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    A leggerli così, mescolati in quella secrezione delle nostre vite che sono le nostre peggiori telefonate (tanto quelle belle, corrette, trasparenti, nel faldone di un’inchiesta non ci arrivano, e dunque nessuno le conoscerà mai) viene da pensare che gli affari siano sempre affarismo. Non è vero. E dovremmo dirlo, perché già viviamo in un Paese pieno di pregiudizi contro il business. Già sembriamo una repubblica di Banana (Build Absolutely Nothing Anywhere Near Anything) ostile a ogni calcestruzzo, in cui la produzione di qualsiasi forma di energia, dal nucleare alle pale eoliche, dal gas agli inceneritori, solleva proteste e veti ecologisti. E invece tutte quelle parole che ci fanno sobbalzare nelle intercettazioni, contratto, gara, appalto, soldi, non sono lo sterco del demonio, non sono sinonimi di imbroglio e truffa. Gli affari fanno girare il mondo, o non lo fanno girare. Quando a fine anno piangiamo per lo scarso Pil o la forte disoccupazione, quando ci lamentiamo perché il Sud è vent’anni indietro, non facciamo altro che tirare le somme di troppi pochi affari, transazioni, vendite, acquisti, opere pubbliche e private. Per questo è difficile dare torto a Renzi quando rivendica al governo, con quell’aria di sfida ai magistrati di Potenza, la responsabilità politica di sbloccare gli investimenti, accelerarne l’iter, produrre lavoro. La corruzione va combattuta senza quartiere e senza riguardi, perché è distruttiva del mercato. Ma guai se pensassimo di stroncarla stroncando gli affari. La qualità della nostra vita e il nostro stesso reddito dipendono dal livello di sviluppo e di tecnologia del Paese in cui viviamo.

    Non diamo alibi a chi sogna di sostituire il mito del regresso a quello del progresso. Però proprio un governo che vuole finalmente rompere il tabù degli affari deve cercare antidoti più forti all’affarismo. Non basta la giustificazione del «fare» per esorcizzarlo. L’inchiesta di Potenza, facendoci guardare dal buco della serratura nelle stanze dove si decide, demolisce l’idea che centralizzare e personalizzare il potere possa tagliare le unghie all’affarismo. Se mai c’è stata, l’illusione dell’uomo solo al comando della nave si è dimostrata incapace di eliminare il caotico affollarsi degli interessi giù nella sala macchine, dove ministri, sottosegretari e capi di gabinetto restano esposti, e forse anche più esposti quanto minore è la loro personalità e il loro peso nella collegialità del governo, alla pressione delle lobby. E così finiscono per combattersi, rubarsi competenze, costruire cordate, perfino in un governo del premier, virtualmente monocolore, come è quello Renzi.

    C’è poi una seconda lezione da apprendere. La riduzione del Parlamento a votificio non semplifica le cose. Tutti gli emendamenti ad progettum, aziendam o personam, cercano disperatamente un treno legislativo su cui saltare, e di solito finiscono per trovarlo nel maxi emendamento alla legge di stabilità, patchwork che la maggioranza deve approvare in pochi minuti, in piena notte e a occhi chiusi. È vero che le Camere sono un ricettacolo di clientele, e l’assalto alla diligenza di un tempo non era preferibile, ma il Parlamento è anche un filtro degli interessi. Sempre meglio farli passare allo scrutinio di una commissione, che trovarseli riversati sul tavolo di un ministero, dove si decide certamente con maggiore opacità e discrezionalità, e dove il potere di un funzionario vale più dell’opinione di un deputato eletto dal popolo.

    Infine bisogna regolamentare il lavoro dei gruppi di pressione. Questo Gemelli era un lobbista? Allora doveva essere iscritto a un registro della professione, dichiarare i propri interessi, e il ministro con cui conviveva doveva a sua volta dichiarare il legame al momento di assumere un incarico nel governo, e il presidente del Consiglio doveva sapere che il suo ministro dello sviluppo economico aveva questo ulteriore interesse, diciamo così, familiare. L’esito più infausto del clamore di questa storia, insomma, sarebbe un ritorno al passato, quando non si combinava niente e si corrompeva anche di più. Ma per evitarlo non ci sono scorciatoie autoritarie o dirigiste, bisogna seguire la strada maestra di una democrazia funzionante, fatta di pesi e contrappesi, check and balance; e adeguarsi così, un po’ alla volta, agli standard etici dei Paesi puritani. Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 8 aprile 2016

    ……A leggerlo senza occhiali questo editoriale di Antonio Polito, vicedirettore del Corriere della Sera, ex senatore del Pd, autorevole “firma” del Corriere, può apparire  una sorta di assoluzione di Renzi e compagni nella vicenda dell’ex ministro Guidi e della inchiesta giudiziaria provocata dalle intercettazioni tra l’ex ministro Guidi e il suo compagno che lungi dall’essersi conclusa, giorno per giorno si arricchisce di altre novità non certo lusinghiere per il governo e il premeirr Renzi, 2l’uomo solo al comando”. Proprio su questo Polito in verità mette l’accento per rilevare che un uomo solo al comando  non può gestire al meglio le pur necessarie attività conesse allo sviluppo e alla crescita , ma sopratutto Polito denuncia la trasformazione del Parlamento in un votificio senza poteri, visto che la legge economica per eccellenza, la legge di stabilità,  è ormai votata ad occhi chiusi con un superemendamento predisposto nottetempo dal governo  che appone la “fiducia” senza alcuna possibilità di controlo dei deputati. E’ quanto basta per poter trarre la conclusione che quanto di marcio possa venir fuori non può che essere responsabilità, forse non penale, ma di certo politica e morale del premier che supervisona il tutto o direttamente o tramite un pool di fidatissimi collaboratori che rispondono a lui e a lui soltanto. E questa non è più una democrazia parlamentare ma un regime o almeno l’anticamera di un regime. g