Archivio per la categoria ‘Costume’
PAGARE TUTTI MA SENZA TAGLI E’ INUTILE, di Davide Giacalone
Pubblicato il 29 febbraio, 2012 in Costume, Il territorio, Politica | No Comments »
L’onestà non è un optional, essere leali nelle dichiarazioni al fisco è un dovere. Ma lo è anche non raccontare favole ai cittadini, ed è in questa categoria che rientra l’idea che pagando tutti si pagherebbe meno. Fin qui si è dimostrato l’esatto contrario: più cresce la spesa più cresce la necessità di gettito, quindi di entrate, più cresce la pressione fiscale. In una perversa corsa al rialzo che ci rende tutti più poveri e rende la società nella quale viviamo non più equa, ma più ingiusta.
Ieri la favola ha trovato un narratore di prima grandezza, il presidente del Consiglio, il quale ha detto: «Se ognuno dichiara il dovuto il fisco potrà essere più leggero per tutti». Perché ciò sia vero non necessita un lieto fine, ma una lieta premessa: il taglio della spesa pubblica. Se non si turano le falle della spesa corrente non è che versando ciascuno il dovuto si potrà tutti versare meno, è che si butteranno liquidi vitali in un secchio senza fondo. Sono due le premesse dell’equità fiscale: una spesa che restituisca servizi, senza alimentare sprechi, e una pressione che non sottragga a ciascuno più del ragionevole. Da noi mancano entrambe. La pressione s’esercita solo su chi non può sfuggirla o si assoggetta per onestà e senso civico, il che non è giusto. Ma non è giusto neanche far credere che il problema consista solo nel costringere gli altri, non è giusto puntare sull’invidia e la rabbia sociale. È vero: i cittadini devono imparare l’onestà, tutti. Ma è anche vero che la macchina pubblica deve dimagrire in modo massiccio, altrimenti il risultato sarà solo più povertà.
Lo Stato, inoltre, è disonesto con i propri cittadini. È disonesto quando pretende subito e restituisce dopo anni quel che non gli era dovuto. Quando chiede soldi a chi chiede giustizia, quando prima pignora e poi ti mette a disposizione un giudice. Quando consegna a dei funzionari un potere insindacabile, se non dopo avere pagato. La distanza che c’è fra il pagare il non dovuto e il riavere, fra il diritto alla proprietà e il suo assoggettamento al burocrate, è la distanza che separa lo Stato di diritto dal dispotismo, il cittadino dal suddito. Tutto questo non giustifica l’evasione fiscale, per niente. Ma occorre dire che paghiamo troppo, il che favorisce la recessione. C’è un grande debito pubblico, ma pensare di colmarlo con le tasse è follia. Si deve aggredirlo con le dismissioni, rendendo lo Stato meno presente nel mercato e più forte nel far rispettare le regole. Un tempo c’era chi diceva: lavorare meno per lavorare tutti. Idea frutto d’etilismo ideologico, priva di senso del mercato e anche di buon senso. Dire che pagando tutti si pagherà meno non è meno dissennato, anche se la bottiglia, in questo caso, contiene non alcool ideologico, ma moralistico. Pagare tutti è giusto. Pagare tutto quel che oggi lo Stato chiede no, non lo è. Davide Giacalone, Il Tempo, 29 febbraio 2012
…………Chissà se il funereo presidente del consiglio in carica, Monti, troverà iltempo di leggere questo editoriale de Il Tempo, a firma di Davide Giacalone o se qualcuno dei suoi super pagati attendenti glielo metterà nella rassegna stampa che ogni mattina gli viene messa sotto gli occhi. Ci auguriamo di si, cosicchè eviterà di dire l’ennesima fregnaccia, come le altre di cui ci inonda da tre mesi a questa aprte, per cui saremmo passsati dall’orlo del baratro di tre mesi fa ad una improvvisa primavera economica, o come quella così drasticamente censurata da Giacalone, ossia che pagando tutti le tasse pagheremo tutti meno. Non è il caso di ribadire ciò che con estrema chiarezza scrive Giacalone al riguardo, nè è il caso dio sottolineare che a nessuno, proprio a nessuno, nemmeno a Monti è concesso di prendere per il naso la gente. Per ridurre la presisone fiscale, o per avere la concreta possibilità di farlo, bisogna ridurre le spese elefantiache dello stato, in tutte le sue articolazioni, ma bisogna farlo sul serio non come ha mostrato di fare anche Monti in questi tre mesi, nonostante egli non abbia sul collo (almeno così dice lui) lo spettro del giudizio elettorale, cioè con provvedimenti che neppure minimamente hanno intaccato la spesa statale, unica strada per consentire la riduzione della ormai insostenibile pressione fiscale, che si traduce, non dovremmo dirlo noi a Monti che passa per essere un illuminato economista, in blocco dei consumi, blocco della crescita e quindi recessione economica. Di esempi ne potremmo fare a iosa. Ci limitiamo a due. Apparentemente insignificanti, ma emblematici del fatto che gli annunci e le promesse di Monti sono per quanto riguarda gli annunci solo propaganda, e per quanto riguarda le promesse uguali a quelle del lupo. Vediamo. 