Da un lato la richiesta del Pd ai 5 Stelle di un’alleanza elettorale che in qualche modo confermi quella di governo e addirittura la prospetta come un dato permanente anche in futuro. Dall’altro il ripudio dei 5 Stelle di parti essenziali della propria identità originaria anche al fine di aderire a tale richiesta. Entrambe queste circostanze hanno un significato che va al di là della pur importante cronaca politica. È difficile non considerarle, infatti, come la sanzione di un dato ormai consolidato del nostro sistema politico: e cioè che tale sistema — una volta messasi alle spalle venticinque anni fa l’età dei partiti storici della Repubblica — sembra ormai sopravvivere solo per adattamenti trasformistici successivi. Che però oggi configurano un vero e proprio salto qualitativo dando vita all’incontro di due trasformismi. Il trasformismo, insomma, si avvia a divenire il vero principio costitutivo del sistema politico italiano. Perfettamente simboleggiato, direi, da un Presidente del Consiglio che solo poco più di due anni fa era uno sconosciuto privo di qualsiasi appartenenza politica, il quale ancora oggi appare fiero di non averne nessuna, ma che ciò nonostante in un biennio ha presieduto due governi successivi formati da due maggioranze diverse e opposte. Non solo un caso abbastanza unico nella storia delle democrazie occidentali ma, verrebbe da dire, quasi la forma più alta e compiuta di trasformismo politico che si possa immaginare. Cioè la non appartenenza ad alcun partito e ad alcuno schieramento come premessa per rappresentarli indistintamente tutti, il vuoto politico come anticamera di qualunque politica.

Il fatto nuovo è che questa volta della deriva trasformistica italiana appare protagonista a pieno titolo il Partito democratico. Ora il Pd non è un partito qualsiasi. Con gli anni, infatti, e per ragioni molteplici, esso è diventato il vero partito della Costituzione della Repubblica, per certi versi il «partito dello Stato»: punto di raccolta dell’intero ceto burocratico dirigente e dell’élite del Paese, nonché titolare di un decisivo potere di legittimazione: all’incirca qualcosa di simile al ruolo che ebbero i liberali nei decenni dopo l’Unità. Prova ne sia che in tutto questo tempo qualunque personalità, partito o schieramento abbia provato a governare contro il Pd ha sempre rischiato di essere messo sotto accusa in vari modi come un partito o uno schieramento a vario titolo fuori o contro la Costituzione se non potenzialmente eversivo. Per tale comoda rendita di posizione il Pd ha tuttavia pagato e paga un prezzo: un ovvio e crescente disinteresse per l’elaborazione di una chiara piattaforma programmatica sua propria, e una strisciante disponibilità ad assorbire punti programmatici altrui. Non diversamente, ancora una volta, da quanto accadde ai liberali storici tra ’800 e ’900.

Sta di fatto che con le sua ultime decisioni il Partito democratico ha di fatto stabilito: a) di rinviare a data da destinarsi quell’idea di «rifondazione della sinistra» di cui se ben ricordo aveva fatto il proprio orizzonte nel convegno di San Pastore solo nel gennaio di quest’anno; b) di rinunciare clamorosamente alla «vocazione maggioritaria» che pure era un elemento essenziale del suo stesso atto di nascita per puntare viceversa su una strategia di alleanza organica con un’altra formazione; c) e di scegliere come partner di un’alleanza elettorale che si annuncia strategica (dunque molto più significativa di un alleanza di governo) proprio il partito che fino all’altro ieri considerava l’alfiere del populismo e quindi, insieme alle destra salviniana, il proprio maggior nemico. Giungendo al punto, per fare un solo esempio, che oggi esso ne sposa di fatto la riforma costituzionale, oggetto di un prossimo referendum, che ha ridotto il numero dei deputati. Proposta la quale, non accompagnata da alcuna ulteriore modifica del testo della Carta, apre la via a radicali mutamenti nel meccanismo dei quorum necessari ad eleggere alcuni organi di vertice della Repubblica.

Quanto al vero e proprio gorgo trasformistico che sta inghiottendo l’identità dei 5 Stelle — presentato pudicamente dai suoi dirigenti come «un’evoluzione» — sembra inutile spenderci sopra troppe parole. Se non per notare come questa presunta «evoluzione» sia la prova di almeno tre cose forse non ancora chiare a molti: a) dell’assoluta necessità che per fare politica si sia in possesso di qualche non indegna scolarizzazione, di qualche lettura e di qualche idea non presa in prestito dagli album di Topolino; b) dell’alta problematicità che la società italiana lasciata a se stessa e libera di esprimersi riesca a selezionare una classe politica presentabile e all’altezza del proprio compito; c) infine dell’ardua compatibilità del nostro sistema politico con l’immissione di nuovi attori decisi realmente a fare cose nuove e a comportarsi in modo nuovo (ammesso che tali fossero i grillini) . Un impegno in Italia sempre difficilissimo stante la rete soffocante di passaggi formali e informali, di condizionamenti istituzionali e non, di regole scritte e non scritte, che avvolge la nostra intera vita pubblica. E al quale quindi i 5 Stelle hanno prudentemente preferito rinunciare senza pensarci troppo. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera del 19.08.2020