Archivio per la categoria ‘Costume’

LE PENSIONI DELLA CASTA? NON LE TAGLIANO I TECNICI

Pubblicato il 21 novembre, 2011 in Costume, Politica | No Comments »

«Aboliremo i privilegi», promette il premier Mario Monti. «Aboliremo i vitalizi dei parlamentari», promette il presidente Fini. Dov’è la novità? Le promesse sono le solite, anche se adesso nell’Anno Primo dell’Era Sobria bisogna crederci per forza.

Chi non ci crede è un nemico della patria, un attentatore dell’euro, forse anche un agente al servizio dello spread. Siccome vogliamo evitare ogni sospetto che rompa l’illusione dell’Italia coesa e tecnicamente fiduciosa, c’iscriviamo anche noi d’ufficio alla pia setta dei credenti. Del resto si sa, i miracoli esistono come testimonia il biglietto secondo Enrico Letta. Figuriamoci se rischiamo l’accusa di blasfemia.
Però, ecco, siccome la vera fede si nutre di dubbi, ci permettiamo di rivolgere agli apostoli della Sobrietà alcune domande che ci aiuteranno nell’opera ardua di convertire anche gli ultimi scettici.
1) Il presidente della Camera Fini che ora vuole l’abolizione dei vitalizi dei parlamentari dev’essere lo stesso presidente della Camera Fini che a inizio agosto ha impedito la discussione in aula della mozione sull’abolizione dei vitalizi dei parlamentari. Perché quello che meno di quattro mesi fa non poteva essere messo all’ordine del giorno, ora diventa per lui all’improvviso una priorità?
2) Sempre a inizio agosto la Camera ha varato una riduzione delle spese che suona a beffa degli italiani: appena lo 0,71 per cento. Perché il presidente Fini, così sensibile ai costi della politica, quando ha avuto la possibilità davvero di tagliarli si è fermato allo zero virgola per cento? Glielo ha imposto qualcuno? E lui nel frattempo soffriva in silenzio? E perché in poche settimane è cambiato tutto?
3) Il premier Monti che chiede di abolire i privilegi dev’essere lo stesso che, come senatore a vita, ha appena avuto uno stipendio mensile di 25mila euro al mese. Perché come beau geste, non comincia a rinunciare a quel vitalizio?
4) Ogni mattina veniamo informati dagli organi ufficiali della Sobrietà di quanto lo stile di vita del nuovo governo tecnico sia parsimonioso: usano auto blu italiane, rifiutano il lusso, dormano su letti di paglia e quando vanno alla buvette del Parlamento si guardano attorno stupiti chiedendosi l’un l’altro «ma davvero si può prendere da mangiare?». Ora non vorremmo rompere l’incantesimo di questi Alici nel Paese delle meraviglie, ma Monti potrebbe farci sapere perché, in tutta questa parsimonia, il ministro Piero Giarda per andare a giurare ha usato, da Trento a Roma, l’elicottero dei vigili del fuoco pagato con i soldi della Provincia? I tagli ai privilegi non sarebbero più credibili se avesse preso un volo di linea, come tutti?
5) Perché il presidente Fini quando parla di «abolire i vitalizi dei parlamentari» fa riferimento solo ai parlamentari della prossima legislatura? Lo sa che la riforma farebbe sentire i primi effetti nel 2018? E che riguarderebbe solo i nuovi eletti nel 2013? Perché vengono salvati tutti gli attuali parlamentari? In fondo quando si fa una riforma delle pensioni si applica a tutti i lavoratori, mica solo a quelli che inizieranno a lavorare da domani… Perché non vale la regola che viene applicata al resto degli italiani?
6) Se il vitalizio è sbagliato perché non lo si abolisce anche per i 2.330 parlamentari pensionati che già lo incassano ogni mese (costo: 219 milioni di euro l’anno)? Perché dobbiamo continuare a pagare 8.836 euro al mese a Pecoraro Scanio che ha 52 anni? Perché dobbiamo continuare a pagare 3.108 euro al mese all’onorevole che è stato in Parlamento un solo giorno? Perché il 26 novembre cominceremo a pagare la pensione da parlamentare anche a Cicciolina?
7) Anche la Conferenza delle Regioni, rapita dal fervore della Sobrietà, ha annunciato l’abolizione dei vitalizi per i consiglieri regionali. Ottimo. Ma davvero sono sicuri di riuscirci, visto che tutto deve passare per provvedimenti delle singole Regioni? E perché hanno chiarito subito che i provvedimenti riguarderanno solo i consiglieri delle future legislature? Perché i consiglieri in carica non verranno toccati? E perché non verranno toccati nemmeno i 3.183 che già regolarmente incassano il vitalizio?
8) Quelle di cui abbiamo parlato fin qui sono misure per lo più simboliche.

COMMENTA

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Il grande risparmio per le casse pubbliche si farà attraverso l’abolizione delle Province e il dimezzamento dei parlamentari. Il premier Monti è sicuro di riuscire a far approvare questi provvedimenti dalla maggioranza composita che lo sostiene? E come? Perché i partiti che a inizio luglio hanno votato contro l’abolizione delle Province, ora dovrebbero cambiare idea? Com’è possibile che la legge di riforma costituzionale che si è già arenata nelle commissioni riprenda slancio per essere approvata in pochi mesi?
Per l’amor della Sobrietà, noi abbiamo una fiducia sconfinata nel professor taumaturgo Mario Monti e nelle sue capacità miracolistiche. Aspettiamo di vedere la sua bacchetta magica, che sarà sicuramente di plastica, poco costosa, un po’ grigia ma molto efficiente. Però abbiamo l’impressione che più che abolire i privilegi, la casta stia cercando di metterseli al sicuro. Per questo ci siamo permessi di porre queste domande che, come avete visto, sono 8 anziché le solite 10. Ne abbiamo risparmiate due. Scusateci, ma è l’unico modo per essere sicuri che in tutta questa storia almeno un risparmio vero ci sia…Mario Giordano, 21 novembre 2011, Il Giornale

IL MILITE IGNOTO E LA FOLLA, QUEL TRENO COME NEL 1921

Pubblicato il 1 novembre, 2011 in Costume, Storia | No Comments »

90 anni fa, un treno speciale, trasportò da Aquileia a Roma, la salma del Milite Ignoto, scelta tra altre undici dalla mamma di un Caduto ignoto nella Basilica di Aquileia, per essere tumulata nell’Altare della Patria, a Roma, a rappresentare i 650 mila Caduti della Grande Guerra, e più in generale tutti i Caduti per la Patria. In occasione dei 150 dell’Unità Nazionale, un treno della memoria sta ripercorendo il tragitto di 90 anni fa, salutato ovunque dai tanti che si affollano lungo il pecorso, proprio come 90 addietro. Questo articolo di Aldo Cazzullo, pubblicato oggi sul Corriere della sera, ne fa una cronaca commovente ed emozionante.

Da Aquileia a Roma, si ripete il rito collettivo

Il treno con a bordo la mostra itinerante (eIDON)
Il treno con a bordo la mostra itinerante (eIDON)

«Domani partirò per chissà dove, quasi certo per andare alla morte. Quando tu riceverai questa mia, io non sarò più. Forse tu non comprenderai questo, non potrai capire come non essendo io costretto sia andato a morire sui campi di battaglia. Addio, mia madre amata…».

La folla che da tre giorni accorre nelle stazioni del Friuli e del Veneto - in migliaia alla partenza da Cervignano, binari bloccati a Conegliano dove il treno è stato costretto a una sosta non prevista, altri capannelli commossi a Udine, Treviso, Venezia, Padova, Rovigo, Bologna – forse non ha mai letto la lettera di Antonio Bergamas alla madre Maria, la donna incaricata novant’anni fa di indicare il Milite Ignoto che riposa all’Altare della patria a Roma. Eppure in tantissimi, molti più delle previsioni, hanno sentito di dover salutare il passaggio del «treno della memoria», che rievoca il viaggio compiuto nel 1921, in questi stessi giorni, dalla tradotta con la bara del soldato che rappresentava tutti i 650 mila caduti italiani. Antonio Bergamas era uno dei duemila volontari partiti da Trento e Trieste: sudditi austriaci, che l’imperatore mandava a combattere in Galizia, contro i russi, o in Serbia. Ma in duemila disertarono, e andarono a combattere con gli italiani, contro gli austriaci, andando verso morte quasi certa: se anche sopravvivevano agli assalti, non venivano fatti prigionieri ma impiccati, come Cesare Battisti.

La mostra dentro il treno della memoria (Eido
La mostra dentro il treno della memoria (Eido

Il figlio di Maria Bergamas cadde sul Carso, nel 1915. Sette anni dopo, la donna fu portata nel Duomo di Aquileia, davanti a undici bare di ragazzi sconosciuti, come suo figlio. Lei si tolse lo scialle nero, e lo posò sulla seconda bara. A quel punto il cerimoniale tentò di farla uscire. Ma lei volle salutare anche gli altri caduti, come per chiedere scusa di non aver scelto loro. Arrivata davanti all’ultima bara, si accasciò per l’emozione. Poi si riprese, visse ancora una vita lunga, morì nel ‘54, e ora riposa nel cimitero di guerra di Aquileia, accanto agli altri dieci militi ignoti.