1. Nonostante sia stato alla fine confermato che il rilascio delle nuove licenze di taxi è competenza delle Regioni e dei Comuni, si è stabilito che gli stessi, per le nuove licenze, debbono “acquisire il parere obbligatorio ma non vincolante dell’Autorità per i trasporti”, nuova di zecca che costerà alla stato dai due ai tre milioni di euro l’anno, solo per fornire “pareri obbligatori ma non vincolanti”: non c’è chi non constati la ridicolaggine di tale disposizione, alla luce della riconfermata competenza di regioni e di comuni sulla materia, acclarato che nessuna autorità centrale possa sostiuirsi alle autonomie locali su questioni che hanno diretta correlazione con il territorio. Ebbene nonostante la ridicolaggine di cui si copre il governo con questo “compromesso” sulla vicenda delle licenze dei tassisti, l’Autorità per i trasporti, che non servirà a nulla, la si fa ugualmente. Perchè? Delle due l’una: o Monti, pur di non fare completamente brutta figura, insedia comunque , ovviamente a spese dello Stato, questo nuovo carrozzone, oppure Mont, i o chi per lui, ha già pronto chi dovrà sedere sulla nuova poltroncina con conseguente congruo appannaggio. Comuque sia, zuppa o pan bagnato, resta il fatto che a pagare sarà lo Stato, cioè i contribuenti, quelli onesti, per vocazione o per costrizione, sulle cui spalle peserà il costo della nuova e inutile Autorità. 2. Nei giorni scorsi una nuova polemica sui costi della politica ha infiammato i mass media. Questa volta i riflettori sono stati accesi sui vitalizi cui hanno diritto gli ex presidenti del Senato che continuano a fruire di uffici, personale, auto blu, etc nonostante siano cessati dalla carica. E qualche ex presidente del senato i dipendenti pagati dallo Stato se li porta pure a Milano, a casa sua. E’ di ieri, però, la notizia che, a seguito della polemica e per ridurre i costi, il Senato ha deciso di ridurre questi vitalizi. Sapete come? Gli ex presidenti del Senato ne avranno diritto “solo” per due legislature successive alla cessazione dell’incarico. Anche qui il ridicolo la fa da padrone. In nessun Paese al mondo chi cessa da qualsiasi carica conserva vitalizi che sono legati all’incarico ricoperto. In Italia sinora gli ex presidentio del Senato ne avevano diritto a vita, da ora in poi,bontà loro, “solo” per dieci anni! g.
AL CORRIERE DEL GIORNO (di Taranto) IL PREMIO PER IL MIGLIOR TITOLO DELL’ANNO, di Franco Bechis
Pubblicato il 27 febbraio, 2012 in Costume | No Comments »
Accade a tutti prima o poi, pero Il Corrriere del Giorno, quotidiano di Puglia, nella sua edizione di ieri ha sfoderato un titolo formidabile, che passa in testa alla classifica e sicuramente conquista il premio del migliore titolo dell’anno. Altro non si può dire di “Porti cambia la strategia, buone scians per Taranto”. Una grande operazione dinazionalizzazione degli anglismi e francesismi imperanti nel linguaggio parlato e scritto che non è più italiano… E comunque un titolo da mettere in bacheca a fianco di quelle altre grandi prove fornite dalla stampa locale in Italia. Come quella ormai celebre della Provincia Pavese: “In 500 contro un albero: tutti morti”, o l’arcinoto titolo della Gazzetta dello Sport sull’attaccante dell’Ascoli, Stefano Pompini che in una partita segnò quattro goal: “Pompini a raffica!”. Ci fu anche il Corriere del Mezzogiorno nel 1997 ad aprire la cronaca nera con un titolo così: “TROMBA MARINA PER UN QUARTO D’ORA”. L’anno dopo Il Giornale di Sicilia si prese il premio che ora tocca al Corriere del Giorno con un meraviglioso “Si è spento l’uomo che si è dato fuoco”. E’ capitato anche a me, quando dirigevo Il Tempo. Una volta uscii con un titolo che nessuno osò correggere: “Prodi pazzo per la patatina”. Si trattava di vicende dell’alimentare italiano, ma patatina a Roma vuole dire altro e io non sono romano. Figuraccia. Il secondo scivolone almeno non fu in un titolo. Ma in un’intervista a Maurizio Gasparri sull’ultimo caso Rai: la celebre Monica Lewinsky invitata a Domenica In per un’intervista che non fece. Lei arrivò, ci furono polemiche e in diretta si alzò subito senza rispondere, scappando dalla trasmissione. Ricordo che era l’ultimo articolo che restava da scrivere e tutti noi della direzione stavamo intorno alla giornalista che stava facendo ritardare così la stampa del giornale. Il pressing fece il pasticcio. La prima domanda a Gasparri era “Cosa ne pensa della fuga della Lewinsky?”. Ma non fu scritta così. Perchè nella fretta in “fuga” non fu digitata la “u”, ma la “i” che è a fianco nella tastiera. E così uscì sul giornale. Nessuno di noi corresse e se ne accorse. Lo capii alle sette del mattino dopo, quando squillò il telefonino. Era Gasparri: “Senti, io alla domanda della tua giornalista ieri ho risposto che non sapevo, visto che non sono uno psicologo. Ora leggo la domanda sul giornale. Avessi saputo, avrei cambiato risposta: non so, non sono un ginecologo…” FRANCO BECHIS, LIBERO, 27 febbraio 2012
……………..Tra tante notizie che ci intristiscono, ecco un “pezzo” pubblicato sul blog del vicedirettore di Liobero, Franco Bechis, ottima penna e straordinario giornalista- segugio (sue le più micidiali inchieste di Libero) che ci fa sorridere e di questi tempi non è poco. g.
