, rimproverato dal sant’uomo, si caricò per espiazione i bagagli portandoli fino alla Città eterna. Ha sfoggiato meravigliosi abituati rituali, meritandosi nel 2007 il titolo di Uomo più elegante del mondo. Appena eletto, abolì il concerto di Natale in Vaticano. Il primo anno, limitandosi a non assistere, con gran dispetto di Ron, Laura Pausini e altri artisti. Dal 2006, facendo emigrare altrove il concerto. «Il papa non ama il pop», fu la spiegazione.

Il mondo dei suoi anni di regno, non è stato però quello dell’ordine, ma delle sfide. Ratzinger ha combattuto il relativismo e il relativismo è dilagato. Ha chiesto scusa per i preti pedofili e un tribunale del Texas l’ha imputato, tanto che gli Usa hanno dovuto concedergli l’immunità per esentarlo dal processo. Per moralizzare, ha vietato l’accesso ai seminari a chi «pratica l’omosessualità» e i gay lo hanno vituperato. Ha perdonato i vescovi lefreviani, per riconciliarli alla Chiesa, e si è trovato contro la comunità ebraica, poiché uno tra loro negava la Shoah. Ha steso la mano all’Islam che, però, per poco non gli lanciava una fatwa per una citazione vecchia di secoli. Ha dichiarato il suo amore speciale per l’Italia e l’Italia gli ha negato l’aula dell’Università di Roma per un discorso. Finché, stanco, il Papa venuto dal Paese dei Superuomini è tornato uomo tra gli uomini. Gian Carlo Perna, 12 febbraio 2013

.……………Lo abbiamo già scritto e desideriamo sottolinearlo: Benedetto XVI è stato un grande Papa e la sua decisione, sofferta e meditata, lo conferma: la  rinuncia al Soglio e al potere per il bene della Chiesa. Ogni riferimento ai pochi precedenti è del tutto  ininfluente quanto irrilevante. La percezione della riduzione del vigore fisico,  e solo di quello,  lo hanno indotto a scegliere una strada che solo gli stolti e i malpensanti possono irridere o disconoscerne la eccezionalità. Anzi, bisogna invece riconoscere al Papa  la lungimiranza legata alla sua devozione per la Chiesa che lo ha voluto suo Pastore: questa Chiesa, la sua Chiesa, ha bisogno di polso fermo e grande vigore per affrontare le sfide del mondo moderno. Caratteristiche che non appartengono più per la naturale evoluzione dell’età avanzata a Papa Benedetto ma che il conclave dovrà individuare nel suo successore al quale Papa Benedetto lascia in eredità molti problemi ma anche i suoi insegnamenti che sono anche conforto per tutti i credenti. g.

BENEDETTO XVI LASCIA IL PONTIFICATO IL 28 FEBBRAIO

Pubblicato il 11 febbraio, 2013 in Storia | No Comments »

L’annuncio in latino durante il concistoro per la canonizzazione dei martiri di Otranto

Papa Benedetto XVIPapa Benedetto XVI

Il Papa lascia il pontificato dal 28 febbraio. Lo ha annunciato personalmente, in latino, durante il concistoro per la canonizzazione dei martiri di Otranto. La notizia è stata confermata dal Vaticano. Joseph Ratzinger, nato il 16 aprile 1927, era stato eletto papa dal conclave il 19 aprile 2005, dopo la morte di Giovanni Paolo II. REAZIONI – «Un fulmine a ciel sereno» reagisce il decano del collegio cardinalizio, Angelo Sodano, commentando la decisione di Benedetto XVI.

…………...La notizia è stata lanciata dall’ANSA poco dopo l’annuncio in latino dello stesso Papa. Bisogna risalire di secoli per trovare un altro  PAPA  che abbia rinunciato al Soglio  (il  precedente più noto  è quello di  Celestino V, autore del “gran rifiuto” che Dante collocò per questo fra gli ignavi) ed è  difficile immaginare che la sua decisione, di certo ponderata a lungo, possa essere modificata. Anche in questa decisione si può individuare la grandezza di questo Papa, lungimirante teologo e attento studioso dello spirito della Chiesa del terzo millennio. Ora toccherà al Conclave scegliere il degno successore di Benedetto XVI, il cui compito sarà quello di imprimere alla Chiesa di Roma la capacità di affrontare le grandi sfide del mondo moderno.g.