Il feretro del prescelto partì per Roma in treno. Fu un rito collettivo, un funerale di massa. L’identificazione del Milite Ignoto con i propri cari fu tale che una madre pretendeva di far aprire la cassa, certa di trovarvi i resti del figlio. Tra Aquileia e Roma, il treno si fermò in 120 città e paesi, dove sindaci e cittadini riempirono il convoglio con oltre 1.500 corone, sotto lo sguardo di folle inginocchiate. A Roma il treno arrivò il 2 novembre. Alla stazione Termini lo attendevano il re con la famiglia e i 335 vessilli dei reggimenti schierati nella Grande Guerra. La bara fu portata su un affusto di cannone nella basilica di Santa Maria degli Angeli, dove vennero celebrate le esequie. Il 4 novembre 1921, terzo anniversario della vittoria, alle 10 e mezza del mattino, il Milite Ignoto fu deposto in un loculo sotto la statua della Dea Roma. Vittorio Emanuele III lasciò una medaglia d’oro. Poi gli argani lasciarono cadere la lastra di marmo.

Anche stavolta il «treno della memoria» arriverà a Roma il 2 novembre, accolto dal capo dello Stato, dopo la sosta a Firenze. È composto da tre vagoni che ospitano una mostra, più un quarto allestito come sala di proiezione di filmati e una riproduzione del vagone che portò la bara, con un affusto di cannone d’epoca, il braciere e la teca con la bandiera originali. Non esattamente un’attrattiva per i curiosi. Piuttosto, un simbolo. Che ha avuto un’accoglienza commossa e sorprendente; a cominciare dal Nord-Est, dove la Lega è il primo partito e alla partenza non ha mandato nessun rappresentante, senza che l’ennesima inutile polemica turbasse l’atmosfera di raccoglimento e di rispetto.

Anche questo è un segno del successo dei 150 anni dell’unificazione; tanto più significativo in quanto la memoria diretta della Grande Guerra si è spenta, gli ultimi fanti se ne sono andati uno dopo l’altro negli anni scorsi, e la memoria dei sacrifici e dei patimenti può vivere solo nei segni, nei racconti, nelle carte. Come la lettera che Antonio Bergamas scrisse alla madre, per spiegarle la sua scelta di andare a morire dalla parte degli italiani: «Perdonami dell’immenso dolore ch’io ti reco e di quello ch’io reco al padre mio e a mia sorella, ma, credilo, mi riesce le mille volte più dolce il morire in faccia al mio paese natale, al mare nostro, per la Patria mia naturale, che il morire laggiù nei campi ghiacciati della Galizia o in quelli sassosi della Serbia, per una Patria che non era la mia e che io odiavo. Addio mia mamma amata, addio mia sorella cara, addio padre mio. Se muoio, muoio coi vostri nomi amatissimi sulle labbra, davanti al nostro Carso selvaggio».  Aldo Cazzullo, Il Corriere della Sera, 1° novembre 2011

CONTRO LA FESTA PAGANA DI HALLOWEEN, CHIESE APERTE

Pubblicato il 31 ottobre, 2011 in Costume | No Comments »

Sembra ieri, ma è già passato un anno: purtroppo, torna la festa più idiota del calendario, questa nostra Halloween alle vongole che scimmiottiamo con sempre maggiore passione dalla tradizione americana. Prepariamoci: anche questa notte saremo circondati da un sacco di brava gente euforica e svalvolata, tendenzialmente ad altissima gradazione alcolica, senza chiedersi perché, senza alzare la testa, senza mai uscire dal branco.
Feste a tema, cene a tema, addobbi a tema, regali a tema: come un natale blasfemo, la ricorrenza pagana rende omaggio alle tenebre e alla morte, spacciandosi come vigilia di Ognissanti, ma sconfinando in molti casi direttamente nel rito satanico. Però alle nostre giovani mamme questo non interessa: come negare pure ai piccoli la festa che ormai tutti festeggiano? Carnevale è solo una volta all’anno, diamine: vogliamo almeno lasciare che i nostri bambini si divertano anche a fine ottobre, con i travestimenti macabri, i cappelli da strega e le zucche spettrali? Parentesi: la Consulta nazionale dell’agricoltura comunica che in questo ponte, per l’americanata de noantri, si consumerà un milione di zucche, quasi tutte sprecate sui davanzali. Che ci fa, a noi, la fame nel mondo?
Se non altro, quest’anno c’è una bella novità: in mezzo al marasma appecoronato, c’è qualcuno che prova a ribellarsi. Appuntamento a Venezia, già città d’arte, ma ormai a pieno titolo sede mondiale di tutti gli eccessi, di tutte le trasgressioni e purtroppo anche di tutti gli svacchi. Ovviamente anche stavolta sarà caos, però con l’eccezione: all’Halloween dello sballo, modaiola ed etilica, omaggio al vuoto e alla morte, si oppone un’altra soluzione. Contro la notte degli spiriti, la notte dello spirito. È l’idea piuttosto coraggiosa, perché c’è anche il serio rischio di finire a bagno nei canali, dell’Associazione Nuovi Orizzonti. I suoi missionari, preti e laici che lavorano da anni in varie zone d’Italia per evangelizzare da capo questo Paese confuso, si piazzeranno al centro della Laguna e proveranno a parlare d’altro: per esempio, di come tanti tra loro siano usciti dal buio di droghe e alcol guardando verso la semplice luce del messaggio, restituendo un senso all’esistenza. Niente di triste e di noioso, non è il caso: ci si vedrà per strada, all’angolo, dove capita. Sono previsti musiche e spettacolo del «Joymix Team», ma lì a fianco la chiesa di San Giovanni Elemosinario resterà aperta fino all’alba per chi volesse concedersi anche un quarto d’ora di confronto, di riflessione, fosse pure di preghiera.
Cambio di programma in Laguna: c’è vita e vita, nella notte di Halloween. C’è la solita vita notturna, spericolata e tossica, della festa a qualsiasi costo e a qualsiasi occasione. Ma stavolta c’è anche la vita ritrovata, che non si può sbattere via, che va gustata a cervello acceso e animo libero, magari chiudendo la nottata con quattro chiacchiere vere, guardandosi negli occhi, prima di tornare a casa.
Spiega don Giacomo Pavanello, un giovane prete non ancora trentenne che fa da coordinatore all’iniziativa: «In questa notte, Venezia ne vedrà di tutti i colori. Chi consapevolmente e chi senza porsi troppe domande, tutti cercheranno di esorcizzare la morte cercando il divertimento sfrenato. Noi proponiamo il divertimento dell’anima. Questa resta una festa pagana, è bene la gente lo sappia. Nel tempo, l’Occidente ha saputo farne anche un grande business mondiale. Ma non tutti hanno voglia di adeguarsi: può essere l’occasione per ribellarsi. È la notte dei santi, non è la notte di satana».
Sembra utile far notare al saggio sacerdote che potrebbe risultare anche rischioso, andare contromano in una notte del genere. Sorriso ghandiano, don Giacomo non si nasconde la realtà: «Siamo qui da qualche giorno. Ci siamo imbattuti varie volte in giovani diciamo allegri. Sono in branco, il che li fa sentire ancora più forti. Ci bestemmiano in faccia, si mostrano aggressivi. Sì, il rischio che la nostra Halloween diventi difficile esiste. Ma noi siamo qui per correre un altro rischio: qualcuno, fosse uno solo, può anche decidere di cambiare vita, ritrovandola proprio nella notte della morte».
In una notte così, nella notte più cretina dell’anno, bisogna solo tifare per l’altra Halloween: quella di don Giacomo e dei suoi temerari. Anch’essi vogliono accendere zucche vuote, ma non è uno scherzetto. Cristiano Gatti, 31 ottobre 2011

PERCHE’ STEVE JOBS NON MI HA CAMBIATO LA VITA

Pubblicato il 7 ottobre, 2011 in Costume | No Comments »

Vorrei spiegare ai lettori del Foglio, ammesso siano interessati a un punto di vista tanto personale, per quali ragioni Steve Jobs non mi ha cambiato la vita (diversamente da quel che è accaduto a Jovanotti, a Beppe Severgnini e a quanto pare ad alcuni milioni di altre persone) e perché questo piagnisteo universale – da Obama a Filippo Rossi – sul genio che ci ha lasciati prematuramente, lasciando un vuoto incolmabile, mi sembra francamente esagerato e sospetto.