LA BARZELLETTA DELLA TERZA REPUBBLICA
Pubblicato il 23 febbraio, 2012 in Costume, Politica | No Comments »
Ci sono un post radicale, un ex missino e un sempiterno democristiano. Sembra una barzelletta, solo che non fa ridere essendo invece il progetto politico che, con severa serietà, sta mettendo (ha già messo) in ambasce tutto l’arco costituzionale. Tutti ad aspettare la Nuova Era della Terza Repubblica per poi scoprire che era Terza solo perché Terzo era il Polo che l’avrebbe fondata. E allora eccola qui, la barzelletta. Ci sono un ex radicale che dice cose da Radicale. Un ex democristiano che fa di tutto per morire democristiano. Un ex missino che cerca la risurrezione dalle ceneri del Fli. Mica vanno d’accordo. Rutelli dice cose sulla cittadinanza agli immigrati che pare un Fini d’altri tempi, e fa infuriare Casini. Casini soffre di manie di protagonismo e fa soffrire Fini, che ne soffre appunto il protagonismo. Fini soffre pure di percentuali elettorali prossime allo zero virgola e fa sdegnare Casini, che lo considera ormai una palla al piede. Tutti poi si guardano in cagnesco su chi debba essere la Guida di questa moderata macchina da guerra: Casini per dire tifa per Monti, ma Fini non vuol sapere nulla dei tecnici, nemmeno fosse la solita questione di Passera.
Eppure così vanno avanti, a palle (al piede) incatenate, luminosi guerrieri del Tempo Nuovo, il Terzo Tempo ovviamente. E a suon di terzi incomodi. Eh sì, perché poi ci sono quelli che bussano alla porta. Dal Pdl e dal Pd pare facciano la fila, ex Dc chiama post Dc. Per non parlare dei battitori liberi. L’ultimo è stato Gianfranco Miccichè, quello che prima faceva il dissidente del Pdl, poi ha smesso di dissentire e s’è fatto un partito che si chiama Grande Sud, che in verità un po’ dissente ancora, ma solo da Raffaele Lombardo dell’MpA. Il quale Lombardo dell’MpA comunque è lui pure lì affacciato alla finestra del Terzo polo, visto che a Palermo sostiene il candidato di Api, Fli e Udc Massimo Costa. Del resto, Micciché vuol sì fare una grande forza di moderati con tutti gli altri. Ma ha pure mire espansionistiche al Nord, per il quale Nord vuol candidarsi a essere l’unico interlocutore con il Sud, tirando dentro, sai mai, uno come Giancarlo Galan, con il quale, perché no, si potrebbe metter su una lista civica che al Sud si chiamasse Grande Sud e al Nord si chiamasse Grande Nord, facile in fondo. E laggiù al Nord, la lista Grande Nord potrebbe appoggiare uno che più Nord di così solo Umberto Bossi: il sindaco leghista di Verona Flavio Tosi.
Sembra un’altra Repubblica (e un’altra barzelletta): c’erano i morotei, i dorotei e i popolari… Hanno governato per un Cinquantennio. Con legge elettorale proporzionale, ça va sans dire. Ci stiamo lavorando. Paola Setti,dal blog l’insetticida, 23 febbraio 2012
.………..Non è una barzelletta, è la tragedia che si trasforma in farsa. g.
MONTI INVITA GLI ITALIANI A COMPRARE BTP E LUI NON LO FA
Pubblicato il 23 febbraio, 2012 in Costume, Politica | No Comments »
Il premier predica bene (“Avere fiducia in noi stessi”) e razzola male: ha puntato su mattone, azioni e obbligazioni. Paura del fallimento?

Non ci ha creduto nemmeno lui. Mario Monti aveva usato toni accorati e quasi drammatici il 22 dicembre scorso rivolgendosi agli italiani in un momento dei più delicati per lo spread: «Per superare la crisi dei debiti sovrani è essenziale che tutti guardino con fiducia ai nostri titoli: è essenziale che gli italiani sottoscrivano Bot e Btp le cui rendite oggi sono elevatissime. Occorre che abbiamo fiducia in noi stessi». Qualche italiano sentendolo sarà pure corso in banca gettando cuore e portafoglio oltre l’ostacolo. È capitato perfino a qualche ministro. Ma non è accaduto in casa Monti. Né il professore, né la moglie Elsa Antonioli hanno deciso dopo il drammatico appello del presidente del Consiglio di sottoscrivere un solo Bot.
L’amara constatazione arriva proprio dalle dichiarazioni patrimoniali rese pubbliche dai coniugi Monti alle ore 23 di mercoledì scorso, un’ora prima della scadenza dell’ultimatum che lo stesso premier aveva dato a tutti i protagonisti della compagine governativa. Fra le proprietà dirette di Monti e della signora non è indicato il possesso di un solo titolo di Stato italiano. È possibile naturalmente che Bot e Btp siano in portafoglio delle gestioni patrimoniali che il premier ha affidato a Intesa San Paolo (per 5,3 milioni di euro), a Bnp Paribas (per 4,6 milioni di euro) e a Deutsche Bank (per 1,3 milioni di euro a metà con la moglie) e che la signora Elsa ha affidato a Bnp Paribas (per 1,3 milioni di euro). Ma se titoli di Stato ci sono in quei portafogli, non è per scelta dei due primi coniugi di Italia. Entrambi infatti dichiarano in allegato alla presentazione dei propri patrimoni di possedere «fondi comuni, Etf (fondi indicizzati quotati come le Sicav, ndr), gestioni patrimoniali che investono anche in azioni, a totale discrezione del gestore e senza coinvolgimento del dichiarante». Quindi è una certezza che a casa Monti sia caduto nel vuoto l’appello del presidente del Consiglio del 22 dicembre scorso. E che quindi lui predica, ma non si ascolta.
