Archivi per settembre, 2019

IL BUON ESEMPIO AMERICANO CONTRO L’EVASIONE FISCALE

Pubblicato il 30 settembre, 2019 in Il territorio | No Comments »

risponde Luciano Fontana

Caro direttore,

nel 1952 il ministro Vanoni convoca mio padre Noè Cinti, apprezzato funzionario del ministero delle Finanze, e lo manda negli Stati Uniti per studiare il sistema tributario americano, convinto che il più urgente problema italiano sia quello dell’evasione fiscale. Mio padre parte, lasciando una moglie incinta e con quattro figli a carico, con grande senso del dovere, e svolge sei mesi di intensa missione visitando tutti i singoli Stati di quella nazione. Al ritorno porge al ministro un voluminoso plico con una dettagliata relazione: «Se vuole, posso riassumere in due frasi: 1) l’evasione fiscale è considerata furto allo Stato e giuridicamente più grave dell’omicidio, e per gli evasori c’è solo il carcere; 2) tutto è deducibile per cui nessuno si fa sfuggire una ricevuta». Il ministro congedò mio padre con una deprimente affermazione (simile a quella che ho sentito oggi alla radio del premier Conte) relativa al fatto che era contrario ai sistemi coercitivi. Settant’anni dopo siamo ancora alle prese con il problema enorme dell’evasione fiscale, forse è giunto il momento di applicare quanto suggerito allora.
Saverio Cinti

Caro signor Cinti,

La sua storia ci ricorda che giriamo sempre intorno allo stesso problema: come rendere semplice ed efficace la lotta all’evasione fiscale. In Italia non solo si pagano tasse alte, se ne pagano anche tante spesso complicate. Ridurre il peso del Fisco sulle imprese e i lavoratori è un’emergenza, combattere quella tassazione occulta dovuta a una burocrazia assurda una priorità. Come nella domanda se è nato prima l’uovo o la gallina, non so se i furbi siano il risultato o la causa di un sistema fiscale così penalizzante per l’economia. Di sicuro non aver varato poche regole semplici e certe favorisce l’esplosione dell’evasione fiscale.
La certezza di una pena severa è sicuramente un disincentivo all’evasione ma io ritengo che il punto fondamentale sia nel secondo suggerimento di suo padre: in ogni occasione i cittadini devono avere un vantaggio a chiedere la ricevuta fiscale, a non farsi ingannare da chi promette uno sconto in cambio della mancata emissione di una fattura. Il conflitto d’interesse tra i soggetti in gioco è una chiave decisiva. In Italia sta prendendo piede e qualcosa di simile è previsto anche nella discussione sulla riduzione del contante. Non ci resta che sperare che arrivino finalmente le mosse giuste. Lo slogan di Conte, «meno tasse e pagate da tutti», per ora è un desiderio. Luciano Fontana, Direttore del Corriere della Sera, 30 settembre 2019

.…Ha ragione il direttore Fontana. Il “trucco” sta proprio nel togliere agli evasori di ogni tipo le ragioni per cui il contribuente si rende complice dell’evasione, cioè come scrive Fontana i cittadini devono avere un vantaggio a chiedere, anzi pretendere la ricevuta fiscale dai suoi fornitori. In America accade così, il contribuente paga e riceve la ricevuta che viene poi utilizzata con percentuali diverse in sede di dichiarazione dei redditi. Ricordo un episodio durante una mia visita in Canadà.  Un italiano, si chiamava Fava, che gestiva una agenzia di viaggi di cui si servivano molti italiani, ci invitò a prendere un caffè che pagò con la carta di credito. Stupito chiedi ai miei connazionali il perchè dell’uso della carta per un costo minimale e mi fu spiegato che la ricevuta anche per i 4 caffè consumati sarebbe stata utilizzata  in sede di dichiarazione dei redditi per una pur piccola detrazione che unita alle altre avrebbero contribuito a ridurre l’importo finale delle tasse da pagare. Il tutto nell’ambito della legge. Perciò è quanto mai fondata l’opinione del direttore Fontana per cui “il buon esempio americano” è un utile antidoto all’evasione fiscale  che nel nostro sfortunato Paese si aggira intorno ai 100 miliardi di euro all’anno. p.g.

LEGGE ELETTORALE: LA SOLITA MEMORIA CORTA, di Angelo Panebianco

Pubblicato il 22 settembre, 2019 in Il territorio | No Comments »

