Questa estate del settantesimo anniversario dalla fine della guerra l’Europa l’ha trascorsa a litigare sull’euro, ma l’Asia la sta passando a parlare di guerra. Domani la Cina comunista celebrerà per la prima volta, ascrivendosela, la vittoria contro il Giappone, con un’esibizione di potenza militare tanto più minacciosa perché inscenata in quella piazza Tienanmen dove l’Esercito Popolare fu usato contro il suo popolo (tra parentesi: era proprio necessario mandarci il nostro ministro degli Esteri? Non bastava un ambasciatore, come hanno fatto Usa e Germania?). Né è meno surriscaldato il clima nel Paese sconfitto: in Giappone infuria il dibattito sul riarmo, il governo reinterpreta e forse emenda l’articolo 9 della Costituzione, caposaldo del pacifismo nipponico post Hiroshima, con l’ambizione di riappropriarsi del diritto di usare le forze armate; e gli studenti protestano riempiendo la piazza di Tokyo come se fossero gli anni 60, insieme alle star della musica e della tv si schierano contro il premier Abe.

Territori restano contesi, tra il Giappone e la Russia, tra il Giappone e la Cina. La Corea del Nord è uno Stato canaglia che gioca col nucleare. Tokyo si sente accerchiata, sempre meno protetta da un’America stanca di guerra, teme di non potersi più permettere il pacifismo e appare sempre più stufa di dover chiedere continuamente perdono ai suoi ex nemici (per l’agenzia di stampa ufficiale di Pechino l’attuale imperatore Akihito dovrebbe scusarsi con la Cina a nome del padre defunto Hirohito, riaprendo così la questione imperiale). Il Giappone riscopre il nazionalismo e lo nutre di un revisionismo storico che celebra, insieme alle vittime della guerra, anche i criminali di guerra sepolti con loro, e sempre più spesso tenta di ridimensionarne i crimini, a partire dallo stupro di Nanchino del 1937.

Per un europeo è sorprendente assistere al perdurare, e addirittura all’incrudelirsi di un così forte rancore per vicende storiche da cui ci dividono tre o quattro generazioni. I regimi asiatici sfruttano il patriottismo fino al punto di inventare tradizioni, per controllare il passato e far dimenticare i guai dell’oggi. È come se in Europa la Francia dedicasse una parata militare e una settimana di ferie dal lavoro a celebrare la sconfitta della Germania, o un giornale tedesco pretendesse le scuse di Elisabetta II per il bombardamento a tappeto di Dresda del 1945.

Ma la ragione per cui tutto ciò ci sembra assurdo e anacronistico non è perché la storia non si possa ripetere se non come farsa: basta guardare a ciò che sta accadendo in queste ore in Ungheria per capire che gli esseri umani sono capacissimi di ripetere anche la tragedia. Ciò che in Europa è diverso è l’atto di volontà politica con cui ci siamo buttati alle spalle il nostro tragico Novecento dando vita a una Unione tra gli Stati che si erano combattuti, trasformando cioè la fine della guerra in vera pacificazione, e l’antagonismo militare in cooperazione economica. I venti che soffiano in Asia, continente in cui questo processo non è mai nemmeno cominciato, dovrebbero ricordarcelo.

Aver messo fine alle guerre non è un merito obsoleto dell’Europa buono solo per la cerimonia del Nobel per la pace, qualcosa di così scontato e di così lontano dalle nuove generazioni da non giustificare più la fatica, le pecche e gli errori dell’Unione. Tutto sommato, è molto meglio litigare sull’euro che sul riarmo. Perfino la crisi dei migranti è una conseguenza di questo successo storico. L’Europa è un’oasi di pace circondata da un mare di guerre, attrae chi ama la vita come una calamita. O, se vogliamo, come un faro di civiltà nella notte infinita dell’odio tra i popoli . Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 2 settembre 2015

……Ha ragione Polito a rivendicare all’Europa il merito di aver trasformato  un’area di guerre, l’ultima  è stata la più disastriosa di tutte, in un’area di pace, e che è meglio litigare sull’euro ( e non solo!) piuttosto che cannonneggiarsi l’uno con l’altro. Però dimentica Polito di sottolineare  che il merito va riconosciuto e  ascritto ai Padri dell’Europa  che perseguirono con determinazione e impegno questo obiettivo; ma quegli stessi Padri dell’Europa unita, o meglio degli Stati uniti d’Europa, pensavano ad una Europa dei Popoli e delle Nazioni, non pensavano certo all’ Europa dei burocrati e ad una unione europea solo economica e non politica, o, peggio ad una europa dedescocentrica nonostante tra i Padri  della nuoiva Europa v’era Adenauer che, però, aveva una visione molto più aperta rispetto ai tedeschi di oggi. Ai meriti, quindi, debbono far da riscontro i demeriti e se si vuole le degenerazioni rispetto all’Idea che mosse gli statisti di un sessantennio fa ad adoperarsi per creare prima le condizioni e poi le basi per costruire uno Stato sovranazionale che però non affogasse gli spiriti e le tradizioni nazionali in una burocrazia cieca ed egemonica che ha finito col fomentare le avversioni ad una unione europa che annega in un mare di proteste e contestazioni. Si può tornare indietro, recuperare lo spirito dei Padri fondatori dell’unità eurpea e solo allora i meriti  di quei “visionari” potranno conuigarsi con una nuova e più fertile stagione “europea”. g.