O forse la situazione era davvero così a rischio, l’ipotesi di difficoltà di rimborso dei titoli di Stato italiani non così remota che Monti stesso non se l’è sentita di coinvolgere il patrimonio personale e il futuro dei suoi figli. Purtroppo la situazione non deve essere nemmeno cambiata troppo, perché Monti è stato protagonista di un secondo appello (questa volta rivolto alle banche e alle istituzioni finanziarie italiane) per l’acquisto di Bot e Btp in tempi assai più recenti: il 7 febbraio scorso. Ma nei giorni successivi non ha dato istruzioni di portafoglio in questo senso ai propri gestori patrimoniali, né ha deciso di impiegare in titoli di Stato italiani almeno una parte della liquidità presente sui conti correnti bancari. Per difendere i soldi di famiglia invece Monti sì è affidato al conto arancio degli olandesi di Ing (quello che offre il 4,20% di interessi), dove insieme alla moglie Elsa ha depositato 127 mila euro. Una somma meno consistente (19 mila euro) è invece presente su un altro conto corrente presso la sede centrale di Milano di Ubi Banco di Brescia: Monti ne è titolare al 50% , ma l’altra metà non è intestata alla moglie. Nella dichiarazione il socio bancario non è indicato, anche se è presumibile possa trattarsi di un figlio del premier.
Se il premier non sin fida di quello che dice agli italiani, nell’esecutivo c’è invece chi lo ha preso in parola. Come il ministro delle Politiche agricole Mario Catania che ha dichiarato di avere investito in titoli di Stato italiani tutti i suoi risparmi: 450 mila euro. O come Piero Gnudi, ministro del Turismo, che è più ricco, ma gran parte del suo patrimonio (1,2 milioni di euro), l’ha investito in Ctz italiani. E Paola Severino, altra ricchissima che però ha consegnato il suo oro alla Patria: 1,6 milioni di euro in Btp. Anche a palazzo Chigi qualcuno ci ha creduto: sia Antonio Malaschini (285 mila euro in Cct e Btp) che Paolo Peluffo (90 mila euro fra Btp e obbligazioni). Come loro hanno seguito il premier che non credeva a se stesso Lorenzo Ornaghi (145 mila euro in Btp), Ezio Moavero Milanesi (100 mila euro di Btp) e l’ammiraglio Giampaolo Di Paola (Bot e Btp per 150 mila euro). Peccato. Franco Bechis, Libero, 23 febbraio 2012
……………..Meno male che Bechis, giornalista investigatore di quelli di un tempo, che riesce a sconmvare verità scomode. Come questa che riguarda Monti e il suo falso orgoglio nazionale, buon per i gonzi, ma non per lui che i suoi soldi, tanti, tanti, tanti, non li ha investiti nei titoli di stato italiani ma in più sicure e affidabili casseforti capaci di tutelarlo in caso di default italiano. Ma questo, lo riconosciamo, è uno sport antico, in voga da sempre: fai come ti dico, non fare come faccio, anzi non faccio io come dico io. g.
ECCO CHI GIOCA CON LE MACCHINE DEL FANGO, di Vittorio Feltri
Pubblicato il 22 febbraio, 2012 in Costume | No Comments »
Anche i Fenomeni sbagliano e devono pagare o almeno rettificare, conciliare, chiedere scusa. Capita a (quasi) tutti di prendere un abbaglio. E così è capitato perfino a Roberto Saviano, celebrato autore di Gomorra , milioni di copie vendute e numerose apparizioni televisive, alfiere dell’antimafia.

Il quale, nel settembre del 2003, scrisse un articolo pubblicato dal settimanale Diario (poi defunto),intitolato«La Svizzera dei clan », in cui si raccontavano varie malefatte attribuite a criminali organizzati italiani, incluso un tale poi risultato estraneo ai fatti.
Lungi da noi l’intenzione di gettare la croce addosso al giovin scrittore. Siamo del mestiere e ne conosciamo le insidie, per cui non ci stupiamo che Saviano sia stato costretto a vergare una lettera ( ne abbiamo fotocopia) e a indirizzarla alla sua «vittima» allo scopo di chiudere amichevolmente la causa, ammettendo l’errore commesso. Il lavoro del giornalista ha tempi stretti, non concede molti margini alla riflessione e al controllo scientifico delle notizie e delle loro fonti. Cosicché è facile calpestare la classica buccia di banana e finire con le terga a terra.
Segnaliamo la topica di Saviano non per il piacere di condividere con lui le stesse disgrazie. Per carità. Non è vero che mal comune sia mezzo gaudio. Queste nostre note servono solo, o speriamo servano, a convincere il «camorrologo» più famoso della penisola che non basta il successo a garantire l’infallibilità. Si sa che le mafie con i loro tentacoli arrivano dappertutto, anche al Nord, anche all’estero, ma ciò non significa che si siano impadronite di ogni cervello e condizionino la vita ( e la malavita), specialmente economica, di popoli interi. E vedere picciotti e amici di picciotti in ogni angolo non porta a comprendere la realtà.
Ovvio. Le cosche, con attività illecite, fanno parecchi soldi e poi vanno a investirli dove maggiore è la resa.
