La notizia non è tanto che il Pd e i Cinque Stelle abbiano deciso di ritirare alcune delle querele che si erano scambiati. La notizia, nel frattempo rimossa, è che nel solo luglio 2019 il solo Partito democratico avesse presentato contro i Cinque Stelle ventitré querele (sul caso Bibbiano). Il mese dopo avrebbero fatto un governo insieme.

Ora la svolta del voto dei militanti grillini, con il via libera alle alleanze, non ricade soltanto su di loro. Riguarda anche il Pd. E rende lecito chiedersi che cosa diventerà il partito del riformismo italiano, o cosa ne resterà, dopo l’alleanza organica con un movimento che sino a un anno fa era condannato come populista e antieuropeo.

Storicamente, Grillo nasce contro i vecchi partiti, e in particolare contro il Pd: dall’esordio in piazza Maggiore a Bologna alla sera del 22 febbraio 2013 in piazza San Giovanni a Roma, dove — in quello che resta l’ultimo grande comizio della politica italiana — additò nel Partito democratico il vero nemico, il simbolo del sistema da abbattere. Seguirono l’umiliazione di Bersani in streaming, lo scontro durissimo con Renzi e sei anni di polemiche ininterrotte su ogni cosa, vaccini e Tav, scuola e precari, financo sull’autenticità dell’allunaggio e sull’esistenza delle sirene, quelle di Ulisse.

Nell’agosto scorso tutto è cambiato. Il clamoroso errore di Salvini, il voltafaccia di Renzi e la pertinace resistenza dei parlamentari.

Questi tre fattori hanno prodotto in pochi giorni una svolta che avrebbe richiesto mesi di dialogo, come quelli che in Germania avevano partorito la Grande Coalizione tra la Merkel e i socialdemocratici; che è in realtà un centrosinistra, saldamente guidato dal centro.

Chi comandi nell’inedito centrosinistra italiano non è altrettanto chiaro. Il Pd ha già cambiato idea su molte cose. La leadership di Conte. La gestione di Autostrade. Il taglio del numero dei parlamentari; che non è sbagliato, ma non risolve molto senza una riforma che garantisca la rappresentanza, legando gli eletti agli elettori e ai territori.

Ora è legittimo chiedersi, e chiedere al Pd, se cambierà idea anche sul resto. Il reddito di cittadinanza. Le grandi opere. Il grado di flessibilità del lavoro. Il ruolo dello Stato nell’economia. La riforma fiscale. Per fare un solo esempio: il partito del riformismo italiano ritiene giusto che ci siano imprese e contribuenti che versano all’erario oltre la metà di quello che incassano (mentre i veri ricchi si rifugiano nei paradisi fiscali)? E i padroni della Rete potranno continuare a rubare contenuti prodotti da altri e sottrarre il grosso dei proventi al Fisco?

Tenere la destra all’opposizione resta la priorità e il motore dell’alleanza. Comprensibile. Ma insufficiente. Alleati sì, però per fare cosa? La coalizione Pd-Cinque Stelle è cementata da altre due formidabili forze. La ferrea determinazione a concludere la legislatura da parte di centinaia di parlamentari destinati a non essere rieletti. E la ghiotta opportunità di spendere una quantità di risorse in arrivo dall’Europa mai vista prima. Ma durare e spendere non sono un programma politico.

Il Partito democratico nacque con un metodo: le primarie. Che però sono servite soprattutto a rafforzare un leader già scelto, da Prodi a Veltroni. Soltanto una volta la sinistra italiana ha discusso e deciso sul proprio programma e sulla propria identità: alle primarie di coalizione del 2012, che videro contrapporsi Bersani e Renzi. Oggi né Bersani né Renzi fanno parte del Pd. E fa impressione sentire autorevoli esponenti dichiarare che, senza scissioni (compresa quella di Calenda), oggi il Pd sarebbe il primo partito; un po’ come dire che, se avesse vinto a Waterloo, Napoleone sarebbe rientrato trionfalmente a Parigi anziché partire mestamente per Sant’Elena.

Il Partito democratico nacque anche con due ambizioni, una dichiarata e una sottaciuta. Quella dichiarata era unire i riformisti italiani in una forza a vocazione maggioritaria, in grado di governare da sola. Quella sottaciuta era creare un partito di sistema (qualcuno arrivò a parlare di «partito della nazione»). Il partito che — in un Paese di anomalie: alto debito pubblico, bassa crescita, e una destra molto forte ma vista dall’estero come un po’ sgangherata, tra berlusconiani, leghisti e postfascisti — parlasse con l’Europa, fosse considerato un interlocutore affidabile dalle istituzioni e dalla finanza internazionali. Anche con questa logica, in nome di questo schema, il Pd è tornato al governo un solo anno dopo la disastrosa sconfitta delle elezioni del 2018. Ma nessun partito può prescindere dal consenso. Dai risultati dell’azione di governo, a cominciare da sviluppo e posti di lavoro. In una parola, dalla realtà. Aldo Cazzullo, Il Corriere della Sera, 17 agosto 2020