La vicenda dell’Ilva è un disastro in sé e l’ennesima tappa di un processo di de- industrializzazione da tempo in atto nel Paese che sta lasciando dietro di sé macerie fumanti e povertà. La chiusura degli stabilimenti Ilva in Lombardia, conseguenza della vicenda giudiziaria di Taranto, era prevedibile. A nulla sono valsi i tentativi dei governi (si ricordi il braccio di ferro fra il governo Monti e i magistrati tarantini) di impedire il disastro. Che sarà occupazionale e non solo. Come ha osservato Dario Di Vico ( Corriere , 13 settembre), e ribadito il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, stiamo liquidando, per la gioia dei concorrenti esteri, un intero comparto industriale, la siderurgia.

Non si tratta di difendere il gruppo Riva. Le sue eventuali responsabilità riguardano il tribunale. Si tratta di capire come e perché sia possibile affondare un comparto industriale vitale per la collettività, con effetti a catena su tanti altri comparti, come e perché sia possibile distruggere una cruciale fonte di ricchezza.

La vicenda dell’Ilva di Taranto doveva essere gestita con buon senso. Si doveva contemperare l’esigenza della bonifica e la salvaguardia di una industria di grande importanza. A questo miravano richieste e provvedimenti dei governi. Non è stato così. Anziché procedere con la cautela che la problematicità del quadro consigliava si sono irrisi gli esperti che invitavano alla prudenza nei giudizi e la magistratura è andata avanti come un caterpillar. Ora se ne paga il prezzo.

Due sono gli aspetti di questa vicenda che, anche al di là del caso Ilva, fanno temere che il declino economico del Paese sia inarrestabile. Il primo riguarda l’esondazione del diritto penale. Il diritto penale è, fra tutte le forme del diritto, la più primitiva e barbarica: precede storicamente le forme più sofisticate (il diritto civile, amministrativo ecc.) che la civiltà ha via via inventato. Per questo, dovrebbe, idealmente, essere attivato solo in casi estremi, dovrebbe avere un ruolo circoscritto. Ma quando il diritto penale (come nel caso dell’Ilva e come avviene ogni giorno in ogni aspetto della vita del Paese) diventa il mezzo dominante di regolazione dei rapporti sociali, allora ciò che chiamiamo civiltà moderna è a rischio estinzione.

Il secondo aspetto riguarda la diffusione di una particolare sindrome, un orientamento anti-industriale, travestito da ecologismo, che punta alla decrescita, alla de-industrializzazione, perché tratta l’industria in quanto tale come una minaccia per l’ambiente. Da utile mezzo per contrastare le esternalità negative (i costi collettivi prodotti dall’inquinamento) l’ecologismo è diventato un’arma ideologica al servizio della mobilitazione anti-industriale (si veda il bel saggio di Carlo Stagnaro sull’ultimo numero della rivista Limes ). Se non fossero stati sostenuti da questa diffusa sindrome anti-industriale, i magistrati di Taranto avrebbero forse attivato, come chiedeva il governo, percorsi dagli esiti meno distruttivi per l’industria italiana. Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera, 15 settembre 2013

……Se avessimo detto o scritto su questo blog ciò che scrive Panebianco a proposito dell’Ilva e dei magistrati onniscenti che ormai hanno immobilizzato il Paese e lo stanno trascinando verso l’abisso, ci sarebbe stato di certo il cretino di turno (ne abbiamo in mente uno che in  materia di cretinismo è il numero superuno)  che ci avrebbe accusato di volere la morte della gente di Taranto e ci avrebbe  arruolato nell’esercito dei delinquenti. Non ci avrebbe scalfito più di tanto perchè piuttosto che essere imbecilli talvolta può essere più conveniente (per gli altri) non esserlo. Il caso dell’Ilva è stato ridondante di imbecillità dall’inizio e ricorda da vicino un altro caso clamoroso: Punta Perotti. L’ecomostro – come fu definito dalla pubblicistica del tempo – nacque e crebbe e si innalzò sulle sponde del lungomare barese sotto gli occhi della magistratura che a quel tempo occupava un palazzo poco distante per cui non poteve non accorgersene. Ma stette zitta, non fiatà, sino a quando i palazzi avevano già assorbito ingenti risorse e i suoi appartamenti posti sul mercato immobiliare per la vendita. Solo allora i magistrati partirono all’attacco condotto sino in fondo, sino all’abbattimento che ha prodotto danni ingentissimi, finanziari, e d’immagine,  i cui risarcimenti sono oggetto di sentenze di altre magistrature, comprese quelle europee. Così l’Ilva. Sta lì, da decenni, si chiamava centro siderurgico e all’epoca della sua nascita fu considerato una sorta di risarcimento al sud bistrattato. Per decenni ha caratterizzato, nel bene e nel male, la crescita non solo di Taranto ma dell’intero suo hinterland che si estenede anche oltre i confini di quella provincia. Per decenni il siderurgico, passato attraverso mille traversie anche finanziarie, ha dato lavoro e sicurezza economica a migliaia di lavoratori e di famiglie, per decenni gli ecologisti, sopratutto quelli che di giorno concionano contro la modernità ma la sera non se ne fanno mancare neppure una, hanno innalzato cartelli e promosso cortei di protesta, e per decenni i magistrati tarantini hanno girato la testa dall’altra parte. Non dovevano mantenerla girata la testa dall’altra parte,  ma come dicevano i i romani, maestri di diritto,  “modus in rebus”. Invece no. Avendo deciso di rigirarla dopo decenni di sonnolenza hanno scatenato tutta la loro potenza di fuoco per ottenere quello che sta accadendo e che non riguarda solo l’Ilva, Taranto, la sua provincia.  Riguarda tutta l’Italia e la sua già disastrata economia oggetto di bramose attese da parte della concorrenza, in ogni settore, ovviamente anche in quello dell’acciaio. La sistematica “attenzione” della magistratura  verso il grupppo Riva  che tra tante colpe pur qualche merito deve avercelo, ha prodotto il blocco del sistema siderurgico in  ogni parte del Paese, proprio quando il Paese ha bisogno di trovare ragioni e occasioni di ripresa per uscire dal tunnel nel quale siamo stati ficcati dalla balardaggine americana e dalla miopia della burocrazia europea, anzi, sopratutto tedesca che non potrà che gioire dell’ennesima imboscata all’industria italiana. E la politica che fa? Non è risuscita a bloccare, pur essendo la politica sovrana in un sistema di democrazia, l’azione distruttiva di un  magistratura straboccante e si balocca su questioni che sono come il pelo nell’uovo. Chi ha fame il pane lo inzuppa anche lì dove c’è il pelo, badando alla sostanza e tralasciando la forma. Altrimenti di forma finiremo col morire.g.