Quindi non nel Mezzogiorno, ma al Nord. I capitali sono come capi di bestiame, sentono il richiamo del branco e lo raggiungono. E poiché non puzzano è impossibile distinguere quelli puliti da quelli sporchi. La Piovra ha il portafogli in Svizzera e in Lombardia, ma la testa rimane laggiù, nelle zone più sfortunate del Paese dove nessuno o pochi la contrastano.
Ma il senso del nostro discorso è un altro. Quando si tratta di certe materie, partendo dal pregiudizio che i delinquenti siano una folla, il rischio di confondere il grano con la pula è assai alto. Se ciò accade, si alimenta quella che Saviano e i suoi amici e sodali definiscono la macchina del fango.
La stessa macchina di cui loro attribuiscono a noi l’invenzione e la guida. No, caro Roberto, non abbiamo il monopolio del fango. Qualche schizzo è roba tua, nonostante tu vada spesso in tivù a dire il contrario.
Altro episodio meritevole di cenno. La Rai è stata condannata a pagare 5 milioni di euro (come minimo) alla Fiat perché, durante una puntata di Annozero , nel dicembre 2010, è andato in onda un servizio giudicato denigratorio in quanto diceva peste e corna di un’auto, l’Alfa Mito. L’autore,Corrado Formigli,ora conduttore di Piazza pulita (La7), dovrà rispondere in solido con l’emittente; ma supponiamo che nel suo contratto ci sia la cosiddetta manleva, cioè una clausola che impone all’azienda di assumersi la responsabilità civile. Il che peggiora le cose dal punto di vista del contribuente. Infatti, la Rai per saldare la pendenza utilizzerà per forza denaro dello Stato.
Ciò dimostra che abbiamo ragione noi quando sosteniamo che il servizio pubblico non possa tenere sotto la propria egida trasmissioni d’assalto, politicamente marcate, scandalistiche, ma debba imporre a chi le progetta, conduce e realizza il rispetto di criteri professionali improntati a moderazione e prudenza. Perché con i quattrini degli abbonati non si scherza. Non si può pretendere che le sbandate dei divi vadano a pesare sulle tasche dei cittadini.
Anche per Formigli vale il pistolotto fatto per Saviano: meno disinvoltura nel maneggiare la macchina del fango. Vittorio Feltri, Il Giornale, 22 febbraio 2012
I PARTITI FANNO SOLO DANNO E NON SERVONO PIU’, di Giuliano Ferrara
Pubblicato il 19 febbraio, 2012 in Costume, Politica | No Comments »
A che serve il Pdl? A niente. Anzi, fa danno. Il partito si è mangiato la leadership , ha condotto alla perdita della maggioranza alle Camere, è stato il luogo di risse indiscernibili, di rinvii e intralci all’azione del governo.

A che serve il Pd? Niente di niente, un simulacro di culture in fusione permanente e in atroce divisione sempiterna. È stato utile soltanto alla battaglia dei capi, è terreno per scorrerie, zona di allarmante inconciliabilità delle diverse e invadenti consorterie.
A che serve l’Udc o gli altri frammenti?Ora vogliono con gran pompa metter su un«partito della nazione», lanciare un’opa sul centrodestra, chissà con che mezzi di sfondamento, che intrugli e brodaglie parapolitiche. Fanno danno i partiti d’apparato, il resto di ciò che fu e che ebbe un senso in anni ormai lontani. Apparati che alimentano signorie locali dette anche «rapporto con il territorio». Partiti che non hanno uno statuto ideologico, perché le ideologie sono spettri.
Che si nutrono di finanziamenti ipertrofici e fuori controllo, anche biada per i cavalli morti, e dissipano credibilità a milioni di euro. E coltivano la guerricciola tra gruppi,l’accaparramento delle tessere, la formazione di maggioranze implausibili, strutturate sul nulla delle relazioni personali. Sono anime morte. Sveglia. La riforma della politica possibile è la fine dei partiti come modello del Principe machiavelliano, come gabbie di matti intenti a succhiare il sangue di rapa a istituzioni che si afflosciano perché nessuno crede che servano: Parlamento,governo,sindaco,governatore, e poi fondazioni, associazioni, lobby, questi luoghi della politica effettiva sono ormai deputati a servire da invasi per le ambizioni sbagliate di partiti sbagliati.
A forza di partiti finti siamo arrivati ai partiti serventi del governo composto dai tecnici, alle maggioranze tripartite che ubbidiscono a chi dispone del potere vero e sono costrette a funzionare sul presupposto che il comando politico e il voto degli elettori non abbiano più alcuna relazione l’uno con l’altro. Il commissario, il coordinatore, il segretario, tutte intercapedini di una casa crollante. Le due ipotesi di riforma dei partiti sono fallite. Berlusconi doveva strutturare un cartello elettorale e un partito leggerissimo, uno staff, e Veltroni aveva promesso una vocazione maggioritaria del Pd per il governo del paese o per l’opposizione costituzionale.
Erano due idee promettenti, una presa d’atto del nuovo carattere dei rapporti politici, una collocazione agile tra le famiglie europee dei popolari, dei socialisti, dei liberali, ma in nome di un solo mestiere: amministrare, governare, vivere nelle istituzioni con la classe dirigente eletta, e fare politica senza sopportare il basto del politicismo, delle stramorte identità universali o di principio, i partiti della falce e martello o dello scudo crociato o del sole nascente. Fallirono anche i tentativi di tornare a una nuova mappa partitica, dai governi D’Alema alla Bicamerale. Ora la finzione diventa una insopportabile pantomima.