Bisognerebbe intendersi, per cominciare, sul concetto di rivoluzione applicato alla vita delle persone. Cos’è che ha realmente modificato l’esistenza quotidiana di miliardi di individui negli ultimi settant’anni, diciamo dalla fine della seconda guerra mondiale in avanti, in termini materiali e concreti, esonerandoli da incombenze e problemi secolari? Mi vengono in mente, a casaccio, la plastica e la lavatrice, e magari mettiamoci anche, giusto per apparire banali sino in fondo, gli antibiotici e l’elica doppia della molecola del Dna (che magari non sarà il “segreto della vita”, come si disse all’epoca della sua scoperta, ma insomma, un bel salto in avanti l’ha rappresentato). Non mi viene in mente, invece, l’attrezzo per ascoltare la musica mentre si corre o si sta seduti nel tram: rilassante e divertente, per carità, ma se non sbaglio c’era già prima di Jobs.

Intendiamoci, l’iPod, l’iPhone, l’iPad sono “fighissimi”, come dicono i miei nipotini: pieni di applicazioni, intuitivi, veloci, coloratissimi, ma già l’idea di un prodotto che cambia ogni anno e mezzo, che costringe milioni di persone a sbarazzarsi della versione “vecchia” per prendere quella appena lanciata sul mercato, più leggera di cinquanta grammi, dall’identico design ma più accattivante, che fa una cosa in più dell’altra ma ad una velocità maggiore, mi sembra una gran furbata commerciale: se la bulimia da consumo è un segno di cambiamento epocale, allora è vero, Jobs ha cambiato la vita di molte persone, rendendole però dipendenti non da una filosofia di vita quale non si era mai vista nella storia, ma da una strategia di marketing questa sì geniale e rivoluzionaria. La stessa che ha portato il Nostro a fare meglio, con più originalità e intelligenza, le cose che già altri facevano. E dunque a rendere esteticamente gradevoli e di più facile uso i personal computer. Ovvero a dare un nome proprio alle cose, a personalizzare con denominazioni intriganti e davvero easy oggetti altrimenti tutti eguali a se stessi e di solito aridamente marcati dai produttori: vuoi mettere la differenza tra chi ha l’iPhone (e per questa sola ragione pensa di appartenere ad una comunità di eletti) e chi, come il sottoscritto, possiede un Nokia-N95 avendo prima posseduto un Samsung SGH-S3000M.
Ma questo appunto è marketing creativo, peraltro con venature gnostiche: fa volare le quotazioni in Borsa, crea utenti fedeli e devoti ad un marchio che entrano negli Applestore come si trattasse di un tempio e non d’un normale negozio, ma è tutto da dimostrare che ciò renda l’umanità migliore.

Se il mondo intero sostiene che Jobs era un genio, mi riesce difficile argomentare il contrario. Accettiamo dunque che lo sia stato, sapendo però che lo stesso verrà detto – ancor più a ragione, a mio giudizio – per Bill Gates e Mark Zuckerberg; e sapendo altresì che gli altrettanto geniali inventori di Internet e della posta elettronica – strumenti senza i quali la storia di Jobs nemmeno sarebbe cominciata e la vicenda personale di ognuno di noi sarebbe stata per davvero differente – non se li ricorda nessuno: forse sono ancora vivi, ma se sono morti di sicuro non si è andati oltre un trafiletto in cronaca. Perché quello che colpisce nel caso di Job è appunto il rilievo mediatico di questa morte, prematura e largamente annunciata. E il fatto che il cordoglio planetario si stia appuntando non, come dovrebbe essere normale, su un capitano d’industria di vaste idee, perciò regolarmente definito “intraprendente” e “visionario”, che ha contribuito a creare un sistema di organizzazione aziendale, una tecnica di vendita e una forma di relazione con i consumatori in effetti diverse da quelle dei diretti competitori (che è poi la vera ragione del successo della Apple, come ben sanno gli esperti di cultura d’impresa), ma sul fondatore di una sorta di religione pop o light, su un capo setta che sembrerebbe aver lasciato orfani milioni di devoti inconsolabili.

Morire (relativamente) giovani e drammaticamente, secondo un’antica legge, è preferibile che tirare le cuoia nel proprio letto ad un’età veneranda, se si vuole accedere se non al mito almeno alla leggenda. E’ accaduto anche stavolta. Ma va anche detto che le uscite di Jobs in pubblico degli ultimi anni, dimagrito a causa del male, spartanamente abbigliato in nero come si conviene ad un guru che abbia già preso distacco dal mondo, solo sul palco come si conviene ad un predicatore che debba annunciare verità universali alle folle, hanno senz’altro contribuito a creargli attorno un’aura misticheggiante: una scelta anche questa – non si offendano i vertici di Cupertino – abilmente studiata a tavolino, con l’evidente obiettivo di trasformare ogni lancio di un nuovo prodotto, per solito indirizzato alla rete vendita dell’azienda e agli operatori del settori, in una celebrazione liturgica in mondovisione. Geniale e mirabile, senz’altro, ma sempre di marketing stiamo parlando, applicato a quanto pare anche post-mortem con non poco cinismo.

Se poi si aggiunge il vuoto emotivo
e spirituale che caratterizza l’epoca nostra, il senso di solitudine universale che le invenzioni alla Jobs hanno paradossalmente alimentato a dispetto del convincimento che, maneggiando un pezzo di plastica colorato o toccando uno schermo (siamo una civiltà regredita alla tattilità), si sia tutti fratelli e amici in rete, a contatto con l’umanità intera in ogni momento della nostra esistenza, si capisce meglio il diluvio di banalità encomiastiche cui stiamo assistendo: le stesse già sentite per Lady Diana o Michael Jackson. Un mondo sempre più abitato da coscienze fragili e inquiete, alla disperata ricerca di figure e personalità esemplari nelle quali riconoscersi, forse farebbe meglio ad andare in chiesa a pregare, piuttosto che portare fiori o scrivere messaggi disperati a ricordo dell’idolo del momento asceso in cielo. Con tutto il rispetto, è morto un inventore con un grande senso per gli affari. Umanamente mi dispiace, ma né piango disperato né mi sento meno solo di prima. E tranquilli che l’umanità, tra alti e bassi, andrà avanti lo stesso.

P.s.: “Intraprendente”,
“visionario” e “geniale” si dovrebbe dire, alla lettera, anche di uno come Silvio Berlusconi, rispetto al quale ci si potrebbe chiedere se per caso non abbia a sua volta cambiato la vita di molte persone, almeno in Italia, rivoluzionando la comunicazione televisiva e di conseguenza l’immaginario di massa, ma so che il tema è controverso e difficile da approfondire con pacatezza, visto il clima d’odio e rancore che si respira dalle nostre parti, e per oggi ho deciso di non farmi troppi nemici. Ne riparleremo tra cinquant’anni.

di Alessandro Campi, Foglio Quotidiano, 7 ottobre 2011

.…..L’opinione di Campi nulla toglie al sincero e unanime  cordoglio per la morte prematura di Jobs.

INTERVISTA DEL CORRIERE A MARINA BERLUSCONI: “CONTRO MIO PADRE BARBARIE LEGALIZZATA. NON MOLLERA’”

Pubblicato il 5 ottobre, 2011 in Costume, Giustizia, Politica | No Comments »

Marina Berlusconi, presidente di Fininvest
Marina Berlusconi, presidente di Fininvest

