Giorgio Orsoni, sindaco di Venezia, «non è un iscritto al Pd». Del resto anche Walter Veltroni non era mai stato comunista e Primo Greganti era solo una mela marcia. La tentazione di rimuovere, vizio antico a sinistra, non ha però retto a lungo. Ieri Renzi ha dovuto smentire i suoi che avevano cominciato il giochino dello scaricabarile tra chi c’era prima e chi c’è adesso, e mettere in capo al suo partito le responsabilità che ha nel sistema delle tangenti, trasversale come poche altre cose in Italia. Del resto, la favoletta che il meccanismo della corruzione si interrompa automaticamente mettendo i nuovi al posto dei vecchi è la stessa che ci raccontammo dopo Tangentopoli. Sciogliemmo tre o quattro partiti, ne fondammo di nuovi, cambiammo tre quarti del Parlamento, e dopo vent’anni siamo di nuovo lì, anzi peggio. All’epoca, tanto per dire, Galan era uno dei nuovi, arrivati dalla società civile a ripulire il sistema dei politici di professione e per questo corrotti.

Ma il presidente del Consiglio ha fatto ieri anche un’altra importante virata. Dopo lo scandalo Mose aveva detto che «il problema sono i ladri, non le regole». Ieri, forse per giustificare le difficoltà che sta incontrando nel riscrivere le regole e definire i poteri del commissario Cantone, ha ammesso che «il problema non riguarda solo i ladri, ma anche le guardie». Sembra quest’ultimo l’approccio giusto.

Bisogna infatti uscire dall’ipocrisia cui stiamo assistendo anche di fronte a questa nuova, clamorosa conferma che l’Italia è una repubblica fondata sulla corruzione, seconda nel mondo sviluppato solo al Messico e alla Grecia: un Paese che pur avendo più di duemila miliardi di debito pubblico ne riesce a buttare 60 all’anno in mazzette. È l’ipocrisia di chi convive giorno e notte con la corruzione e la vede solo quando un procuratore la svela. L’ipocrisia di organizzazioni, dai partiti alla Lega Coop alla Confindustria, che potrebbero fare meno convegni sulla legalità e più verifiche interne sullo standard etico dei propri iscritti.

Prendiamo il caso della Mantovani, il cui ex presidente ha svelato ai giudici il sistema Mose. Ebbene, la stessa impresa dello scandalo di Venezia aveva vinto un mega appalto per l’Expo di Milano con il sistema del massimo ribasso, offrendo uno sconto, scandaloso perché fece scandalo, di 107 milioni su 272. Salvo poi chiedere proprio in questi giorni 120 milioni di aggiornamento perché i costi dell’opera sono cresciuti. Diritto penale a parte, è ancora in Confindustria, nonostante Squinzi si sia detto «un talebano» in materia ed abbia annunciato espulsioni. E anche per quella azienda vale il principio ribadito dal direttore generale di Confindustria, secondo il quale un’impresa non può essere commissariata? La verità – come ha scritto chi studia il fenomeno – è che «oggi sul mercato delle opere pubbliche se non sei corrotto o corruttibile o corruttore non sei competitivo». E questo fatto è accettato anche dagli onesti. Ma la novità e la gravità dello scandalo Mose sta nel fatto che il consorzio che corrompeva i politici non aveva neanche concorrenti; pagava dunque solo per tenere in funzione il sistema idraulico dei finanziamenti, ormai produceva tangenti più che dighe, e per questo i lavori non dovevano finire mai. E se i corrotti davvero intascavano milioni, vuol dire che il margine di profitto dei corruttori era enorme.

Il numero di persone che ha detto in questi giorni «qualcosa a Venezia si sapeva» è sorprendente. Nessuno però ha spifferato quello che «si sapeva» finché non è finito in manette; perché nel mondo anglosassone il wistle-blower , colui che dall’interno di un sistema canta, diventa un eroe; mentre qui la corruzione, in fin dei conti, non ha la stessa sanzione reputazionale. Altrimenti Greganti non avrebbe avuto accesso al Senato, e Frigerio non avrebbe presieduto una fondazione intitolata a San Tommaso Moro.

Anche nei proclami di lotta (futura) alla corruzione si avverte una nota falsa. L’altro giorno il presidente dei giovani industriali ha detto: «Fuori da Confindustria chi corrompe, ma anche chi abbandona l’Italia». Ecco, mettere sullo stesso piano un comportamento economico come delocalizzare e un comportamento illegale come rubare è la prova che il secondo è considerato più come un espediente che come un reato. Il patriottismo è una scelta, l’etica dovrebbe essere un obbligo.

Neanche la retorica del governo è rassicurante. È tutto un fiorire di paragoni col calcio, come se il pallone in Italia potesse essere portato a esempio di efficienza e onestà. Renzi vuole applicare una sorta di Daspo (il divieto di ingresso agli stadi) ai politici condannati in via definitiva. Ma non l’aveva già stabilito la legge Severino? Senza considerare che l’ultrà romanista che ha quasi ammazzato il tifoso napoletano il pomeriggio della finale di Coppa Italia il Daspo già ce l’aveva, e ciò nonostante girava armato nei pressi dello stadio. Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 8 giugno 2014

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