C’è un severo e rigoroso bisogno di cambiamento. Quando sento parlare di congressi, di tessere, di imbrogli radicati sul territorio, metto mano alla pistola.Non ce n’è alcun bisogno. C’è bisogno di raccogliere fondi, altro che rimborsi, e di raccogliere consenso (nei paesi politicamente e costituzionalmente evoluti il fund raising e il consenso sono la stessa cosa). C’è bisogno di programmi a breve e medio termine nella contesa per un governo eletto, a partire dal 2013, non di carte dei valori a cui nessuno piega la benché minima attenzione, non di trombonate e retoricume. La cattiva reputazione dei partiti nasce da molti equivoci, d’accordo. Da una campagna di delegittimazione che dura da vent’anni. Male argomentata, per di più, vagamente e genericamente moralistica. Ma è la sopravvivenza di partiti morti che rende vivace la protesta e legittima l’insopportazione per la politica come oggi appare, che porta al fenomeno delle primarie sempre e regolarmente vinte dagli outsider , basta che siano candidati antipartito.
Le lotte dinastiche, i figli e altre discendenze messe di mezzo, una sensazione di truffa che ha del grottesco promana dal concetto stesso di partito politico d’apparato.
Viva i partiti, se i partiti sono cose che costano poco, invadono poco lo spazio pubblico, e agiscono come collettori di altre forze vive, in un arcipelago detto società, a favore di una leadership e diun programma, di idee modeste ma credibili su come si fa a guidare lo Stato, a renderlo compatibile con la cittadinanza nelle sue forme moderne. Chi fa tessere e congressi è destinato a perdere ancora e ancora e ancora. Il metro di misura della politica è una buona raccolta dati, una forte comunicazione, un programma e l’azione di chi è eletto per governare o per fare opposizione. Il resto è fuffa, sopravvivenza, morto che afferra il vivo. Giuliano Ferrara, Il Giornale, 19 febbraio 2012
…………Ci duole doverlo ammettere ma Ferrara mette il dito nella piaga. Siamo sempre stati militanti di partito, il partito è stato lo strumento attraverso il quakle abbiamo tentato di dare un contributo concreto alla società. Ma il risultato del bipolarismo, anticamera del bipartitismo, la nuova ondata di sigle e siglette che invadono il teatro della politica segnano la fine dei aprtiti, alemno di come li abbiamo conosciuti, praticati, militati. Come uscirne? Francamente è difficile dirlo, anche Ferrara, autore di una diagnosi cruda quanto reale, sul piano delle proposte risolutrici diventa evanenescente, vago, anche lui ripesca il linguaggio antico in uso nell’era dei partiti del passato. E ci restituisce all’indietro. g.
BENTORNATO FESTIVAL
Pubblicato il 17 febbraio, 2012 in Costume, Spettacolo | No Comments »
Bentornato, Festival. Ieri sera, dopo le polemiche provocate dal re degli ignoranti, Celentano, e dalle cosce esibite con impudica ruffianeria da Belen, sul palcoscenico dell’Ariston è tornato il Festival. Sono tornate le canzoni, è tornato lo spettacolo, è tornato il divertimento insieme alla nostalgia del passato, alla speranza per l’avvenire in un presente che pur così fosco per quache ora è passato in secondo ordine. Ci siamo divertiti ieri sera, e ci siamo anche commossi ed emozionati, lo confessiamo, nel rivedere e risentire volti e canzoni che sembravano seppelliti nel cassetto dei ricordi. Ne citiamo una per tutte , il mondo, di Jimmy Fontana, che ha accomapagnato la nostra giovinezza e che ha accompagnato e continua a farlo gli innamorati di tutto il mondo. Cantata a due voci, come le altre che si sono susseguite sul palcoscenico dell’Ariston, restituito al suo ruolo, sono state per tutti, per chi ha qualche capello bianco, ma anche per i giovani che sono stati per un momenti tuffati nell’atmosfera dei loro genitori, momenti di emozioni straordinarie. E le canzoni sono tornate ad essere le regine del festival, non più emarginate come pretesto, ma esibite come centro focale della manifestazione. E’ questo il festival che ci piace, dove il conduttore sa essere comprimario ma non protagonista, dove la spalla, Papaleo, l’indimenticabile maresciallo di Zalone, sa essere spiritoso senza usare turpiloquio,dove le vallette sono restituite al ruolo di statuine per evitare che parlando scambino Morricone con Molliccione. E il pubblico che ha appaludito in teatro, e che si è divertito a casa, ha premiato questo festival, dimenticandosi dell’altro. g.
P.S. Alcuni organi di stampa danno notizia che a causa della pretesa di Celentano di non essere interrotto durante le sue noiose intemerate, la RAI ha perduto citrca 650 mila euro per spot pubblicitari non andati in onda e che ovviamente peseranno sul bilancio finale della manifestazione. Anche questo entra nelle polemiche che imperversano in RAI che però non sembra intenzionata ad impedire a Celentano di ritornare a concionare sabato sera. Lo stesso Marano, vice direttore generale della rai, inviato dal direttore generale che ha commissariato il festival ha escluso che egli sia andato a Sanremo per impedire a Celentano una seconda penosa e noiosa esibizione. E allora che ci è andato a fare a Sanremo’ Ad aumentar eilìnuemro dei mezzi busti della RAI che occupano, ovviamente gratis, le prime file del teatro? g.
