Dopo la pandemia che stiamo vivendo nulla sarà più come prima. Dirà il futuro se questa che per il momento è solo una suggestione — ma sempre più incalzante e diffusa — sarà confermata dai fatti. Quel che è certo è che per il momento egualmente incalzante e diffusa si sta facendo strada un’altra convinzione: che molti nodi della nostra vita pubblica stanno venendo drammaticamente al pettine. Sta venendo al pettine innanzi tutto una questione generale di responsabilità. Non parlo della responsabilità legata all’obbligo di rispettare le restrizioni in atto limitatrici della nostra vita quotidiana. Parlo della, o meglio delle, responsabilità legate a una lunga catena di scelte fatte in passato e di cui oggi si vedono le conseguenze.
Le scelte più significative riguardano ovviamente la sanità. Sottoposto alla prova inappellabile di una possibile emergenza, una parte importante della Penisola, in pratica tutto il Sud (ma siamo sicuri che sia solo il Sud?), ha dovuto constatare di non avere un servizio sanitario in grado di reggere alle necessità quando queste diventano necessità serie (e non solo in questo caso molto probabilmente). Quella parte del Paese ha toccato con mano che in tali circostanze i suoi ospedali mancano delle attrezzature necessarie e nella quantità necessaria. Il che vuol dire una sola cosa: che in quella parte d’Italia le Regioni — il cui settore di competenza principale, non bisogna stancarsi di ricordarlo, è per l’appunto quello della sanità — hanno fatto in questo campo una cattiva prova, così come del resto risulta da mille indicatori. Vuol dire che per decenni, ad esempio, invece di occuparsi realmente e ai minimi costi di migliorare al massimo le condizioni dell’assistenza e degli ospedali, invece di cercare di assicurare ai pazienti tempi di attesa ragionevoli e cure all’altezza dei migliori standard, le classi di governo di quei territori hanno impiegato le risorse in altro modo. Magari nel settore della sanità, sì, ma troppo spesso per sperperarle, per mantenere aperte sedi inutili o per assumere personale superfluo. Ovvero hanno impiegato i soldi a loro disposizione in altri settori di gran lunga meno importanti, assistendo impassibili, nel frattempo, all’esodo di migliaia di loro concittadini che ogni giorno si mettevano in viaggio verso il Nord se volevano essere certi di ricevere le migliori cure per i propri malanni. Adesso, ma solamente adesso, forse ci si accorge in Puglia che era meglio comprare qualche respiratore in più per gli ospedali e dare qualche euro in meno ai festival della «pizzica», o in Basilicata che con le royalties del petrolio conveniva costruire qualche grande ed efficiente centro ospedaliero piuttosto che disseminare la regione di piscine e palazzetti dello sport. Così come forse adesso ci si accorgerà, in Sicilia, che sarebbe stato meglio coprire i deputati e gli alti funzionari della regione con un po’ di soldi in meno ma cercare di assicurare la sopravvivenza di qualche siciliano in più.
Sarebbe sbagliato però credere che ogni responsabilità ricada esclusivamente sui governanti. Ha pesato, eccome, anche la responsabilità di chi li ha eletti. Così come sarebbe sbagliato credere che il discorso valga solo per il Mezzogiorno. Vale per tutto il Paese, per tutti gli italiani.
Oggi le carceri esplodono e la miccia è ancora una volta quel sovraffollamento spaventoso che dura da decenni. Ma quanti se ne sono mai dati pensiero? Quali forze politiche hanno mai dedicato due righe dei loro interminabili programmi alla costruzione di nuove carceri o all’ammodernamento di quelle esistenti? Non è certo un caso isolato. Almeno metà dei nostri edifici scolastici, ad esempio, si regge in piedi per miracolo; egualmente tutto quello che riguarda la ricerca (laboratori, personale, fondi) è in perenne stato di agonia, strangolato dalle ristrettezze (e oggi ci accorgiamo dell’importanza che un tale settore riveste); così come la rete stradale affidata all’Anas è a pezzi a causa di un’ormai congenita mancanza di fondi. Ma chi ha mai sentito qualcuno porsi seriamente questi problemi impegnandosi per porvi rimedio?
La verità è che nessun partito, nessun leader — e diciamo la verità neppure la gran parte dell’informazione — si è mai fatto carico di pensare a queste cose, di agitarne la questione, di battersi fino in fondo per un adeguato stanziamento di fondi. Al massimo un inciso di poche parole in un discorso, qualche articolo all’anno, poi tutto è sempre finito lì. Nessuno ha fatto nulla. Ma per un’ottima ragione: perché consapevole che si trattava di cose di cui a nessuno realmente importava nulla. E in una democrazia, si sa, a meno che non vi siano personalità autentiche di statisti, la politica e tutto quanto le ruota intorno, stampa compresa, segue sempre più o meno pedissequamente la volontà del pubblico, la quale poi, alla fine, è la volontà degli elettori.
La verità che è che agli italiani più che la possibilità di contare su reti di servizi efficienti, su prestazioni dagli standard adeguati, in tempi rapidi e in sedi attrezzate e accoglienti, più di questo è sempre importato avere dallo Stato un’altra cosa: soldi. Soldi direttamente dalle casse pubbliche alle proprie tasche. Aumenti di stipendio, pensioni di invalidità fasulle, baby pensioni, cassa integrazione, regalini di 80 euro, reddito di cittadinanza, sussidi e agevolazioni più varie alle imprese: sotto denominazioni le più diverse purché si trattasse di soldi da spendere come a ognuno faceva comodo. In omaggio a un welfare modellato fin dall’inizio su erogazioni dirette ai singoli. Anche perché spesso proprio il tipo di procedure per concedere tali erogazioni (vedi pensioni d’invalidità) ha consentito alla politica, ai singoli politici, di servirsene per acquisire il consenso dei beneficati.
Ma è per l’appunto in questo modo che un Paese si consuma, che le sue strutture civili vengono progressivamente meno. È per l’appunto in questo modo, per il tipo di spesa pubblica consapevolmente prescelta per tanti anni dai suoi cittadini che l’Italia ha visto non rinnovarsi e non accrescersi, consumarsi e spesso decadere, un vasto patrimonio di beni pubblici. In particolare — guardando all’oggi — l’insieme di quegli ospedali, posti letto, autoambulanze, respiratori, medici, infermieri, che oggi ci farebbero tanto comodo. L’Italia si ritrova malmessa, noi ci ritroviamo oggi malmessi, per responsabilità innanzi tutto di noi stessi. Abbiamo voluto noi, con le nostre scelte, che arrivato il momento critico ci ritrovassimo a mal partito. Quando tutto sarà finito verrà il tempo degli esami di coscienza e bisognerà ricordarsene. Ernesto Galli della Logia, Il Corriere della Sera 16 marzo 2020