«Quando un Paese è grande una volta — ha detto il presidente Conte — deve essere grande sempre». Non è chiaro se quel «deve» equivale a un pronostico o è invece una «raccomandazione», come le altre impropriamente inserite nel testo normativo del Dpcm. Se è una previsione, non pare però fondata su dati di fatto. Prima di tutto perché la storia è purtroppo piena di «seconde volte» andate peggio della prima: dalla seconda ondata di influenza «spagnola» alla Seconda guerra mondiale. Poi perché il pessimismo della ragione ci ricorda che se una cosa può andare male, se cioè non si è fatto tutto il possibile perché andasse bene, è probabile che andrà male. E infine perché il Paese è stanco di sentirsi chiamato a essere di nuovo «grande», visto che l’altra volta, in primavera, abbiamo pianto 35 mila morti, e tanto bene non ci era davvero andata. Del resto, fuor di retorica, è stato lo stesso capo del governo, nella stessa conferenza stampa, a dire che cosa provano davvero gli italiani in queste ore: «stanchezza, ansia, rabbia, frustrazione, sofferenza». Per ognuno di questi sentimenti c’è una ragione. Vorrei soffermarmi su «rabbia» e «frustrazione», perché sono due stati d’animo che chiamano in causa l’operato dei poteri pubblici.

La rabbia deriva dalla convinzione che gran parte di ciò che era stato promesso, garantito, programmato, non è stato fatto. Prendiamo i «tracciatori», la prima linea che ormai tutti dichiarano già travolta. Ce ne sono 9.241 in Italia (fonte Sole 24 Ore). Nessuno può essere stato colto alla sprovvista dalla necessità di averne di più. Eppure dopo più di tre mesi sono aumentati di appena 275 unità.

Nell’area metropolitana di Milano, tre milioni di abitanti, ci sono solo 25 medici delle Usca, le «unità speciali» che dovrebbero controllare i positivi nelle loro case invece di intasare gli ospedali: era stato previsto un fabbisogno di 130.

Anche senza studiare le statistiche (ne vengono del resto fornite troppo poche e troppo generiche) gli italiani hanno capito che non si è fatto abbastanza per «gestire» questa seconda ondata. Non danno certo a chi li governa la colpa della diffusione del virus, anzi spesso sembra accadere piuttosto il contrario; ma si rendono conto se devono fare un tampone, se hanno un malato in casa, se sono in auto di notte davanti all’ospedale con un familiare in crisi respiratoria che muore in attesa di un letto (è successo ad Avezzano), che si doveva fare di più e meglio.

Poi c’è la «frustrazione», per tornare all’elenco del presidente Conte. Questo stato d’animo ha almeno due ragioni. La prima è la perdita di reddito che sta subendo una parte importante dell’economia italiana specialmente urbana, quella dei servizi di prossimità, dei ristoranti, dei bar, delle palestre. A differenza del lockdown di primavera, e anzi proprio nel lodevole intento di evitarlo, stavolta il governo ha dovuto scegliere che cosa chiudere e che cosa lasciare aperto. Era dunque forse inevitabile che le «vittime» avvertissero di subire una «ingiustizia». Anche perché si tratta spesso di aziende familiari che, oltre alle spese fisse, avevano investito nella sicurezza, acquistando sistemi di sanificazione, riordinando gli spazi, allestendo dehors, per ottemperare ai protocolli emanati dal governo. Questo malessere anima la maggior parte delle proteste e rischia di determinare la più pericolosa delle fratture: tra i garantiti e i non garantiti, tra chi ha il «buono pasto» e chi no. Bisogna porvi rimedio il più urgentemente possibile, e non con la pachidermica lentezza burocratica di primavera.

Ma la «frustrazione» ha un’origine forse anche più profonda: e cioè il dubbio che questi sacrifici siano quelli giusti e servano davvero. Siamo infatti al terzo Dpcm in pochi giorni. E dunque — come ha notato Vitalba Azzollini sul Domani — noi non possiamo sapere se le misure precedenti abbiano funzionato, semplicemente perché non è passato abbastanza tempo per verificarlo. Di quanto ha ridotto la circolazione del virus la chiusura dei ristoranti alle 23? Non lo sappiamo. Dunque non sappiamo neanche che effetti produrrà la chiusura alle 18. È lecito pensare che in realtà si tratti solo di una marcia di avvicinamento alla chiusura totale?

Le palestre sono forse un potenziale focolaio di infezione, anche se finora non ne sono tanti segnalati di rilevanti (un vagone di metropolitana affollato lo è sicuramente di più). Ma se sono pericolose, perché non sono state chiuse una settimana fa, quando invece si decise di lasciarle aperte?

Queste contraddizioni, e l’accavallarsi di decisioni e annunci tra Governo e Regioni, ci stanno facendo perdere fiducia nella capacità del guidatore di tenere la strada. Che poi non è uno solo, ma un’affollata assemblea di ministri, capi delegazione, governatori, membri del comitato tecnico-scientifico.

Il malessere, o la rabbia, o la frustrazione, hanno dunque una loro ragion d’essere. Il ricorso all’agitazione e alla violenza di gruppi organizzati con una loro agenda criminale o politica (a proposito, perché teatri e cinema chiudono e i centri sociali restano aperti?) era anch’esso prevedibile. E, come il virus, merita di essere combattuto con la forza dello Stato, che deve saper proteggere i cittadini, anche quelli che protestano, dai mestatori di torbidi, piaga antica che ha spesso infettato la nazione dal 1919 a oggi. Tanto più lo Stato lo potrà fare se saprà distinguere tra la sedizione di piazza, alla quale deve dare una risposta di ordine pubblico, e il malessere giustificato, al quale deve dare una risposta politica e sociale.

L’argomento che le cose non vanno meglio in altri Paesi europei (anche se in qualcuno sì), non può infatti bastare a renderci più sereni. L’Italia sa stringersi intorno alle sue istituzioni, ma pretende di più. Il nostro, ha ragione il presidente Conte, è un grande Paese. Merita di essere trattato come tale. Antonio POLITO, Il Corriere della Sera, 27 ottobre 2020