CELENTANO: IL PREDICATORE DECADENTE, di Aldo Grasso
Pubblicato il 15 febbraio, 2012 in Costume, Politica, Spettacolo | No Comments »
L’attacco ai giornali cattolici Joan Lui è convinto di predicare meglio dei preti. Ma nel ruolo di profeta salva Italia ne vogliamo solo uno, due sono troppi:
o Monti o Celentano.
Dopo ieri sera ho scelto definitivamente. Ogni anno il Festival di Sanremo ci mette di fronte a un tragico dilemma: ma davvero questo baraccone è la misura dello stato di salute della nazione? E se così fosse, non dovremmo preoccuparci seriamente? C’è stato un tempo in cui effettivamente il Festival è stato specchio del costume nazionale, con le sue novità, le sue piccole trasgressioni, persino le sue tragedie. Ma tutto ha un tempo e questo (troppo iellato) non è più il tempo di Sanremo o di Celentano, se vogliamo rinascere. Monti o Celentano? Se davvero il nostro premier vuole compiere il titanico sforzo di cambiare gli italiani («l’Italia è sfatta», con quel che segue), forse, simbolicamente, dovrebbe partire proprio dal Festival, da uno dei più brutti Festival della storia. Via l’Olimpiade del 2020, ma via, con altrettanta saggezza, anche Sanremo, usiamo meglio i soldi del canone. O Monti o Celentano. O le prediche del Preside o quelle del Re degli Ignoranti contro Avvenire e Famiglia Cristiana.
Rivolta del web contro il monologo
Non mi preoccupa Adriano, mi preoccupano piuttosto quelli che sono disposti a prenderlo sul serio. E temo non siano pochi. Ah, il viscoso narcisismo dei salvatori della patria! Ah, il trash dell’apocalissi bellica! Cita il Vangelo e bastona la Chiesa, parla di politica per celebrare l’antipolitica: dalla fine del mondo si salva solo Joan Lui. Parla di un Paradiso in cui c’è posto solo per cristiani e musulmani. E gli ebrei? Il trio Celentano-Morandi-Pupo assomiglia a un imbarazzante delirio. A bene vedere il Festival è solo una festa del vuoto, del niente, della caduta del tempo e non si capisce, se non all’interno di uno spirito autodistruttivo, come possano essersi accreditati 1.157 giornalisti (compresi gli inviati della tv bulgara, di quella croata, di quella slovena, di quella spagnola, insomma paesi con rating peggiore del nostro), come d’improvviso, ogni rete generalista abbassi la saracinesca (assurdo: durante il Festival il periodo di garanzia vale solo per la Rai), come ogni spettatore venga convertito in un postulante di qualcosa che non esiste più. Sanremo è il Festival dello sguardo all’indietro (anni 70?), dove «il figlio del ciabattino di Monghidoro» si trasforma in presentatore, è il Festival delle vecchie zie dove tutti ci troviamo un po’ più stupidi proprio nel momento in cui crediamo di avere uno sguardo più furbo e intelligente di Sanremo (più spiritosi di Luca e Paolo quando cantano il de profundis della satira di sinistra), è il Festival della consolazione dove Celentano concelebra la resistenza al nuovo. Per restituire un futuro all’Italia possiamo ancora dare spazio a un campionario di polemiche, incidenti, freak show, casi umani, amenità, pessime canzoni e varia umanità con l’alibi che sono cose che fanno discutere e parlare? Penso proprio di no. Aldo Grasso, Il Corriere della sera 15 febbraio 2012
P.S. Mentre scrivevo questo pezzo mi sono arrivati gli insulti in diretta da Sanremo. Ma non ho altro da aggiungere.
.………….Ma noi si. Al di là delle critiche di Grasso che condividiamo totalmente, va detto che Celentano ieri sera sè mostrato per quel che ormai è, una squallida macchietta, peggiore delle altre del passato, un imbonitore da quattro soldi, un balbettante ipocrita della saggezza a buon mercato, pagato profumatamente dalla Rai che pretende i soldi da tutti, anche dai cattolici praticanti per sentire questi ultimi insultare il Vaticano, la stampa cattolica, arrivando Celentano lì dove nemmeno il tanto deprecato Berlusconi era mai giunto, invocare cioè la chiusura dei giornali la cui unica colpa agli occhi del ormai decrepito molleggiato è stata quella, recente, di aver aspramente criticato il grosso cachet assicurato dalla Rai, con i nostri soldi, ad un personaggio che ieri sera più che un uomo di spettracolo è apparso un mafioso in sedicesimo. Senza dimenticare l’insulto proprio ad Aldo Grasso, deficiente! lo ha definito Celentano in diretta, dal palcoscenico di una manifestazione leggera che è stata trasformata in un una occaisone di vendetta personale di questo bellimbusto che da anni approfitta del dono che il buon Dio gli ha dato, cioè la bella voce con cui, non lo neghiamo, ha incantato generazioni di italiani, compreso noi, per ergersi a giutiziere che manco Charles Bronson saprebbe fare più cinicamente meglio. Un’ultima cosa. Celentano che si è improvvisato autentico interprete del Vangelo s’è mostrato anche poco pratico dei suoi esortamenti, tra cui quello che invoca perchè “la mano destra non sappia quel che fa la mano sinsitra”. Ci riferiamo alla devoluzione del suo faraonico cachet in beneficienza. Il tutto però attraverso i fari della comunicazione mediatica che ha acceso i riflettori su un gesto che per essere sincero e quindi apprezzabile doveva effettuarsi nella discrezione che eleva l’atto. Invece Celentano e la sua consorteria hanno trasformato il gesto cui sono stati costretti dalla violenta reazione alla scandalosa enormità del compenso, in occasione per farsi pubblicità gratuita grazie alla quale ovviamente trarranno vantaggio, come sarà facile constatre tra qualche giorno, nella vendita del nuovo disco di Celentano. Il che, tra l’altro, dimostra che l’ex supermolleggiato che è apparso moscio e sgonfiato non è poi più tanto sicuro delle sue sole qualità canore per cui fa ricorso alla pubblicità per esser certo di fare centro. g. P.S. Pare che la direttrice generale della RAI abbia “commissariato” il festival: farebbe bene a commissaria se stessa perchè ha ceduto al ricatto di Celentano che ha preteso di essere accolto a scatola chiusa. S’è visto cosa ne è uscito. g.