Marina Berlusconi non è una donna che teme di essere dura. E questa volta sembra volerlo essere ancora di più. Come presidente Fininvest ha appena presentato un esposto al ministro della Giustizia e al procuratore generale della Cassazione, che segnala un’anomalia che ha avuto un peso decisivo sulla sentenza che ha portato la Cir a incassare un assegno di 564 milioni come risarcimento per la vicenda Mondadori. «Abbiamo scoperto un tarlo, una falla clamorosa che mina dalle fondamenta un castello di ingiustizie. Altro che leggi ad personam, qui siamo alle sentenze ad personam, al diritto cucito su misura: quando ci sono di mezzo mio padre o le nostre aziende, spuntano addirittura principi giurisprudenziali inediti e totalmente innovativi. Peccato che siano principi inesistenti, nati dal “taglio” di una frase addirittura sostituita da puntini di sospensione e dalla mancata citazione di altre».
Un conto sono le sentenze, un conto le interpretazioni, come la vostra.
«Qui non si tratta di interpretazioni, questi sono dati di fatto. Sono scomparse frasi intere di una sentenza della Cassazione».
Sia esplicita, che cosa è successo, cosa hanno fatto i giudici?
«Con il taglio e l’omissione di alcune frasi questa pronuncia della Cassazione, che ha un ruolo fondamentale ai fini della condanna, è stata letteralmente stravolta, ed è stato in questo modo creato un precedente giuridico ad hoc».
Sta dicendo che la sentenza è stata manipolata. Accusa i giudici di un falso?
«Me ne guardo bene, l’esposto si limita a segnalare alle autorità competenti quanto è accaduto. È un fatto talmente evidente e grave che abbiamo non soltanto il diritto ma addirittura il dovere di renderlo noto, al di là del ricorso in Cassazione che seguirà la sua strada. Il taglio e l’omissione di alcuni passaggi ribalta totalmente la tesi della Cassazione con la conseguenza che noi dobbiamo firmare un assegno da 564.248.108,66 euro. Incredibile? Assolutamente sì, è quello che ho pensato quando i legali me ne hanno parlato. Però, ripeto, le carte sono lì, basta confrontare i testi sul sito della Fininvest. Incredibile, ma vero».
Senta, a me paiono scaramucce giudiziarie, costose quanto vuole …
«Altro che scaramucce, stiamo parlando di più di mezzo miliardo».
Sì, ma è sempre la stessa storia.
«Eh no. Partiamo dalla sentenza del 1991 della Corte d’Appello di Roma, quella che dava torto a De Benedetti, dalla quale tutto è cominciato. Dopo che uno, uno solo badi bene, dei tre giudici romani era stato condannato per corruzione, per cancellare gli effetti di quella sentenza d’Appello le norme davano a De Benedetti una sola possibilità: rivolgersi al giudice della revocazione. Non è una formalità, ma un istituto fondamentale, previsto dall’articolo 395 del Codice di procedura civile. La Cir però la revocazione, che le regole avrebbero peraltro imposto di discutere a Roma e non a Milano, non l’ha mai chiesta. I termini sono scaduti nel settembre 2007. Morale: azione improponibile, fine della storia».
Altro che fine della storia, poi il giudice Mesiano vi condanna a un risarcimento di 750 milioni.
«Esatto. Questa è la dimostrazione che trovano sempre il modo per superare ostacoli che dovrebbero essere insuperabili. Mesiano punta sulla chance: non ci sono certezze, ma è molto probabile che un giudizio non viziato da corruzione nel ‘91 avrebbe dato ragione alla Cir. Un escamotage così poco sostenibile che la stessa Corte d’Appello lo “boccia” e cambia strada. Stabilisce che la sentenza che ci aveva dato ragione era nulla. Si arroga il diritto di rifare il processo e la Cir vince. Si sostituisce, quindi, al giudice della revocazione. E per farlo utilizza, nel modo sconcertante che le ho detto, la pronuncia 35325/07 della Cassazione».
Capisco che tutto ciò vi crei problemi. Insisto: questioni giuridiche, procedurali, da tribunali …
«Non ci sono solo procedure, ci sono anche i fatti. Eccoli: la Cir non ha avuto alcun danno da parte nostra; noi, che non avremmo dovuto pagare neppure un euro, abbiamo subito un esproprio di 564 milioni, un danno gravissimo per un gruppo che, non mi stancherò mai di sottolinearlo, è uno dei grandi protagonisti dell’economia del Paese, e che solo per dare una cifra, negli ultimi 10 anni ha versato nelle casse dello Stato la bellezza di oltre 5 miliardi di euro, più di 2 milioni al giorno».
Veramente è De Benedetti che lamenta un danno.
«Ma quale danno? La vicenda si concluse con una transazione impostaci dalla politica che De Benedetti accettò entusiasticamente, come dimostrano le sue dichiarazioni di allora, senza neppure ricorrere in Cassazione e ci credo che fosse soddisfatto: si prendeva Repubblica , l’Espresso e i quotidiani locali di Finegil, una parte rilevantissima della Mondadori, politicamente ed economicamente».
Lascio a lei la responsabilità di quello che afferma su Cir e magistratura. Ma a me pare l’ennesima versione della persecuzione contro suo padre.
«Persecuzione? Non avevo dubbi sul fatto che si trattasse di una sentenza politica, ora si scopre su che cosa si basa! Non tiro conclusioni, ma veda lei… Purtroppo la verità è che parlare di persecuzione non è più sufficiente. Ormai contro mio padre siamo alla barbarie quotidiana legalizzata».
Addirittura barbarie…
«Certo, mi ha molto turbato leggere articoli di informatissimi notisti politici in cui si considera come un dato scontato che questa aggressione furibonda possa mettere in discussione la sua libertà personale, il futuro delle sue aziende e addirittura la sua incolumità. E nessuno fa un salto sulla sedia? Sì, barbarie quotidiana legalizzata, ma assolutamente illegale».
Illegale cosa? E allora tutte le inchieste aperte da Napoli a Bari, da Roma a Milano?
«Si inventano inchieste a ripetizione su reati inesistenti e senza vittime solo per fabbricare fango. Poi il fango fabbricato viene palleggiato tra una Procura e l’altra e infine riciclato. Il processo, con relativa, inevitabile condanna, lo si celebra sui media. Quello in aula, se si farà e come finirà non interessa più a nessuno. So bene, e ci tengo a ripeterlo, che dietro tutto questo c’è solo una minoranza di toghe, che la magistratura come istituzione merita il massimo rispetto. Ma il risultato non cambia. E mi chiedo che cosa tutto ciò abbia a che fare con la giustizia, con l’informazione, con un Paese che si considera civile».
Me l’aspettavo, il problema sono i magistrati che intercettano e i giornali che pubblicano.
«Stiamo parlando di centinaia di migliaia di intercettazioni, un numero spropositato, di cui si è fatto un uso fuori da ogni regola, mi riesce perfino difficile trovare le parole per definirlo, la verità è che se ci penso mi viene la nausea. Credo che raramente si sia assistito ad un tale spettacolo di inciviltà. Altro che bavagli: ma davvero qualcuno può credere e sostenere che si possa continuare così?»
Un presidente del Consiglio non è proprio un cittadino qualunque. Strauss-Kahn ha chiesto scusa in tv, persino Giuliano Ferrara invita suo padre a fare altrettanto …
«Intanto il paragone è del tutto inaccettabile. Mio padre non ha mai fatto assolutamente nulla di male e vedere il modo in cui cercano di sfregiarlo, per chi come me lo conosce davvero e sa davvero com’è, è ogni volta un pugno nello stomaco. È uno di quegli uomini, non rari ma rarissimi, che ha sempre saputo far coincidere la realizzazione di se stesso e dei propri obiettivi, la creazione di opportunità per sé con la creazione di opportunità e di benessere anche per gli altri. E tutto questo sia per indole, sia per coraggio, sia per capacità, sia soprattutto per la sua grande generosità. Mio padre non ha mai preso soldi dalla politica, è uno dei pochi che con la politica i soldi li ha spesi e per il suo impegno ha pagato e sta pagando un prezzo altissimo anche dal punto di vista personale. Non deve scusarsi proprio con nessuno, anzi sono gli altri, e sono in tanti, tutti coloro che lo assediano in modo vergognoso, a doversi scusare con lui».
Secondo lei quello della magistratura è un complotto, la società civile che si lamenta sbaglia. E le critiche di Marcegaglia, di Della Valle, solo una serie di errori.
«Intanto, non concordo per nulla con chi contrappone una società civile buona a una politica cattiva. Certo, è compito della politica, tanto più in un momento così delicato, affrontare e risolvere i problemi, ma politici di qualità ce ne sono da entrambe le parti, e cose importanti e di qualità il governo ne ha fatte molte».
Eppure la situazione economica è sotto gli occhi di tutti…
«Non dimentichiamoci che si sta fronteggiando una crisi globale, si deve operare in un sistema che, lo riconoscono perfino gli inflessibili censori di Standard & Poor’s, somiglia molto a una palude, dove tutto finisce frenato, smorzato se non svuotato. E il governo ha di fronte un’opposizione divisa su tutto tranne che sull’agitare qualunque bandiera, anche la più improbabile per le idee della sinistra, che possa essere sventolata contro Berlusconi».
Sta chiedendo che nessuno disturbi il manovratore? Mi pare eccessivo.
«La società civile non può cavarsela con apocalittici proclami di una pochezza desolante, o dettando lezioncine scontate».
A chi si sta riferendo, perché non fa nomi?
«Non mi interessa fare nomi. Dico solo che non se ne può davvero più di maestrini o maestrine, tanto bravi finché c’è da parlare, molto meno una volta messi alla prova dei fatti. Le ricette ci sono e sono note, il problema è poterle realizzare. E allora, se non si tratta solo di voglia di protagonismo o di ambizioni d’altro genere, se l’intento sincero è quello di dare una mano all’Italia del futuro ma anche a quella del presente, non si può pensare di farlo restando seduti in platea. Bisogna salire sul ring e cominciare con il battersi con quello che è l’avversario più temibile: chi sullo sfascio, sul tanto peggio-tanto meglio costruisce le proprie fortune».
Nell’ultimo editoriale di Angelo Panebianco si parlava di ciclo concluso per Berlusconi e che se suo padre facesse un passo indietro la situazione si svelenirebbe.
«Mio padre non deve assolutamente mollare e non mollerà. Per molte ragioni. Intanto in un momento come questo la stabilità è un bene prezioso, e oggi non mi pare proprio ci siano alternative degne di questo nome all’attuale governo. Ma soprattutto non deve mollare e non mollerà per il rispetto e l’amore che ha verso la democrazia».
Mi pare proprio esagerato tirare in ballo la democrazia .
«No, purtroppo no. La democrazia non si può piegare alle trame di qualche Procura e di qualche redazione. Pensare che lo scempio di ogni regola cui stiamo assistendo sia un problema che verrà risolto come per incanto se e quando Silvio Berlusconi deciderà di dedicarsi ad altro, è solo una pericolosa illusione. E chi si illude di cavalcare questo scempio dovrebbe sapere che rischia di esserne travolto se verrà il suo turno».
La solita difesa di suo padre, come sempre, senza se e senza ma.