Uno sconsolante dejà vu. È vero che gli elettori, quando si tratta di certe faccende, hanno la memoria corta. Ma la classe dirigente non dovrebbe soffrire della stessa malattia. In vista di una ennesima, possibile riforma elettorale, si torna a parlare di virtù e difetti dei vari sistemi (maggioritario a un turno o due turni, proporzionale puro, eccetera) con spensierata ignoranza, come se non avessimo alle spalle trenta e passa anni di discussioni e di esperimenti. Facciamo il punto su quanto la storia dovrebbe averci insegnato.
Primo: chiunque dica che il tale o tal altro sistema elettorale è in grado di dare stabilità alla democrazia non sa di cosa sta parlando. La stabilità di una democrazia dipende da tre cose. Il radicamento sociale dei partiti è una di esse. Così come lo sono le tendenze in atto, in una certa fase storica, alla radicalizzazione degli elettorati o alla de-radicalizzazione. Così come lo è, infine, l’assetto istituzionale complessivo (di cui la legge elettorale è solo un frammento, ancorché importante). In questa fase storica, non solo in Italia, si assiste a un indebolimento — ma più accentuato in alcune democrazie — del radicamento sociale dei partiti. Inoltre, a causa (forse) della lunga crisi economica, viviamo in un periodo di forte radicalizzazione.
Ciò può spiegare quanto accade in Paesi — dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna alla Spagna — con assetti istituzionali diversi ma con una cosa in comune: sono costruiti in modo da favorire stabilità politica e capacità di governo della democrazia. Ciò significa che se e quando la tendenza alla polarizzazione degli elettorati si esaurirà, quelle democrazie torneranno probabilmente ad essere stabili. È escluso che in Italia ciò sia possibile. Perché il nostro assetto istituzionale è costruito in modo da garantire che, in nessun caso, l’Italia possa essere una vera democrazia governante. La «costituzione più bella del mondo» (sic) generò un regime assembleare con governi istituzionalmente deboli. Altro che «pesi e contrappesi». Crearono contrappesi di ogni tipo (due camere con uguali poteri, un primo ministro senza reale possibilità di controllare i ministri, eccetera). Ma «si dimenticarono» di fabbricare i pesi. Nonostante la stabilità politica di fondo dovuta alla presenza di un partito dominante, reso inamovibile dalla Guerra fredda, nel periodo 1948- 1993, l’Italia soffrì di continua instabilità governativa, governi deboli e (salvo qualche eccezione) di brevissima durata. Non fu un caso. Era l’inevitabile conseguenza di quel particolare assetto istituzionale.
Secondo: quando trenta anni fa, soprattutto a causa della fine della Guerra fredda, le circostanze favorirono un cambiamento in senso maggioritario della legge elettorale, i fautori di quella riforma (fra i quali c’era anche chi scrive) non pensavano che ciò sarebbe bastato a fare dell’Italia un’autentica democrazia governante (nella quale il governo di legislatura è la regola mentre la sostituzione di un governo all’altro senza elezioni, pur sempre possibile, è l’eccezione). Pensavamo (speravamo) che quella riforma fosse solo il primo passo: l’obiettivo era cambiare la Costituzione, trasformare il regime assembleare, voluto dai costituenti per loro rispettabilissime ragioni, in una democrazia governante, per l’appunto. Sono stati tanti gli sforzi inutili. Occorre prendere atto che quel tentativo è definitivamente fallito. Il risultato del referendum costituzionale del 2016 (la schiacciante vittoria del conservatorismo costituzionale) ha posto la pietra tombale sulla possibilità di cambiare la Costituzione. Se ne riparlerà, forse, fra venti o trenta anni. Ma ciò significa anche che quale che sia la legge elettorale in vigore l’instabilità governativa cronica non potrà essere eliminata.
Terzo: ridimensionate le aspettative rispetto alla legge elettorale, data la particolare condizione italiana, si può solo dire quanto segue. Ci sono inconvenienti più o meno gravi, anche se fra loro diversi, sia con il sistema maggioritario sia con il proporzionale. Il maggioritario favorisce una competizione elettorale bipolare, ossia fra due coalizioni. Ma, come l’esperienza italiana insegna, è improbabile che chi esce vincitore dalle urne possa governare per un’intera legislatura. Le coalizioni elettorali che si formano sono troppo eterogenee al loro interno per generare governi stabili. E il contesto istituzionale in cui opererà il governo è fatto per esaltare le divisioni entro le maggioranze, per alimentare instabilità. Il vero vantaggio è comunque che, in un gioco bipolare, normalmente, gli elettori premiano le componenti meno estremiste delle due coalizioni. I cui leader, tuttavia, devono subire il ricatto dei gruppi minori.
Se vige il sistema proporzionale gli inconvenienti sono di altro tipo. Da un lato, in regime di proporzionale, è necessario che si costituisca un «centro» abbastanza forte da dare un minimo di stabilità alla democrazia. Altrimenti essa finirà in balia degli estremisti di ogni colore arrivando presto a un punto di rottura. Dall’altro lato, un centro tendenzialmente inamovibile (sempre al governo, ora con la destra ora con la sinistra) non è fatto per garantire al Paese, quanto meno nel lungo periodo, un buon governo. In ogni caso, nulla può essere peggio del sistema elettorale (misto) oggi in vigore: ha i difetti sia del proporzionale sia del maggioritario e nessun pregio.
Chiudo con una notazione su un aspetto più contingente. La scissione di Renzi sembra avere creato, per il Pd e per Conte, una specie di Comma 22. Se verrà accelerata, in concomitanza con la prevista riduzione dei parlamentari, la riforma elettorale proporzionale, ciò darà immediatamente grande forza politica a Renzi come a chiunque voglia ricostituire il centro. D’altra parte, una riduzione dei parlamentari senza proporzionale favorirebbe Salvini (sovra- rappresenterebbe elettoralmente il partito più forte). Se, infine, il Pd e Conte fossero tentati di rinviare la riduzione dei parlamentari ciò aprirebbe un conflitto con i 5 Stelle che su quel provvedimento hanno investito molto della loro identità di movimento antiparlamentare. Un bel trilemma. Sarebbe anche uno spettacolo divertente. Se non riguardasse proprio noi. Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera 22 settembre 2019