Il Corriere del Mezzogiorno dedica l’editoriale di oggi a Pietro Mennea, scomparso ieri a 61 anni.La sua storia, scirve Penneti,  andrebbe raccontata ai ragazzi nelle scuole, potrebbe essere adottata dagli psicanalisti per spiegare cosa significhi avere carattere, tenere duro, non mollare. Per questo lo pubblichiamo, dedicandolo alle nuove generazioni per esortarle a guardare a Menna, alla sua storia, alle sue battaglie, non solo sportive, per trarne insegnamento ed esempio.

Una personificazione del riscatto meridionale, l’allegoria della forza di volontà. Con Pietro Mennea muore un amico – anche del Corriere del Mezzogiorno, per il quale scrisse numerosi articoli durante le Olimpiadi di Atene del 2004 – uno degli uomini del Sud più popolare e amato degli ultimi cinquanta anni, oltre che uno dei più grandi campioni nella narrazione dello sport italiano. La sua storia, trapuntata di fatica e sacrifici, andrebbe raccontata ai ragazzi nelle scuole. La sua esperienza, finita troppo presto, potrebbe essere adottata dagli psicanalisti per spiegare ai propri pazienti cosa significhi avere carattere, tenere duro, non mollare dinanzi alle prime contrarietà. Il suo candore, precisamente palesato dai libri-denuncia e dalle perenni battaglie globali contro il doping, resta un soggettivo strumento di difesa dal mondo (dello sport, ma non solo) che, cambiando per il dio soldo e asservendosi alla tecnologia, oggettivamente regredisce.

C’era sempre tanta semplicità nei gesti del barlettano che, se avesse attraversato un’epoca passata, sarebbe diventato un guerriero. Anche la sua apparente tracotanza, amalgamata alla sottolineatura della propria straordinarietà pronunciata con flebile voce, rivelava la genuinità del personaggio e la sua proletaria origine. Se ha peccato in qualcosa, Mennea, è stato nel volersi spendere troppo dopo aver smesso di correre. Un po’ l’avvocato (nello studio della famiglia di Manuela, la sua dolcissima moglie), un po’ il politico (venne eletto europarlamentare), un po’ lo scrittore, un po’ il dirigente nelle società di calcio (alla Salernitana). Come se fosse indispensabile, a se stesso, stare almeno un centimetro sopra la media. Come se una bulimia di mestieri e di interessi, concatenata alla collezione di lauree, potessero conservare eternamente splendente la sua immagine di eroe dei due mondi, dall’oro di Mosca al primato del mondo di Città del Messico. Non ce n’era, in fondo, bisogno. Perché nessuno, anche un acerrimo nemico, si sarebbe mai permesso di contestare la sua eccezionalità. Si fosse risparmiato, probabilmente Pietro Mennea avrebbe vissuto meglio e più a lungo. Mantenersi di rendita, però, non era nel suo stile. Non apparteneva ai codici comportamentali di un ragazzo spigoloso e irraggiungibile, il più veloce di tutti nei 200 metri per diciassette anni, un fascio di muscoli e nervi che faceva dell’umiltà una leva e della rabbia un biglietto da visita. E poi l’orgoglio, l’altro suo documento di riconoscimento. Non c’era vittoria che non gli impedisse di alzare il dito al cielo, l’indice dell’emancipazione di chi arrivava da dietro e dal basso, un simbolo di tenacia del Mezzogiorno buono e profondamente legato alla sua radice. Non c’era sconfitta che non gli procurasse una feroce percezione di rivalsa, serbata però in rigoroso silenzio. Alla stregua del male che l’ha stroncato con tempi e modi brutali. L’unico avversario che Pietro Mennea, sul traguardo di una vita di successo e di una carriera leggendaria, non è riuscito a battere. di Michele Pennetti, Il Corriere del Mezzogiorno, 22 marzo 2013