«Guardi, mio padre sta lottando per il rispetto della sua libertà, ma la sua lotta è in realtà una lotta per la libertà di tutti. Possiamo essere liberi solamente se tutti lo sono. Qui non è solo la figlia che difende il padre, cosa che ho fatto e che continuerò a fare perché è sottoposto a un’aggressione sempre più violenta e vigliacca. Difendendo lui difendo anche me stessa, il rispetto della mia dignità e della mia libertà, e soprattutto difendo il diritto dei miei figli a vivere e a crescere in un Paese davvero democratico e civile».Daniele Manca, Il Corriere della Sera, 05 ottobre 2011 13:19

ADESSO DIMENTICHIAMO PERUGIA

Pubblicato il 4 ottobre, 2011 in Costume, Cronaca, Giustizia | No Comments »

Processo di Perugia, Amanda Knox e Raffaele Sollecito Possiamo far finta di credere che sia solo una sentenza, un semplice ribaltamento del giudizio di primo grado, passando dalla colpevolezza per omicidio all’innocenza. Avviene più spesso di quel che si crede. Possiamo anche spingerci a dire che la sentenza di Perugia dimostra che la giustizia funziona e sa correggere i propri errori. Ma forse è meglio guardare in faccia la realtà: l’assoluzione di quei due ragazzi condanna il modo in cui sono state fatte le indagini, il modo in cui s’è condotto il processo di primo grado e l’intero baraccone vergognoso del giustizialismo spettacolare, compresi i libri che hanno arricchito presunti esperti, che spero, da oggi, non siano mai più chiamati a svolgere quale che sia perizia a spese del contribuente. È facile che qualcuno scriva, oggi, che l’Italia fa una pessima figura agli occhi degli statunitensi, i cui mezzi d’informazione si sono mobilitati per sostenere l’innocenza di una loro concittadina. Dissento: facciamo una pessima figura, è vero, ma agli occhi di noi stessi. Che dovrebbe essere ancor più grave. In quanto allo scenario globale, la giustizia italiana è già stata umiliata da francesi e brasiliani, che hanno, del tutto a torto, rifiutato di consegnarci un assassino. È già esposta al ludibrio generale dal suo inarrestabile e infruttuoso tentativo di condannare chi governa. È troppo berlusconiano sostenere che questa caccia all’uomo è incivile? No, è grandemente barbaro far finta di niente. Nelle sue dichiarazioni spontanee la giovane imputata statunitense (non mi caverete il nome neanche ora, perché non contribuisco neanche con una goccia al dilagare infame della giustizia spettacolo) non si è difesa, ha accusato.

Le sue parole sarebbero potute essere quelle di un occidentale qualsiasi che si trova a fare i conti con un buco nero tribale, o con un tribunale islamico: io mi sono fidata degli inquirenti, loro erano lì per difendermi, invece mi hanno usata e manipolata. Di questo c’è uno strascico nella condanna per calunnia. Più mite il coimputato, italiano, forse geneticamente meno attrezzato a considerare repellente la messa in scena. Mi ha colpito un particolare: la loro relazione è stata posta a fondamento del movente, raccontata come un sabba, loro, proclamandosi innocenti, ci hanno tenuto a proteggere quei loro sentimenti di allora. Come normali ragazzi, come persone cui la natura e l’età consentono di credere nel valore di un sentimento. Fosse stato un processo iraniano ne parleremmo con le lacrime agli occhi. Ma era italiano. Dovremmo piangere a dirotto. Ma non è finita, e disinteressandomi, ora, della sorte di quei due, la cui vita è già massacrata, rivolgo l’attenzione a quella di noi tutti. Non è finita: la Corte di cassazione potrà chiudere il caso, ma potrà anche annullare la sentenza e chiedere un nuovo giudizio. Dimenticatevi Perugia: questo modo di procedere è folle. Se, avendo scopiazzato dalla formula americana, abbiamo stabilito che si può condannare solo in assenza di “ragionevole dubbio”, come mai si può credere che il dubbio non sia ragionevolissimo, se una corte, in un qualsiasi grado di giudizio, assolve? Noi riusciamo a demolire la ragionevolezza solo in base ad una finzione: chiamiamo “processo” l’insieme dei giudizi, per questo possiamo cambiarli a piacimento, sempre all’interno del medesimo “processo”. Era più che giusto quel che stabiliva la legge Pecorella: chi viene assolto non può più essere processato. La Corte costituzionale provvide a chiudere questo spiraglio di civiltà. Molti, troppi, ne pagano le conseguenze. Davide Giacalone, Il Tempo, 04/10/2011

.…………In questa vicenda, come nelle altre analoghe che occupano quintali di carta stampata e chilometri di video,  non siamo stati nè innocentisti, nè colpevolisti, ritenendo che nessuno è in grado di stabilire la verità senza conoscere fatti e documenti e sempre convinti che tale compito spetti alla Magistratura. Ma non possiamo non essere d’accordo con Davide Giacalone e con le sue amare considerazioni su una giustizia che in Italia fa acqua da tutte le parti. Tanto da essere elogiata dalla stampa americana e   vilipesa da quella inglese, mentre, come tutti si sforzano di dire, ma solo quando conviente, le decisioni della Magistratura vanno rispettate, qualsiasi esse siano. Ma per essere tali devono esserre emesse da chi gode di indiscussa  credibilità. E pare che così non sia per quella italiana.g

LA DESTRA INTELLETUALE, TROPPO AVANTI E PERCIO’ EMARGINATA E SCIPPATA

Pubblicato il 1 ottobre, 2011 in Costume, Cultura | No Comments »

Ecco gli intellettuali “maledetti” che precorsero i tempi. Le loro idee? Saccheggiate dalla sinistra

Intellettuali di destra

Giorgio Pisanò, Gianna Preda, Angelo Manna… li citavo giorni fa a proposito della scomparsa di Enzo Erra. Sarebbe tutta da scrivere, ma è un’impresa difficile, la Spoon River dei precursori dimenticati, spesso maledetti o emarginati in vita, che hanno avuto postuma ragione ma per interposta persona. Citavo Pisanò non in veste di politico missino ma di giornalista – rilanciò il Candido alla morte di Guareschi – anzi di inviato postumo nei luoghi dolorosi della guerra civile. Pisanò fu tra i primi a compiere l’arduo e meticoloso lavoro di tirare fuori dall’oblio e dalla damnatio memoriae storie e tragedie dell’ultima guerra.

Fu un lavoro aspro che rimase in un circuito nostalgico. Poi, dopo tanti anni, arrivò da sinistra Giampaolo Pansa e riportò alla luce le storie dei vinti, con grande e meritato successo editoriale. Citavo poi Gianna Preda, firma di punta del Borghese negli anni sessanta, mordace e aggressiva nel suo giornalismo d’assalto.

Era lei la Camilla Cederna della destra, anzi la Fallaci degli anni sessanta quando l’Oriana era ancora di sinistra. Poi arrivò la Fallaci dopo l’11 settembre e si sentì nuovamente il linguaggio del vecchio Borghese, inclusa l’esortazione a ritrovare la rabbia e l’orgoglio di un occidente vile, arreso al nemico; ma con ben altra accoglienza. Si legga di Gianna Preda (Predassi era il suo vero cognome) la vivace autobiografia, Fiori per Io, o si ritrovino le sue interviste che mettevano in crisi i governi o i suoi dialoghi con i lettori.

Citavo poi Angelo Manna, giornalista del Mattino e deputato missino, che fu il primo a raccontare negli scritti e nelle tv private napoletane l’altra faccia del Risorgimento e il sud violentato e tradito. Se Carlo Alianello (o Silvio Vitale) scriveva l’epopea del sud preunitario, Manna trasmetteva a livello popolare l’orgoglio meridionalista contro la Malaunità. Poi, molti anni dopo, arrivò da sinistra Pino Aprile con il suo efficace Terroni e conquistò il successo editoriale e l’attenzione dei media negata al “reazionario” Manna. Penso a Nino Tripodi, intellettuale e politico missino, direttore del Secolo d’Italia, che ricostruì il percorso dei voltagabbana dal fascismo all’antifascismo, ma solo di recente (penso ad esempio al lodevole I redenti di Mirella Serri) sono stati portati alla luce quegli «intellettuali sotto due bandiere».

