Così come non c’è mai stata nessuna Seconda Repubblica, la condanna di Berlusconi non farà nascere la Terza. La Repubblica è una soltanto, sempre la stessa. Che cambino o meno uomini, partiti o leggi elettorali. Ed essendo la stessa, le sue tare e i suoi conflitti di fondo si perpetuano. Così è per lo squilibrio di potenza fra magistratura e politica, uno squilibrio che secondo molti, compreso lo scomparso presidente della Repubblica Francesco Cossiga, risale a molto tempo prima delle inchieste di Mani Pulite di venti anni fa.

Al momento, apparentemente, tutto è come al solito: con Berlusconi e la destra contrapposti alla magistratura e la sinistra abbracciata ai magistrati. Gli uni reagiscono a quella che ritengono una orchestrata persecuzione. Gli altri si aggrappano alla magistratura, un po’ per antiberlusconismo, un po’ perché una parte dei loro elettori considera i magistrati (i pubblici ministeri soprattutto) delle semi-divinità o giù di lì, e un po’ perché sperano in trattamenti «più comprensivi» di quelli riservati alla destra.

Ma lo squilibrio di potenza c’è (anche i magistrati più seri lo riconoscono) e, insieme alla grande inefficienza del nostro sistema di giustizia, richiederebbe correttivi. Una seria riforma della giustizia, del resto, l’ha chiesta anche il presidente della Repubblica, di sicuro non sospettabile di interessi partigiani.

Ma la domanda è: può un potere debole e diviso imporre una «riforma» a un potere molto più forte (e molto più unito) contro la volontà di quest’ultimo? Frugando in tutta la storia umana non se ne troverà un solo esempio.

La magistratura è l’unico «potere forte» oggi esistente in questo Paese e lo è perché tutti gli altri poteri, a cominciare da quello politico, sono deboli. Non permetterà mai al potere debole, al potere politico, di riformarla. Certo, si potranno forse fare – ma solo se i magistrati acconsentiranno – interventi volti ad introdurre un po’ più di efficienza: sarebbe già tanto, per esempio, ridurre i tempi delle cause civili. Ma non ci sarà nessuna «riforma della giustizia» se per tale si intende una azione che tocchi i nodi di fondo: separazione delle carriere, trasformazione del pubblico ministero da superpoliziotto in semplice avvocato dell’accusa, revisione delle prerogative e dei meccanismi di funzionamento del Csm, cambiamento dei criteri di reclutamento e promozione dei magistrati, riforma dell’istituto dell’obbligatorietà dell’azione penale, eccetera. La classe politica, in tanti anni, non è riuscita nemmeno a varare una decente legge per impedire la diffusione pilotata delle intercettazioni. Altro che «riforma della giustizia».

Il problema va aggredito da un’altra prospettiva. C’è un solo modo per porre rimedio allo squilibrio di potenza: rafforzare la politica. Ci si concentri su provvedimenti che possano ridare, col tempo, forza e legittimità al potere politico: una seria riforma costituzionale che renda più efficace l’azione dei governi, un radicale cambiamento delle modalità di finanziamento dei partiti, una drastica contrazione dell’area delle rendite politiche, delle rendite controllate e distribuite dai politici nazionali e locali (vera causa, al di là della demagogia, degli altissimi costi della politica).

Ci si concentri, insomma, su alcune cause certe della debolezza, e della mancanza di credibilità, che affliggono il potere politico. Solo così sarà possibile avviare un processo che porti ad annullare lo squilibrio di potenza. Anche se ci vorranno anni per riuscirci.

