Distratta dalle quasi quotidiane polemiche tra i due partners della maggioranza e dall’inedito scontro aperto tra Salvini e Conte, l’opinione pubblica non ha ancora colto pienamente che alcuni comportamenti dei partiti di Governo mettono a rischio aspetti fondamentali del nostro assetto costituzionale. Il più evidente di tali comportamenti è stato l’iter di approvazione della manovra che ha di fatto privato il Parlamento della possibilità di un suo adeguato esame e, grazie al combinato disposto di maxi-emendamento e voto di fiducia, di qualsiasi possibilità di emendamento. E’ noto che il Pd ha investito la Corte Costituzionale della legittimità di questa limitazione senza precedenti delle prerogative del Parlamento. Anche se la Corte ha considerato inammissibile un ricorso per conflitto di attribuzioni avanzato non da una Camera ma da un singolo gruppo parlamentare, tuttavia è tuttavia significativo che la Corte abbia formulato una riserva circa la liceità di una prassi – quella del combinato disposto maxiemendamento-voto di fiducia – che, ancorché praticata da tutti i governi della seconda repubblica, comprime il ruolo del Parlamento.

E’ ora auspicabile che la Corte superando il mero auspicio voglia in futuro sentenziare la illegittimità di tale combinato disposto. Come sorprendersi del venir meno dei partiti storici e della crisi della democrazia rappresentativa se permettiamo, da un lato che i rappresentanti siano nominati da pochi leader ai vertici dei partiti anziché eletti dai cittadini, e dall’altro che le funzioni del Parlamento siano espropriate dall’esecutivo?

Una seconda e ancor più evidente violazione del dettato costituzionale è rappresentata dalla rivendicazione del vice-presidente Salvini di un suo potere esclusivo in materia di gestione dei migranti. La sua affermazione che «si discuta pure con Di Maio, Fico e Conte. Ma in materia di migranti chi decide sono io» — rivendicazione riaffermata anche in sede di accoglienza dei 10 migranti provenienti dalle due navi delle Ong — contrasta apertamente con l’Art. 95 della Costituzione secondo il quale «il Presidente del Consiglio dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri». Malgrado il suo potere politico Salvini non è il Premier, e se Conte consentirà ad una simile diminutio saremo di fatto di fronte ad una inedita modifica della nostra forma di governo.

Una terza questione di rilevanza costituzionale è quella rappresentata dal decreto sicurezza contro il quale almeno quattro regioni hanno già avanzato ricorso alla Corte, lamentando una lesione delle loro competenze in materia di sanità: i clandestini, infatti, non potendo accedere in via preventiva al servizio sanitario nazionale aumentano i rischi per la salute pubblica. Inoltre, il decreto Salvini sembra violare gli Artt. 2 e 10 della Costituzione. L’Art. 2 afferma che «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo …. e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà…»; dell’uomo e non del cittadino, e quindi anche dei migranti ancorché privi di cittadinanza o di permesso di soggiorno. L’Art. 10, dopo aver affermato che l’ordinamento italiano «si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute», aggiunge che «lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’esercizio delle libertà democratiche … ha diritto di asilo nel territorio della Repubblica».

Impedire l’attracco nei nostri porti non solo viola i trattati e le leggi internazionali che affermano il diritto di accedere al «porto sicuro» più vicino, ma rendendo impossibile il richiedere asilo viola apertamente l’Art. 10. Siamo così ancora una volta in presenza di una violazione costituzionale da parte di un singolo ministro che il Governo nella sua interezza, e in particolare il Premier, non dovrebbero tollerare.

Sul punto non dobbiamo tuttavia farci illusioni. La proposta di referendum propositivo che il Governo ha presentato, qualora fosse approvata senza abolire l’ipotesi di un ballottaggio tra il testo popolare e un testo parlamentare e senza indicazione di un adeguato quorum (insufficiente è infatti prevedere un quorum del 20 o 33%, per superare un voto del Parlamento, essendo necessaria almeno la metà dei votanti nelle precedenti elezioni politiche), costituirebbe non una integrazione ma un attacco senza pari alla democrazia rappresentativa prevista dalla nostra Costituzione. Nel 2006 e nel 2016 le proposte di grande riforma costituzionale avanzate prima dal centro-destra e poi dal Pd erano chiare, furono ampiamente discusse e infine respinte dall’elettorato.

Oggi la proposta di referendum propositivo, se non adeguatamente emendata, costituisce un subdolo e surrettizio attacco ai fondamenti della nostra democrazia. Non si può consegnare ad un numero ristretto di votanti — che magari si esprimono su piattaforme private, come la piattaforma Rousseau che Di Maio oggi offre ai gilets jaunes — quel potere legislativo che la Costituzione attribuisce in via primaria ai rappresentanti del popolo.

Piattaforme incontrollate non sono il popolo. La democrazia rappresentativa ha i suoi difetti, ma è trasparente e controllabile. La democrazia diretta quando esce dalla dimensione locale rischia di cadere preda dell’attivismo di piccoli gruppi e della mancanza di trasparenza e di controllo delle piattaforme attraverso le quali si esprime. La democrazia non è la democrazia digitale. Stefano Passigli, Il Corriere della Sera del 17/01/2019