E a proposito di fascismo, penso al meticoloso lavoro storico-giornalistico di Giorgio Pini e Duilio Susmel su Mussolini, usato poi da Renzo De Felice. O Roberto Mieville che descrisse in Criminal fascist camp quel che solo oggi si riscopre grazie ad Arrigo Petacco col suo Quelli che dissero No: gli italiani che dopo l’8 settembre preferirono il campo di concentramento alla resa.
Citavo pure Alfredo Cattabiani (e con lui Mario Marcolla), che prima con le edizioni dell’Albero, poi con Borla, infine soprattutto con Rusconi, scoprì e tradusse interi filoni di pensiero ed autori che poi sarebbero diventati alimento di base per l’Adelphi di Calasso: Guénon, Florenskij e Zolla, Cristina Campo e Simone Weil, Ceronetti e Quinzio, Severino e Jünger, Alce Nero e Comaraswamy, oltre a Eliade, Tolkien e altri autori. Adelphi sterilizzò del catalogo Rusconi il filone cattolico-tradizionale, quello ispirato da Del Noce risalendo fino a de Maistre, e riprese l’altro filone tradizionale spiritualista, mai riconoscendo il ruolo dei precursori.

La Rusconi destò invece la preoccupata attenzione di Pasolini che agli inizi degli anni settanta denunciò la nascita editoriale di una destra colta e raffinata. E Walter Pedullà auspicava un cordone sanitario per isolare quella cultura; non i picchiatori, ma gli scrittori e i libri della destra. La stessa cosa accadde con le edizioni Volpe e con Claudio Quarantotto che pubblicò per le edizioni del Borghese opere e scritti di Jünger e Cioran, Spengler e Mishima, poi sdoganati altrove con successo.

Vi dicevo di Enzo Erra paragonato a Giorgio Bocca. Proseguendo nella vite parallele penso a Mario Tedeschi, uscito come Eugenio Scalfari da Roma fascista, e poi direttore come lui di un settimanale di successo, Il Borghese, che col suo fondatore Leo Longanesi fu una splendida rivista di élite, ma con Tedeschi superò le centomila copie e negli anni sessanta vendeva più del suo dirimpettaio di sinistra, L’Espresso di Scalfari. Poi Tedeschi, dopo la parentesi parlamentare missina, finì ai margini del giornalismo; mentre Scalfari, dopo la parentesi parlamentare socialista, fu venerato fondatore de La Repubblica.

O Giano Accame, lucido giornalista e intellettuale, vissuto ai margini del giornalismo e della cultura. E Fausto Gianfranceschi, scrittore e giornalista di valore. O Piero Buscaroli, fior di giornalista storico e musicologo, per anni costretto allo pseudonimo sul nostro Giornale che, grazie a Montanelli, lo ospitava negli anni di piombo però sotto falso nome (Piero Santerno).

O talenti precocemente stroncati dal destino, come Rodolfo Quadrelli o Adriano Romualdi. Vorrei ricordare il frizzante Adriano Bolzoni, autore prolifico di sceneggiature e di reportage storico-giornalistici, dimenticato come Luciano Cirri, salace critico televisivo prima di Sergio Saviane e di Aldo Grasso. Cirri fondò con Castellacci e Pingitore il cabaret “di destra”, Il Giardino dei supplizi e il Bragaglino, divenuto poi Bagaglino, nato da una costola del Borghese e de Lo Specchio di Giorgio Nelson Page.

E Giancarlo Fusco o Nino Longobardi, personaggi estrosi e briosi osservatori dei costumi, ma irregolari e dalla parte sbagliata.

O grandi firme del giornalismo politico come il socialfascista Alberto Giovannini, che diresse Il Roma e Il Giornale d’Italia, o i conservatori liberali Enrico Mattei de Il Tempo e Panfilo Gentile su Lo Specchio, critico della partitocrazia e delle democrazie mafiose. Appestati in vita, dimenticati in morte. O la heroic fantasy, fiorita a destra (uno su tutti, Gianfranco de Turris) e poi scoperta con successo altrove. Non mi addentro a citare gli studiosi, gli autori non conformisti, limitando questa Spoon River al giornalismo e all’editoria: ma non erano scarsi né in numero né in qualità.

Il filo comune che lega tutti loro, oltre l’appartenenza a quel variegato arcipelago destrorso, è l’oblio già in vita (pochi di loro sono viventi). Taluni percorsero vite parallele o furono precursori in ombra di altri venuti da sinistra e baciati dal successo. Tanti ci saranno sfuggiti e ci dispiace. A tutti loro portiamo il modesto fiore del ricordo. Marcello Veneziani, Il Giornale 1° ottobre 2011

………….Grazie, Caro Veneziani, per questo inestimabile tuffo nel nostro passato, attraverso i nomi  degli intellettuali, dei giornalisti, degli scrittori, delle “testate”  che hanno indirizzato e poi fortificato la nostra scelta all’alba della nostra vita, che ci hanno accompagnato nel lungo percorso della nostra battaglia politica, che ci hanno aiutato, con  l’esempio delle vessazioni subite, a non lamentarci delle nostre, che ci hanno aiutato a formare la nostra coscienza. Grazie Veneziani, ma soporatutto grazie a Loro, ai pochi viventi e ai tanti scomparsi,  ma vivi nella memoria degli uomini liberi. g.

LA PAURA DI TORNARE A FARE LA FAME

Pubblicato il 29 settembre, 2011 in Costume, Cultura | No Comments »

DI GIAMPAOLO PANSA

Gianpaolo Pansa Esce il 4 ottobre il nuovo libro di Pansa “Poco o niente”.  Attraverso la storia della sua famiglia  Pansa racconta l’Italia derelitta che ha sfondato e quella che ora è sull’orlo del baratro. Eccone un’anticipazione  a cura dello stesso Autore.

La grande paura del Duemila è di ritornare poveri. È il timore nuovo che leggo negli occhi di molte persone. E che affiora sempre più spesso anche dalle loro parole, non appena si comincia ad accennare al futuro. Tanti genitori si chiedono quale sarà la vita che attende i loro figli. A volte m’imbatto in nonni angosciati da quanto potrà accadere ai nipoti. Sono pochi quelli che non si fanno domande. E sostengono di non provare nessuna di queste ansie. Li ascolto con un pizzico di invidia perché non hanno i dubbi che, al contrario, inseguono anche me. È questo il regalo del nostro difficile e torbido inizio degli anni Duemila. Prima una crisi finanziaria globale, poi la crisi economica che riduce molti redditi famigliari, la crescita dei disoccupati, l’obbligo di intaccare i risparmi, i bilanci di molte nazioni a rischio di fallimento. E infine il divampare della questione dei giovani: non trovano davvero lavoro o aspirano a un lavoro impossibile da conquistare? Nei decenni passati le cose non andavano così. Certe paure non avevano ragion d’essere. Me lo conferma la mia storia personale. E soprattutto quella della famiglia dove sono nato e cresciuto. Come leggerete in questo libro, mio padre Ernesto e mia madre Giovanna venivano da un’infanzia segnata dalla povertà. Quella di mio padre, poi, era stata marchiata da una condizione ben più dura: la miseria. Ma entrambi guardavano al futuro con fiducia. Ernesto aveva vissuto i primi vent’anni tra gli ultimi della scala sociale. Mangiando poco. Vestendo panni smessi da altri. Calzando scarpe di ripiego, ottenute grazie alla carità del parroco del paese. E soprattutto iniziando a lavorare da bambino. Quando venne arruolato dall’esercito e fu mandato al fronte nella prima guerra mondiale, era un ragazzo soldato che non aveva ancora 19 anni. Ma toccò il cielo con un dito. Si riteneva fortunato e in Poco o niente scoprirete il perché. Alla mia nascita, Ernesto e Giovanna avevano un lavoro in grado di mantenere se stessi e i figli. Lui era un operaio dello Stato, un guardafili delle Regie poste e telegrafi. Lei era diventata una modista e una pellicciaia provetta. Grazie al suo negozio, guadagnava più di mio padre. Ma anche Giovanna ha faticato tutti i santi giorni, sino alla vigilia di morire. Non si sono mai concessi alcun lusso. Non hanno mai posseduto un’automobile. Non sono mai andati in vacanza. Però hanno sempre avuto una certezza: tanto io che mia sorella avremmo vissuto un’esistenza migliore della loro. Una certezza che oggi molti genitori non possiedono più. Ernesto e Giovanna mi hanno fatto crescere senza obbligarmi ad affrontare nessuno dei sacrifici incontrati da entrambi. Mi hanno messo in mano libri che non avevano potuto leggere. Mi hanno aiutato a frequentare scuole che gli erano state negate. Mi hanno protetto con una generosità illimitata, ma avvisandomi che, da un certo momento in poi, avrei dovuto far conto sulle mie sole forze. Li ho sempre visti felici di potermi offrire una vita tutta diversa dalla loro. Mi incitavano ad approfittare del piccolo benessere conquistato anche per me. Dicevano: guarda che non capita a tutti la fortuna di studiare, devi cercare di meritarti il regalo che hai ricevuto, grazie ai nostri sacrifici. Quando sono entrato all’università, era il 1954 e avevo appena compiuto 19 anni, mio padre stentava a nascondere un orgoglio felice. Mi raccontò: alla tua età ero un soldato ignorante, arrivato appena alla quarta elementare, e stavo al fronte insieme a tanti altri militari uguali a me. Molti erano analfabeti, non sapevano neppure parlare l’italiano, si esprimevano unicamente nel dialetto dei loro paesi. Un piemontese e un siciliano potevano morire l’uno accanto all’altro, nella stessa trincea. Però non riuscivano a capirsi: erano come due stranieri arrivati da nazioni lontane. Soltanto gli ufficiali non erano così. Ma anche tra loro di laureati se ne trovavano pochi. Invece tu, caro Giampa, frequenti l’università. E io potrò vantarmi di avere un figlio dottore! Ernesto mi seguì, passo dopo passo, lungo tutto il percorso di studente universitario. In un taccuino segnava gli esami che avevo superato e il voto ottenuto. Mi resi conto che sapeva tutto del corso di studi al quale ero iscritto. (…). Pretendeva che i miei voti fossero sempre alti. Se dopo una serie di trenta, portavo a casa un ventisette, lo scoprivo deluso. Non mi diceva nulla, però capivo che si era aspettato di più. Venne a Torino per assistere alla mia laurea in Scienze politiche, a Palazzo Campana, la sede delle facoltà umanistiche. Stava per compiere 61 anni ed era la prima volta che metteva piede in un santuario della cultura accademica, un operaio fra tanti professori e studenti. Si preoccupò molto nell’ascoltare il battibecco fra il relatore della mia tesi e il presidente della commissione di laurea. Era il magnifico rettore dell’ateneo, un vero barone, autoritario e stizzoso. Si lamentava delle troppe pagine che avevo scritto. Ma forse non gli garbava l’argomento: la guerra civile nella mia provincia, quella di Alessandria, fra Genova e il Po. Ernesto ebbe il timore che il fastidio del rettore potesse nuocere al mio voto di laurea. (…). Però nella vita si era imbattuto in momenti molto peggiori e decise di restare sino alla fine della cerimonia, confuso tra il pubblico. Quando mi vide premiato con il massimo dei voti e la menzione della dignità di stampa, scappò via di corsa a prendere il treno e ritornò da solo nella nostra città, dove lo aspettava mia madre, assai più tranquilla di lui. Alla sera, quando ci ritrovammo a casa, mi abbracciò dicendomi: una laurea come la tua ti garantirà una vita diversa da quella che abbiamo fatto la mamma e io. La stessa certezza ho avuto nei confronti di mio figlio Alessandro. (…) Non nutrivo nessun timore per il suo futuro. Erano i primi anni Ottanta e non esistevano le apprensioni di oggi. Per un bravo laureato l’avvenire era sicuro. Niente precariato. Un lavoro tutelato da un buon contratto. Uno stipendio all’inizio modesto, ma destinato a crescere con il tempo e l’esperienza. Un percorso professionale aperto a ogni possibilità. Una carriera non facile, che tuttavia poteva condurti in alto. Grazie al merito e senza bisogno di contare sulla protezione di qualche santo in paradiso. I padri di oggi come vedono il futuro dei figli? Sempre più spesso sono indotto a pensare che, nella maggioranza dei casi, non siano in grado di prevedere niente. Tanto che, a volte, non si pongono nessuna domanda perché hanno paura della risposta. (…). Giampaolo Pansa