ECCO I SOLDI CHE LA RAI “REGALA” AI SUOI CONDUTTORI: E DAGLI UTENTI PRETENDE IL CANONE!

Pubblicato il 10 febbraio, 2013 in Costume, Spettacolo | No Comments »

Due milioni di euro annuali a Fazio? Più i 600 mila per Sanremo? Un milione e 500 mila ad Antonella Clerici? Un milione e 400 mila a Carlo Conti? Sono cifre «rubate», non ufficiali, che non potete trovare su alcun documento pubblico, su nessun sito della Rai.

Cifre enormi che, nelle maggior parte dei casi, sono meritate perché a loro volta, con i loro programmi, le star televisive fanno guadagnare la Tv di Stato, come i campioni del calcio. La differenza è che i soldi per questi compensi vengono direttamente dalle tasche dei cittadini che pagano il canone e che dunque avrebbero a buon ragione il diritto di verificare come vengono spesi. Invece, nonostante una legge imponga la pubblicazione dei cachet sul sito web, la Rai ha deciso di opporsi a un obbligo che la costringerebbe a rivelare «dati sensibili» che potrebbero metterla in difficoltà con la concorrenza. Essendo la Rai un organismo di diritto pubblico – spiegano in viale Mazzini – l’azienda deve rispettare alcuni obblighi sulle gare d’appalto, ma questi non valgono per la parte artistica, altrimenti non potrebbe stare sul mercato. Questi compensi, dunque, non sono soggetti al limite massimo pari allo stipendio del primo presidente di Corte di Cassazione (274 mila euro annui), come invece è diventato d’obbligo per i dirigenti. La querelle va avanti da anni, con pareri discordanti e contrastanti tra ministero della Funzione pubblica, Parlamento e Garante della concorrenza (quest’ultimo ha dato parere favorevole alla Rai). Motivo per cui, sul sito apposito, dove si dovrebbero leggere i cachet, campeggia ancora la scritta: «Lavori in corso. A breve sarà disponibile la documentazione relativa». Ma l’onorevole Renato Brunetta non demorde e continua la sua battaglia avviata quando era ministro della Funzione pubblica: giorni fa ha chiesto in una lettera alla presidente Anna Maria Tarantola di procedere alla pubblicazione. Altrimenti, minaccia, si rivolgerà alla Corte dei Conti.

In attesa di sapere come la questione andrà a finire, per chi vuole rodere d’invidia, ecco un assaggio dei compensi dei volti più noti della Tv di Stato, ovviamente tutti rintracciati di straforo, a spanne e non certificati da nessuno. Si sa, l’abbiamo detto altre volte, il più pagato dalla Tv pubblica è Fabio Fazio: il suo contratto per Che tempo che fa vale due milioni di euro l’anno cui si aggiungono i 600 mila per condurre il Festival. Totale per la stagione televisiva 2012/2013 due milioni 600 mila euro, cifra in effetti da capogiro. Altri compensi di tutto rispetto, pur se a notevole distanza dal capofila, sono quelli di Antonella Clerici e Carlo Conti. La conduttrice de La prova del cuoco e Ti lascio una canzone mette insieme un milione e mezzo di euro (cui si aggiungono ovviamente molti altri soldi per le telepromozioni). Invece il capitano de L’eredità, i Migliori anni e tanti altri show arriva a un milione e 400mila (più telepromozioni). Tra i giornalisti, il compenso di Giovanni Floris (Ballarò) si aggira sui 550 mila euro, quello di Bruno Vespa, sui 600. La Littizzetto, partner di Fazio, prende 20mila euro a puntata per Che tempo che fa e 350mila euro per il Festival. Mara Venier, per la Vita in diretta guadagna mezzo milioni annui. Gli altri contratti, delle presentatrici dei programmi mattutini o pomeridiani, come Elisa Isoardi o Veronica Maya, si aggirano sui 200mila euro. Tutte cifre che, ovviamente, saremmo pronti a correggere, se potessimo leggerle sul sito ufficiale della Rai. Il Giornale, 10 febbraio 2013

