Alla grande maggioranza degli elettori italiani, giustamente scandalizzati dell’enorme numero di parlamentari che durante la legislatura appena conclusa sono trasmigrati da un partito all’altro cambiando disinvoltamente perfino collocazione politica — prima di destra e poi di sinistra o viceversa — non piace per nulla il dettato costituzionale che vieta il mandato imperativo. Non piace cioè quella norma che impedisce che le trasmigrazioni suddette siano messe al bando dal momento che la libertà del singolo parlamentare di muoversi come vuole nella vita politica una volta eletto, di votare come vuole, di cambiare partito come vuole, non può essere limitata in alcun modo né dalle sue precedenti collocazioni di partito né dalle opinioni dei suoi elettori. La grande maggioranza degli elettori pensa invece (ed è certamente nel vero) che così si favoriscono inevitabilmente i peggiori maneggi dietro le quinte, la corruzione della vita pubblica, il trasformismo.

Fatto sta, però, che la medesima grande maggioranza degli elettori italiani è giustamente scandalizzata pure da un altro fenomeno: quello dei parlamentari «nominati». Cioè di quegli uomini o donne che entrano alle Camere per il solo fatto di essere stati designati dalla segreteria del proprio partito a occupare un posto in una lista «bloccata», il che in pratica assicura loro un’elezione sicura

Si pensa non a torto che in realtà un parlamentare «nominato» non è libero di decidere davvero con la sua testa, che egli, specie se vuole essere rieletto (e tutti lo vogliono) è di fatto un semplice burattino nelle mani di chi gli ha regalato il seggio. Cioè dei capi del suo partito, sicché ogni sua decisione dipende in tutto e per tutto dalla loro volontà.

Il guaio è che il motivo appena detto che viene invocato per protestare contro i parlamentari «nominati» è però, come si capisce, esattamente il medesimo che invece viene combattuto e disapprovato quando si tratta dei parlamentari «transfughi». Insomma, la libertà del parlamentare rispetto alla lista che lo ha fatto eleggere viene deprecata una volta, come fonte di malcostume, e un’altra, viceversa, viene invocata come strumento della sua necessaria autonomia rispetto ai diktat dei capipartito. Si tratterebbe dunque di decidere tra due mali, per la verità uno peggio dell’altro: o avere un parlamento simile a una congrega di potenziali individualisti sfrenati, liberi di fare e disfare a proprio piacere perché privi di veri vincoli, o accettare la realtà di un’assemblea di fantocci pronti a premere il bottone delle votazioni agli ordini di pochi capataz.

In verità, un sistema per cercare di attenuare (non cancellare, ma attenuare di molto sì) questa malefica alternativa ci sarebbe. Si chiama collegio maggioritario uninominale. Cioè far eleggere ogni parlamentare in un collegio di non più di 80-100 mila elettori dove si può presentare un solo candidato per lista, e vince chi prende un voto in più di ogni altro. Vale a dire radicando un candidato in un ambito territoriale in qualche modo a lui familiare o che gli diventerà tale, e i cui abitanti molto probabilmente avranno di lui già una certa conoscenza o se egli è eletto se la faranno, sicché se alla fine egli tradirà il loro mandato essi ben difficilmente lo voteranno una seconda volta, e per lui non sarà tanto facile trasmigrare altrove.

Proprio perché dà così grande potere agli elettori si tratta però di un sistema che non piace affatto ai partiti: a tutti, compresi dunque i grillini che pure a chiacchiere dicono di esser a favore della democrazia diretta. Partiti i quali hanno invece il naturale interesse a restare padroni ad ogni costo dei «propri» parlamentari, sicché, anche quando sono costretti dalla spinta dell’opinione pubblica a introdurre il suddetto sistema, lo fanno però solo in parte, come per l’appunto avviene oggi in Italia, rifacendosi grazie alla proporzionale con liste bloccate di quello che hanno dovuto limitatamente «concedere» con il maggioritario uninominale (non senza prima, però, aver snaturato quest’ultimo stabilendo fraudolentemente che non può esserci voto disgiunto, che cioè il voto nell’uninominale vale automaticamente anche nel proporzionale).

Coloro che davvero vogliono moralizzare i comportamenti di deputati e senatori, è sul modo della loro elezione e del relativo rapporto con i partiti, dunque, che dovrebbero insistere, non già chiedere d’introdurre il vincolo di mandato. Il cui divieto, come ho detto, non solo anch’essi poi paradossalmente invocano contro i parlamentari «nominati», ma ha la sua fondamentale ragion d’essere nel fatto, di cui bisogna convincersi, che la democrazia diretta è solo una favola usata dai demagoghi per ingannare i gonzi. E che proprio perché è una favola — hanno mai pensato ad esempio gli elettori grillini che se davvero dovessero essere loro a decidere da casa con un clic sull’approvazione delle leggi dovrebbero, per capirci qualcosa, passare ore e ore ogni settimana a leggersi centinaia di pagine di documenti? — proprio perché la democrazia diretta non può esistere, i parlamentari devono essere liberi di decidere come vogliono per non divenire i passivi servitori di nessuno. Come peraltro, aggiungo, si spera che anche i sullodati elettori, grillini o no, vorrebbero essere liberi di decidere a loro piacere se mai avessero la possibilità di votare da casa loro. Perché alla fine è sempre meglio avere una libertà di cui si può abusare che non avere alcuna libertà. Ernesto Galli della Loggia, IL Corriere delkla Sera, 23 gennaio 2017

……A pochi giorni dal termine per la presentazione delle liste per la Camera e il Senato, questo saggio di Ernesto Galli della Loggia è un atto di accusa ad una legge elettorale che premia insieme i transfughi, ben 545 nella appena conclusa legislatura, e i “padroni”  dei partiti che se ne infischianmo degli elettori e ripropongono i transfughi che fannio loro comodo e inseriso0cno nelle liste i candidati che non esprimeranno mai un libero e ponderato voto in Parlamento ma eseguiranno, come robot, gli ordini che riceveranno dai  loro “padroni” elettorali.  E’ evidente che è totalmente  sconfessata la Costituzione che pure afferma che “la sovranità appartiene al popolo”. g.