……..La storia dei genitori di Pansa potrebbe essere, anzi è,  la storia dei genitori di ciascuno di noi. E la paura dei padri di oggi per il domani dei propri figli è la nostra stessa paura.g

MOLLANO I CRIMINALI E INSEGUONO LE RAGAZZE

Pubblicato il 28 settembre, 2011 in Costume, Cronaca | No Comments »

Mille e duecento case svaligiate in pochi mesi, i furti che aumentano del 25% in un anno, 32mila commercianti vittime del racket e dell’usura,100 clan camor­risti all’opera giorno e notte, un giro di affari della ca­morra salito nel 2011 a 13 miliardi di euro. Questo è, in sintesi,il bollettino di guerra (incompleto)della crimi­nalità a Napoli. E che fanno i magistrati? Si occupano a tempo pieno delle ragazze che avrebbero insidiato il presidente del Consiglio. Parliamo di maggiorenni consenzienti quanto intraprendenti, quindi di nessu­na ipotesi di reato. E da ieri si va anche oltre. Perché il nuovo quesito che si pone la giustizia italiana non è co­me acciuffare e condannare ladri, rapinatori e mascal­zoni pericolosi per la società, ma la seguente: il pre­mier poteva non sapere che le signore che lo corteggia­vano erano escort? Domanda che tiene col fiato sospe­so tutti gli italiani che, come noto, in questi giorni non hanno problemi più importanti. Per non farci perde­re tempo, i pm hanno già dato anche la risposta: non poteva, dando così dell’escort a qualsiasi donna che abbia avvicinato il premier negli ultimi anni.

La domanda, comunque, ha un suo perché, e do­vrebbe fare scuola nelle Procure italiane. Per esem­pio: poteva Bersani non sapere che cosa stava combi­nando Penati con le tangenti di Sesto? Poteva D’Ale­ma non sapere che faceva in realtà il suo amico Taran­tini? Poteva Vendola non sapere che il suo vice Tede­sco faceva parte di una banda che lucrava sui malati pugliesi? L’elenco sarebbe lungo. Poteva il cardinale Bagnasco non sapere dei suoi confratelli pedofili? Po­teva il direttore dell’ Unità non sapere che il suo edito­re, secondo le accuse, è un maxi evasore fiscale? Pote­va il direttore di Repubblica non sapere che uno dei suoi editorialisti-moralisti, sempre secondo i pm, fa­ceva la cresta sui soldi della sua università?

Chissà se a queste domande qualcuno darà mai ri­­sposta, chissà se su ognuno di questi fatti saranno aperti fascicoli giudiziari, chissà se per scoprirlo ver­ranno messe in atto migliaia di intercettazioni. O se solo Berlusconi doveva sapere per forza se qualcu­no, tipo Tarantini, per farsi bello pagava, o promette­va ricompense a qualche ragazza per infilarsi nel suo letto? Per scoprire qualche cosa di più su questo fatto privato la Procura di Napoli ha sottratto uomini ed energie alla lotta al crimine. E, non contenta di aver perso l’inchiesta per manifesta illegalità, minaccia di rifarsi aprendo nuovi filoni di indagini-gossip. La camorra ringrazia. Alessandro Sallusti, 28 settembre 2011

.…..Tra tutte, la domanda che più ci intriga è quella relativa a BERSANI: poteva non sapere Bersani che il suo fidato braccio destro, Penati, aveva tanti soldi  per la sua (di Penati) e la sua (di Bersani, campagna elettorale e poteva non sapere da dove li prendesse? E come mai i PM di Monza non l’hanno nè interrogato come teste magari per trasformarlo subito dopo in indagato, nè hanno interrogato come teste il competitor di Bersani alle primarie del PD, Franceschini,  il quale a sua volta si chiedeva da dove prendesse tanti sldi Bersani per la sua dispendiosa campagna elettorale. Misteri1 Come quello proosto oggi sulla stampa dal sen. Tedesco il quale si chiede perchè mai Vendola non è indagato come il genero per associazione a delinquere. Ma si sa. In Italia taluni  pm sono guerci, guardano da una parte sola. g.

NAPOLI: MENTRE I PM SPIANO IL GOSSIP, LA CAMORRA FA SOLDI E UCCIDE

Pubblicato il 28 settembre, 2011 in Costume, Cronaca | No Comments »

Ossessionati dal premier e dal­le indagini sul centrodestra (P4, P3 bis, voto di scambio all’estero, le frequentazioni del Cavaliere con Sara Tommasi, Cosentino e i casalesi, Cesaro alla provincia, Caldoro indagato per epidemia colposa, i filoni sui consiglieri del Pdl, prima ancora Saccà e le star­let televisive, eccetera) i pm napo­letani sembrano dimenticarsi di tutto il resto.

I dati scioccanti dell’Antima­fia, delle forze di polizia, delle ca­mere di commercio, delle asso­ciazioni antiracket raccontano di una città ostaggio della malavi­ta ( oltre 100 clan)per un giro d’af­fari da decine di miliardi.

L’ultima analisi semestrale del­la Dia è impietosa nonostante si rifaccia ai soli reati denunciati (dato che non corrisponde ai rea­ti effettivamente consumati pari al doppio se non al triplo). Offre uno spaccato che la dice lunga sullo stato dell’arte a Napoli e nel suo hinterland.

