Si può anche fare l’elenco di vincitori e sconfitti nel giorno in cui vota solo il 48,6 per cento dell’elettorato. E dunque, è giusto affermare che il centrosinistra emerge dai ballottaggi nelle città con un profilo più solido degli avversari, incapaci di ritrovare i consensi dal Veneto alla Sicilia. Ma la tesi di un’Italia più «americana» perché si va meno alle urne, come negli Usa, è autoconsolatoria fino alla strumentalità. Esaltare come moderno un calo di partecipazione dai contorni patologici, anche per la rapidità con la quale si manifesta, significa sottovalutare la frattura che si è consumata.

Il leghista Giancarlo Gentilini, sconfitto al ballottaggio, ha annunciato con un sussulto egocentrico che a Treviso un’era è finita. In realtà, non lì ma in Italia. Non si è spezzato solo l’asse fra Pdl e Lega: a Roma il Carroccio non c’è, eppure il centrosinistra trionfa nell’oceano astensionista. Il sindaco Gianni Alemanno e il Pdl sono stati inghiottiti dai propri errori. E non convince l’idea che se Silvio Berlusconi si fosse impegnato la situazione si sarebbe ribaltata. Forse l’ex premier avrebbe limitato i danni, ma è improbabile che sarebbe riuscito a evitare del tutto percentuali umilianti. Di nuovo, come al primo turno, l’incognita è il non voto.

Collegarlo all’assenza di candidati del Movimento 5 Stelle non basta: l’astensionismo va molto oltre. Beppe Grillo segnala ed esaspera la crisi del sistema, senza però mobilitare e smuovere la grande massa dei delusi. Il malessere è più profondo e non riceve finora nessuna risposta, anzi. L’unico elemento rassicurante emerge di rimbalzo, per il governo nazionale. I risultati dei ballottaggi di ieri tendono a stabilizzare la coalizione anomala guidata da Enrico Letta. Dovrebbero tranquillizzare il Pd; e scoraggiare la minoranza berlusconiana che vuole le elezioni, magari in risposta alle sentenze dei processi a carico del Cavaliere.

Il partito di Guglielmo Epifani teme che il governo col Pdl snaturi la sinistra e metta in mora il bipolarismo. Per questo nei giorni scorsi il premier e il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, hanno insistito sull’«eccezionalità» della coalizione. Il successo di ieri, con alleanze estese al Sel e a volte con una strizzata d’occhio ai grillini, dice che il governo Letta non logora il Pd. E questo dovrebbe attenuare l’impazienza di chi vuole archiviarlo: a cominciare da Nichi Vendola e dal sindaco di Firenze, Matteo Renzi, ansioso di candidarsi alla segreteria e ipercritico verso palazzo Chigi.

Quanto al centrodestra, la tentazione di far saltare il tavolo da ieri suona almeno azzardata. Le pressioni di chi pensa di andare all’incasso elettorale non diminuiscono. Ma c’è voglia di stabilità, e di atti di governo che la giustifichino. Più che scommettere sul logoramento di Letta, ci si aspetterebbe un aiuto a fare il tanto o il poco consentito da questa inevitabile coabitazione. Inseguire la scorciatoia di un esecutivo omogeneo alle alleanze locali rischia di allontanarlo; e di far perdere all’Italia tempo prezioso. Massimo Franco, 11 giugno 2013