L’ITALIA DELLE TRUFFE, 300 MILIONI NEL 2012 DAI PONTI SCIVOLOSI ALLE MERENDINE

Pubblicato il 10 febbraio, 2013 in Costume, Giustizia, Politica | No Comments »

Ponte della Costituzione a Venezia, progettato dall'architetto spagnolo Santiago CalatravaDal ponte di Venezia ’scivoloso’ al maestro marchigiano che mette in tasca alimenti destinati agli alunni, passando per casi malasanità, corruzione, frode. E’ l’Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. Casi che nel 2012 hanno comportato un pregiudizio economico che “in base ad un calcolo necessariamente provvisorio si valuta in oltre 293,632 milioni di euro”.

La Corte dei Conti ha scandagliato l’attività condotta lo scorso anno da tutte le procure regionali e ha messo insieme “le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente”. Dal parcheggio messo sotto sequestro a Genova perché insisteva in un sito sottoposto a vincolo storico-paessaggistico al giro di mazzette nelle camere mortuarie dei nosocomi di Milano, dalle consulenze “inutili” (così le definisce la stessa magistratura contabile) della provincia di Napoli o della “erronea” utilizzazione del tariffario da parte delle Asl calabresi per le prestazioni specialistiche e di laboratorio, la casistica delle truffe e dei danni allo Stato è ampia. Nei faldoni finiti nel mirino dei magistrati contabili anche consulenze non lecite, “imprudenza nella stipulazione di contratti di finanza derivata”, omessa riscossione delle imposte. Fonte ANSA, 10 fe3bbraio 2013

CHI VOTA GRILLO SI RITROVA FALCE E MARTELLO, di Alessandro Sallusti

Pubblicato il 10 febbraio, 2013 in Politica | No Comments »

Molti elettori sono tentati di votare la lista di Grillo. Su Cinquestelle si è scritto mol­to e dicono che il comico ci riserverà fuochi d’artificio per il gran fi­nale della campagna elettorale. Non ne dubitiamo. Negare la sua capacità di at­trarre simpatia e, su alcuni temi, anche consenso sarebbe da stupidi. Lo dicono i sondaggi, da oggi proibiti, lo si sente di­re al bar e perfino in qualche salotto be­ne. L’uomo catalizza su di sé tutta l’at­tenzione in maniera esclusiva e milita­re, tanto che chi, all’interno del suo mo­vimento, ha tentato di farsi riconoscere dal grande pubblico è stato espulso. Non si tratta solo di ambizione od os­sessione. È una strategia politico-me­diatica ben studiata, tanto che i giorna­li, a differenza di quanto avvenuto con altri partiti, non hanno passato al setac­cio e radiografato liste e candidati del movimento. Detto che Grillo non andrà in Parlamento, noi elettori ancora oggi non sappiamo chi saranno i futuri sena­tori e deputati Cinquestelle. Brava gen­te, ci dice Grillo, pescata dalla società ci­vile. Di questo non ne dubitiamo,ma c’è bravo e bravo, nel senso che ci sono bra­vi liberali, bravi comunisti, bravi fasci­sti. È un caso che gli espulsi più celebri di Cinquestelle abbiano trovato posto nel­le liste di Ingroia e del Pd? Io non credo, e un primo esame dei candidati «anoni­mi » di Grillo lo conferma. La sua è una società civile che arriva soprattutto dal­l’area della sinistra radicale, dal movi­mento No Tav, dai Cobas, dal mondo dell’ambientalismo ideologico. Ciò è le­gittimo, ma mi chiedo perché nascon­derlo con tanta meticolosità. E forse una risposta è che il dichiararlo rende­rebbe meno appetibile quel voto tra gli elettori indecisi che in passato hanno sempre dato la preferenza al centrode­stra. Insomma, chi vota Grillo non manda in Parlamento il simpatico comico, ma persone che mai e poi mai avrebbe vota­to se solo informato. Non perché inde­gne, ma perché lontane anni luce dalla propria idea politica. Ammazzare la ca­sta è un conto e può anche stuzzicare l’appetito. Farsi rappresentare e affida­re il proprio futuro a radicali di sinistra è altra cosa. Perché esaurita la risata del «li abbiamo mandati a casa», ci sarà po­co da ridere. Il Giornale, 10 febbraio 2013