OLTRE CENTO CLAN PER UN MARE DI COCA
Come diretta conseguenza di una pax camorristica dovuta al riequilibrio delle forze in campo uscite malconce dalle guerre fra­tricide (su tutte quelle fra clan Di Lauro e Scissionisti) e dallo smantellamento di alcune im­portanti famiglie a causa dei pen­titi, gli omicidi risultano in calo. «Solo» 68 rispetto ai 106 dell’an­no precedente secondo i dati for­niti dalla corte d’Appello di Na­poli e spacciati per un successo della magistratura quand’inve­c­e non tengono conto delle dina­miche sotterranee di una crimi­nalità camaleontica che si ripro­duce a ciclo continuo. Gli anali­sti della Dia, per dire, non esulta­no nemmeno un po’ posto che la camorra nel 2011 incassa utili per 13 miliardi di euro (di cui ol­tre otto e mezzo dalla vendita de­­gli stupefacenti) e ad oggi «ha sva­riati elementi di criticità» in uno «scenario fluido e instabile» che potrebbe sfociare, nella zona nord,in una nuova guerra.L’ulti­mo omicidio di tre giorni fa con­ferma che gli equilibri nell’area nord di Napoli sono nuovamen­te saltati: si va verso una nuova faida, come quella del 2004 tra Di Lauro e Scissionisti. Il continuo sequestro di armi e munizioni (un attentato è stato sventato tre giorni fa, il 25 settembre, con il ri­trovamento in un tombino di un lanciarazzi anticarro a San Gio­vanni a Teduccio) indica che i gruppi criminali si stanno di nuo­vo armando per combattere. Il più aggiornato screening sulle fa­miglie camorriste «operative» quantifica in 39 clan e 6 gruppi minori in città oltre a 41 clan e 17 formazioni di secondo livello dei dintorni più prossimi. E ancora. Nell’ultimo anno lo spaccio di droga, in centro e in periferia, se­condo le statistiche dell’«Osser­vatorio sulla criminalità» è cre­sciuto del trenta per cento. Addi­rittura il 310 per cento in più a Scampia, «un mondo a sé», l’ha definito il presidente dell’asso­ciazione Noi Consumatori, Ange­lo Pisani, «perché, nonostante la fine della guerra di mafia, è diven­tato un vero e proprio fortino blindato, nella sua più fiorente at­tività redditizia: lo spaccio».

IMPRESE STROZZATE ED ECONOMIA MALATA
Se l’economia napoletana è malata terminale la ragione è da ricercare nel cancro camorristi­co che infetta e manda tutto in metastasi. Sfogliando il rapporto della Camera di commercio del­la provincia di Napoli, su un cam­pione base di 500 imprese, il 30 per cento degli addetti ai lavori considera «determinante» il ruo­lo che la criminalità organizzata ha sul territorio. I clan imperver­sano nell’edilizia (58,9 per cento), nel commercio (32,3 per cento), nei lavori pubbli­ci (33,3 per cento) per un ritorno eco­nomico del 34 per cento sul totale fatturato dalle im­prese. A detta del generale della Guardia di Finanza, Giuseppe Mango, l’evasio­ne fiscale ai piedi del Vesuvio cresce ormai vertigi­nosamente. Per non parlare del­l’evasione del­­l’Iva (45%) e del­l’Irap per oltre 60 milioni di euro. I portabandiera sono i colletti bianchi e i liberi professionisti, i miliardi di euro sottratti a tassazione (quelli sco­perti dalla finanza, sia chiaro) ammontano a 2,6 miliardi di eu­ro. La cifra reale è dieci volte su­periore. Non solo la grande eva­sione: l’emissione dello scontri­no nei bar e nei negozi a Napoli è un optional. Su 34.966 controlli, solo il 60 per cento è risultato in regola.

L’USURA IMPERVERSA MA FA POCO NOTIZIA
La piaga delle piaghe, quella col minor numero di denunce, poco perseguita dall’autorità giu­diziaria, riguarda il fenomeno dell’usura. Il rapporto dell’asso­ciazione «Sos Impresa- Confeser­centi » posiziona la Campania (e Napoli la fa da padrone) fra le re­gioni col più alto numero di com­mercianti vessati dagli strozzini: 32mila le vittime presunte, un ter­zo dei titolari di attività commer­ciali, un costante versamento di liquidi per interessi anche del 300 per cento, pari a un giro d’af­fari che sfiora i tre miliardi di eu­ro l’anno. Nell’apposita «mappa della delittuosità nelle province italiane» Napoli è assolutamen­te in testa per quanto riguarda le truffe e le frodi informatiche (5.301), la ricettazione (1.451) le estorsioni (294). Il «Comitato di solidarietà delle vittime dell’usu­ra » nel 2010 ha raccolto appena 61 domande su 84 presentate da vittime di estorsioni (deliberan­do un ristoro per 4 milioni di eu­ro) mentre per l’usura le doman­de accolte sono state 20 su 51.

In crescita l’usura mordi e fuggi, con la restituzione dei prestiti, rincarati da interessi folli, entro le 48 ore successive.

IL FALSO FA GRANDI AFFARI MA IN PROCURA NON È DI MODA
Il gigantesco business della contraffazione (vestiti, scarpe, utensili, farmaci) è poco perse­guito dalla procura nonostante l’invasività del fenomeno visibi­l­e a ogni angolo di strada stia por­tando, scrive la Dia, a «pesanti conseguenze negative in termini di fatturato e di immagine per le imprese produttrici e di distribu­zione. La problematica si riverbe­ra sull’erario con riferimento al mancato versamento delle impo­ste sui redditi e dell’Iva e si riflet­te sul mercato del lavoro, tradu­cendosi in danno occupaziona­le, perdita di posti di lavoro e in­cremento della manodopera al nero e/o clandestina, nonché in mancati investimenti dei produt­tori stranieri che non sono inte­ressati a investire in paesi ove la contraffazione è dilagante». La catena illegale di distribuzione delle griffe false prevede la vendi­ta porta a porta, attraverso mi­gliaia di ambulanti, per corri­spondenza, tramite internet «ma anche lo smistamento attra­verso le grandi catene commer­c­iali che pongono in vendita pro­dotti falsificati accanto a quelli originali». Le aree del falso indu­striale resistono e si ampliano ai Quartieri Spagnoli, a Ottaviano, Palma Campania, Terzigno e San Giuseppe Vesuviano. In ma­teria di contraffazione, invece, picchi registrano a Ponticelli e Barra San Giovanni (250% in più) e nella zona del porto (+ 120%).

I DATI CONFERMANO: È LA PATRIA DI FURTI E SCIPPI
Rubare una macchina, a Napo­li, è come bere un bicchier d’ac­qua. Nessuno può sorprendersi, dunque, se in Campania le stati­stiche evidenziano in oltre 20mi­la l’anno i furti di auto (moto e motorini ancora di più) come te­stimoniato dai dati incrociati fra Viminale, Viasat, Aci e rivista Quattroruote . Solo a Napoli l’ulti­mo rilevamento conteggia in 14.908 le vetture portate via: più di quaranta auto al giorno, due vetture l’ora. Altro dato sconcer­t­ante riguarda i colpi negli appar­tamenti privati che quest’estate hanno raggiunto vette incredibi­li nei quartieri collinari (il 25% in più rispetto a l’anno scorso) con 1.200 case svaligiate a fonte delle 900 «ripulite» l’anno preceden­te. Se è vero che il trend degli scip­pi appare in leggero calo, negli ul­timissimi giorni le forze dell’ordi­ne registrano un’impennata di «strappi» di orologi, anelli, brac­ciali e catenine dovute al prezzo dell’oro salito vertiginosamen­te. Crescono i furti con «spacca­ta » (distruzione della vetrina e asporto della merce esposta) e i cosiddetti «cavalli di ritorno» (furto di un’auto,richiesta di mil­le o duemila euro per riaverla in­dietro).

VARIE ED EVENTUALI: LE ILLEGALITÀ DIFFUSE
Sono tanti i campi dove la magi­s­tratura non incide come dovreb­be. L’abusivismo edilizio è strari­pante. E restando al tema «case», poco si fa contro i boss che deci­dono l’assegnazione degli allog­gi di edilizia popolare nei rioni­ghetto di Scampia, Secondiglia­no, San Giovanni a Teduccio, Barra e Ponticelli. Che dire poi della piaga delle baby gang. O del­le mafie straniere, specie quella albanese e nigeriana. L’illegalità diffusa raccontata con amarezza dal presidente della corte d’Ap­pello, Antonio Buonajuto (abusi­vismo commerciale, parcheggia­tori abusivi e via discorrendo) va di pari passo alla gigantesca offer­ta della camorra di servizi crimi­nali all’apparenza legali, così ben descritta anche dal rapporto ecomafia di Legambiente.Il qua­dro d’insieme fa paura. Ma è nul­l­a al confronto con le performan­ce sessuali del nostro presidente del Consiglio. Il Giornale, 28 settembre 2011
………….Oggi è il 28 settembre, e un tempo si celebravano le 4 giornate di Napoli, la rivolta spontanea dei napoletani, sopratutto degli scugnizzi, contro i tedeschi che avevano fucilato alcuni marinai, iniziata all’alba del 28 settembre 1943 e conclusasi  dopo 4 giorni, appunto, con la cacciata dei tedeschi da Napoli. Oggi a Napoli si combatte un’altra guerra, quella della camorra contro lo Stato e mentre questa guerra impazza per le strade della città più bella del mondo, mietendo vittime e distruggendo tutto ciò che incontra sul suo cammino,  quelli che lo Stato ha delegato a custodi e a difesa della legalità passano il tempo a fare i guardoni e i sentoni (  se si perdona il neologismo) dal buco della serratura e dallo spiraglio delle porte, dimentichi di tutto il resto.Povera Napoli! e poveri noi. g.