«B isogna dire la verità agli italiani». Non so quanti siano gli articoli che ho scritto su questo giornale e che si concludevano con quel ritornello: forse troppi. Li ho scritti quando al governo era Berlusconi e imperava una filosofia alla Mike Bongiorno («allegria!»); e quando al governo era la sinistra, un po’ più sobria ma che, con la verità, non aveva un rapporto molto diverso. «La verità mi fa male», cantava Caterina Caselli alla fine degli anni 60. Fa male a un politico dire agli italiani che per troppo tempo hanno vissuto al di sopra dei propri mezzi – il debito ne è la conseguenza – e che, per rientrare e tornare a crescere, sarà necessario un lungo periodo di sofferenze, durante il quale molte istituzioni e rapporti cui si sono assuefatti dovranno essere radicalmente riformati. Nella politica, nella pubblica amministrazione, nell’istruzione, nella giustizia, nel Mezzogiorno, nella legislazione del lavoro, nell’impresa, e si può continuare. Le sofferenze, in realtà, sono iniziate da molto tempo: è almeno dall’inizio del secolo che il Paese ristagna e la prospettiva di un declino secolare si avvicina. Ma la ragione per cui gli italiani devono subirle – la verità, appunto – non è per loro ancora chiara. E ancor meno chiaro è se le riforme promesse saranno giuste e radicali quanto è necessario ad evitare che debbano subirle anche i loro figli. A partire da queste convinzioni – che mi sono formato attraverso lo studio delle origini del declino italiano – ho provato una forte sintonia con l’editoriale che Galli della Loggia ha scritto sul Corriere di lunedì scorso: «Dirsi in faccia un po’ di verità». Due domande, però, che rivolgo anche a me stesso.

La prima è ovvia: qual è la verità? In altre parole, qual è l’analisi più affidabile dei guasti che corrodono il nostro Paese e, di conseguenza, quali sono le aree nelle quali si dovrebbe intervenire con le riforme? E come? Un giudice, ma anche uno storico, sanno benissimo com’è difficile ricostruire la verità: nel film Rashomon , Akira Kurosawa ne ha dato una rappresentazione indimenticabile per la sua forza. Dagli esempi che Galli della Loggia riporta mi sembra di capire che la sua verità assomiglia abbastanza alla mia. E poi i guasti nelle istituzioni, nell’economia, nella società, nella cultura e nelle mentalità del nostro Paese sono così evidenti e macroscopici che dovrebbero bastare criteri elementari di efficienza e di giustizia – condivisi dalla gran parte dei nostri concittadini, quali che siano le loro convinzioni politiche – per farne una narrazione capace di ottenere un largo consenso. Temo che le cose siano un po’ più complicate di così, dato che in Italia circolano oggi tante «verità» partigiane, un quasi ossimoro. Ma ammettiamo, senza concederlo, che le cose siano abbastanza semplici da poter passare alla seconda domanda.

Basterà questa verità, questa narrazione, per «mobilitare le menti e i cuori degli italiani e in questo modo spingerli al rinnovamento e all’azione»? In altre parole – perché di questo si tratta – che cosa deve fare un politico dotato del carisma di Matteo Renzi? Se dire la «verità», e quanta verità dire, sia sufficiente a «mobilitare le menti e i cuori» in un Paese così frammentato culturalmente e politicamente diviso com’è l’Italia – è un giudizio che conviene lasciare al politico, perché questo – l’intuito per il consenso – è una parte essenziale del suo mestiere e di esso Renzi ha dimostrato sinora di essere ben provvisto. A noi come cittadini interessano altre parti del suo mestiere, anzi della sua vocazione: quelle che Max Weber descrive con la tripletta passione, responsabilità, lungimiranza. Passione vuol dire dedizione ad una causa esterna da sé (la vanità e la ricerca del potere di per se stesso è uno dei crimini del politico) e questa passione spero che Renzi ce l’abbia: la sobrietà con cui ha reagito alla grande vittoria elettorale delle Europee promette bene.

Responsabilità vuol dire che la causa che il politico si prefigge – nel caso nostro sollevare il Paese dall’infelice condizione in cui è caduto, e così facendo migliorare anche la situazione dei nostri concittadini più disagiati – dev’essere la stella polare del suo agire, l’unico metro con cui misura il suo personale successo. E lungimiranza vuol dire – la faccio breve – freddezza, realismo, capacità di valutazione distaccata. Le cose che Galli della Loggia vorrebbe che Renzi dicesse agli italiani – la «verità» – io vorrei che le pensasse lui e agisse in conseguenza, con la massima lungimiranza, astuzia e freddezza di cui è capace. Se non ne fosse intimamente convinto la tripletta weberiana lo porterebbe in direzione sbagliata: resterebbe un politico per vocazione, ma non il politico di cui oggi il Paese ha bisogno. Perplessità e preoccupazioni gli osservatori esterni – Galli della Loggia, chi scrive e tanti altri – è comprensibile che le abbiano e la mia maggiore è se Renzi, e il gruppo dirigente che ha portato al governo, abbiano le risorse tecniche e culturali adeguate al compito, alle fatiche di Ercole, che si sono addossati. Ma consigli non ne ho, se non quello di tenersi sul comodino il profondo e commovente saggio di Max Weber cui ho fatto riferimento: La politica come vocazione . Michele Salvati, Il Corriere della Sera, 17 luglio 2014