IL “GRANDE” BLUFF DEI DEPUTATI: IL VITALIZIO NON SI TOCCA
Pubblicato il 14 febbraio, 2012 in Costume, Politica | No Comments »
14/02/2012, 05:30
Nessun parlamentare rinuncia al vitalizio. L’avrebbero potuto fare dal 31 gennaio ma, almeno per ora, non c’è stato un solo onorevole che abbia deciso di approfittarne. È stata la deputata del Pd Rosy Bindi a tagliare la testa al toro e a proporre all’ufficio di presidenza di Montecitorio di approvare una norma per consentire ai deputati di dire addio all’assegno. Una «provocazione» rivolta verso l’Idv e la Lega, continuamente critiche sui costi della politica e i privilegi della Casta. La misura è scattata tredici giorni fa. Ma tutto tace. Eppure in questi anni sono stati tantissimi i parlamentari che hanno tuonato contro i privilegi dei politici, tentando, a parole, di riavvicinare la società civile al Parlamento. Ma nemmeno l’escamotage della Bindi è servito. Anzi alcuni deputati lo ritengono illegittimo. «Non c’è possibilità di rinunciare al vitalizio – dice Antonio Borghesi (Idv), da tempo in prima linea sul tema – Si potrebbero soltanto trasferire i soldi del vitalizio a una eventuale altra posizione previdenziale già in corso. Ma con il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo non cambia niente, i parlamentari avranno di fatto gli stessi soldi». Lui ci ha provato ad abolire i vitalizi degli ex e degli onorevoli in carica ma il suo ordine del giorno è stato approvato solo da 22 deputati (498 i contrari). «I vitalizi non esistono più – fanno eco alcuni parlamentari – Il problema è stato risolto con il passaggio al sistema contributivo». Non è così. Infatti se dal 1° gennaio 2012 anche gli onorevoli accantonano i contributi pensionistici come tutti gli altri comuni mortali, in realtà il «sacrificio» per gli attuali inquilini di Camera e Senato è piccolissimo. Deputati e senatori attualmente in carica («eletti» alle Politiche del 2008) avranno lo stesso il vitalizio, anche se l’entità sarà pari alla somma accumulata in tre anni e mezzo (fino, appunto, al 31 dicembre 2011). Prenderanno intorno ai 2 mila euro netti al mese per il resto della vita invece dei vecchi 2.486. Le cose cambieranno dalla prossima legislatura. Ora l’unica vera modifica riguarda l’età. Se prima infatti era possibile ottenere il vitalizio a 50 anni, adesso ne servono 65. A meno che non si abbiano più mandati: in questo caso l’età può scendere fino a 60 anni. È per questo che ventitré ex parlamentari e due in carica hanno presentato un ricorso al Consiglio di giurisdizione, l’organo che ha il compito di dirimere le controversie tra singoli onorevoli e Montecitorio. Unico a fare un passo indietro, il deputato del Pdl Jannone. Tutti gli altri ex (eletti dal 1994 in poi, 15 con la Lega) contestano l’allungamento dell’età per avere l’assegno. Loro sì che avrebbero potuto rinunciare al vitalizio. Ma non ci hanno pensato nemmeno. «C’è un problema normativo, oltre che morale – sintetizza un altro parlamentare che vuole restare anonimo – quelli in carica non possono rinunciare a un diritto che ancora non hanno maturato, quelli vecchi, in quanto ormai fuori dal Parlamento, non hanno alcuna intenzione di farlo. Sono le leggi». Ma le leggi non le fanno loro? Almeno potevano risparmiare agli italiani la beffa del provvedimento lanciato dalla Bindi. Anche se dagli uffici di Montecitorio fanno sapere che per dire addio al vitalizio ci sarà ancora tempo. Fino a che i deputati tuttora in carica diventeranno ex. Chissà che qualcuno non ci ripensi. Ma non è stata solo la Camera dei deputati a provare ad abolire i vitalizi. Alla Regione Lazio, nella Finanziaria del dicembre scorso, è stato stabilito di dare il vitalizio anche agli assessori non eletti ma, contestualmente, è stato approvato un emendamento che consente ai consiglieri di rinunciare all’assegno: 3 mila euro netti al mese maturati dopo una sola legislatura alla Pisana. Per decidere c’era tempo fino alla fine di gennaio. Ebbene soltanto un politico ha presentato la richiesta: l’assessore all’Urbanistica Luciano Ciocchetti. Non ha chiesto di rinunciare all’assegno (ne ha maturati uno da ex parlamentare con due mandati e uno da ex consigliere con altrettanti mandati) ma di diminuirne l’entità, non sommando alla pensione anche questa legislatura. A conti fatti un «sacrificio» da mille euro al mese. Meglio di niente. Alberto Di Majo, Il Tempo, 14/02/2012