Si sta aprendo un divario troppo grande tra l’angoscia del Paese reale e il frastuono del Paese legale. Tra la paura di tanti italiani e la risposta del decisore politico. Così non fu in primavera. Allora ci sentimmo tutti sulla stessa barca, colti all’improvviso e a sorpresa da un uragano. Stavolta abbiamo visto arrivare la tempesta da lontano, per mesi, e ci siamo lo stesso finiti dentro. Questo ha scosso la fiducia del Paese in se stesso. E il potere politico, che di fronte alla prima ondata ci apparve come un utile protettore, e per questo gli perdonammo molti errori, oggi sembra aver ripreso invece i suoi antichi panni di egocentrico affabulatore.

La nostra angoscia è colpa del virus. La seconda volta colpisce con perfidia perfino maggiore, perché pensavamo di aver passato il peggio, e invece il peggio sta tornando. E non è così solo in Italia: lo Stato moderno, lo Stato del welfare, pur con tutta la sua enorme potenza di fuoco, arranca ovunque, forse con l’unica eccezione della solita Germania. Per giunta: in primavera il fronte interno era concentrato in quattro regioni, tra l’altro le più dotate in quanto a risorse e mezzi della sanità pubblica. Oggi il nemico è ovunque, dal Sud al Nord. Infine: l’epidemia ci ha giocato il brutto scherzo di farci partire al secondo giro per ultimi, dandoci l’illusione ottica che avremmo potuto scansare ciò che stava accadendo in Francia o in Belgio, e invece eravamo solo in ritardo. L’effetto è stato esiziale: abbiamo abbassato la guardia, anzi la mascherina, troppo presto.

Ma se il contagio è la variabile indipendente e speriamo non impazzita di questa tragedia, l’azione degli uomini potrebbe e anzi dovrebbe mitigarne gli effetti. Bisogna dire che non ci stiamo riuscendo. Anzi, con il passare dei giorni si alza un frastuono di cifre e polemiche che disorienta il Paese reale e forse lo allarma anche di più, perché introduce dubbi sulla capacità del pilota di garantirci un atterraggio morbido. Lungi da me voler stabilire chi ha ragione nella «querelle» dei posti in terapia intensiva. C’è chi dice (Conte) che li abbiamo raddoppiati e chi dice (Arcuri) che sono passati da 5.179 a 6.628, perché le Regioni non hanno usato 1.600 ventilatori polmonari a loro forniti (in Germania oggi ci sono 40 mila letti, di cui 30 mila con un respiratore). Ma lasciamo un attimo da parte l’anello finale della catena, che forse oggi è anche quello che regge di più. Ci sono altre falle ben più preoccupanti nella linea Maginot che doveva proteggerci dalla seconda ondata. La più grave delle quali è al capo opposto dell’emergenza, lì dove essa comincia: la medicina del territorio. Il sistema di tracciamento, per interrompere le linee di contagio, è praticamente saltato. Un po’ per i numeri eccezionali di positivi di cui bisogna cercare e testare i contatti stretti. Ma anche perché i tracciatori nelle Asl sono troppo pochi. La rete doveva essere potenziata del 30% ma così non è stato. Gli infermieri assunti vengono anzi ora dirottati inevitabilmente verso gli ospedali, e la prima linea si sguarnisce. Per capire la sproporzione tra risorse e bisogni basti questo dato. Abbiamo assunto 33 mila tra medici e infermieri, un grande sforzo, al costo di un miliardo e ottocento milioni l’anno. Ma la dotazione aggiuntiva prevista nel bilancio del prossimo anno per la sanità publica è di 4 miliardi, cioè poco più del doppio. E con ciò che resta dobbiamo comprare anche i vaccini, gli anticorpi monoclonali, i test rapidi… Ce la faremo?

Non sentiamo discutere di questo. Il governo e l’opposizione, tra di loro e al loro interno, non discutono di quanto ci serva per rifare una sanità depauperata (insieme alla scuola) da decenni di declino economico e di acqua alla gola nel bilancio pubblico. Si discute invece accanitamente del Mes, se sia o non sia il miglior strumento per ricavare le risorse necessarie. Se ne venisse indicato un altro alternativo, il dibattito accademico su tassi e condizionalità sarebbe anche interessante.

Il presidente del Consiglio ci ha ricordato in conferenza stampa che sempre di prestiti si tratterebbe, dunque da restituire prima o poi. Ha ragione. Sarebbe anzi bene che lo ricordasse agli italiani anche quando aumenta di 100 miliardi in un anno la spesa pubblica per sostenere l’economia in ginocchio, o quando prende 27,5 miliardi del fondo europeo Sure per la disoccupazione, e perfino quando prenderà quella parte dei fondi Recovery, 110 miliardi, che non sono a fondo perduto. Sono tutti prestiti, più o meno cari, ma tutti più o meno da restituire. Del resto, esiste un altro modo di uscirne? Il punto è come li usiamo e quanto ci mettiamo a spenderli.

Sarebbe bello se invece del frastuono si discutesse di questo. Gli italiani angosciati dal rischio di finire in un letto di ospedale non si chiedono da dove attingere le risorse, ma se ci saranno; per evitare, come già accade, di passare la notte in ambulanza in attesa che si liberi un posto.

Nel frastuono un ruolo lo gioca pure l’opposizione. Divisa tra la voglia di difendere le attività produttive da nuovi lockdown e la voglia di criticare però il governo se questi sceglie una linea soft; pronta a festeggiare l’addio di Conte al Mes mentre protesta per la mancanza di risorse negli ospedali e la lentezza dei tamponi; determinata al coprifuoco dove governa come in Lombardia, ma nemica delle misure più rigorose nelle piazze dove può fare agitazione. Per chiedere agli italiani, come si fa ormai ogni giorno, senso di responsabilità, bisogna anche mostrarne. Oggi è il Paese legale che deve qualcosa al Paese reale. Antonio Polito, Il Corrire della Sera 21/10/2020