Al momento, dunque, non si può fare nulla in materia di giustizia? Qualcosa forse sì, ma richiede lungimiranza (perché i frutti si vedrebbero solo dopo molto tempo). Si affronti il problema là dove tutto è cominciato: si rivoluzionino i corsi di studio in giurisprudenza (e pazienza se i professori di diritto strilleranno). Si incida sulle competenze, e sulle connesse «mentalità», di coloro che andranno a fare i magistrati (ma anche gli amministratori pubblici). Si iniettino dosi massicce di «sapere empirico» in quei corsi. Si riequilibri il formalismo giuridico con competenze economiche e statistiche, e con solide conoscenze (non solo giuridiche) delle macchine amministrative e giudiziarie degli altri Paesi occidentali. Si addestrino i futuri funzionari, magistrati e amministratori, a fare i conti con la complessità della realtà. È ormai inaccettabile, ad esempio, che un magistrato, o un amministratore, possano intervenire su delicate questioni finanziarie o industriali senza conoscenze approfondite di finanza o di economia industriale. È inaccettabile che gli interventi amministrativi o giudiziari siano fatti da persone non addestrate a valutare l’impatto sociale ed economico delle norme e delle loro applicazioni. Il diritto è uno strumento di regolazione sociale troppo importante per lasciarlo nelle mani di giuristi puri.

Lo squilibrio di potenza permarrà a lungo. La politica, per venirne a capo, deve ispirarsi a una antica tradizione militare cinese. Le serve una «strategia indiretta». Sono sconsigliati gli attacchi frontali. Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera, 6 agosto 2013

……………Ciò che scrive Panebianco è ispirato oltre che dalla conoscenza approfondita, da ottimo politologo qual’è, dei fatti, anche dal buon senso. Non solo! Anche dalla recente invettiva lanciata da una deklle fazioni della magistratura, Magistratura Democratica (sic!), all’indomani dell’auspicio formulato dal presidente della Repubblica di una sollecita e cmplessiva riforma del pianeta giustizia. Nessuno si azzardi, Parlamento compreso, a dar corso ad alcuna  riforma  che vada nella direzione di rivedere i meccanismi attuali di intervento della magistratura nella vita del Paese. E’ stato questo il succo dell’invettiva dei magistrati cosiddetti democratici, succo che conferma, ove ve ne fosse bisogna, che ha ragioneda vendere Panebianco quando scrive che la magistratura è nel nostro Paese l’unico potere forte, tanto quanto è debole, dall’altra parte, il potere politico. Non solo perchè la politica stessa si è autoindebolita, quant perchè in virtù di ciò il potere giudiziario, da Tangentepoli in poi, si è autoinsignito di ruoli che non gli appartengono. Ed ha ragione Panebianco quando afferma che solo se la politica saprà riformare se stessa riguadagnandosi rispetto e credibilità, e solo allora, si potrà procedere sula strada della riforma della giustizia e della sua riciollocazione nell’alveo naturale del sistema costituzionale del nostro Paese. Una prima occaisone la politica ce l’ha in queste ore e l’ha offerta la inopportuna intervista rilasciata alla stampa dal presidente del collegio della Cassazione che venerdì ha condannato Berlusconi. Nell’intervista il giudice ha anticipato, fatto del tutto inconsueto e fuori delle regole,   le ragioni della condanna di Berlusconi, sproloquiando sul concetto del “non poteva non sapere” e su quello che invece “sapesse”. L’intervista ha provocato polemiche infuocate er ancora ne provocherà nelle prossime ore. Ebbene, mentre il primo presidente della Cassazione ha definito inopportuna l’intervisdt e il ministro Cancellieri ha chiesto informazioni e tre componenti laici del CSM hanno chiesto di aprire una praqtica a carico del giudice troppo loquace, si è registrato,  da una parte,  l’intervento del presidente dell’ANM il quale si è precipitato a sostenere che nulla v’è da rilevare sotto il profilo disciplinare a carico del giudice medesimo, dall’altra,  il silenzio assordante di quanti, a sinistra, ogni qual volta da destra si “constesta”, anche a ragione come in  questo caso,  la magistratura, si strappano le vesti per “difendere”, ovunque e comunque,  la magistratura. Ecco ciò che  rende debole la politica e la pone in stato di sudditanza della magistratura. E sino a quando rimarrà tale stato di cose nel nostro Paese la riforma della Giustizia, la più ampia,   e che  è di certo la riforma più difficile ma   anche la più urgente, anzi l’unrgenza assoluta, difficilmente potrà realizzarsi. g.