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LIQUIDARE SANTORO: OTTIMA MOSSA. FA BENE ALLA RAI

Pubblicato il 7 giugno, 2011 in Costume, Politica | No Comments »

Il giornalista Michele Santoro in una puntata di Annozero Nei palinsesti futuri della Rai, così come disegnati dal direttore generale, Lorenza Lei, non si trova nessuna trasmissione di Michele Santoro. Chi, per questo, griderà alla censura sarà ottuso tanto quanto chi inneggerà alla liberazione. Entrambe queste reazioni, oltre ad essere prive di senso, dimostrano di avere assorbito l’incantesimo di cui è stato capace Santoro: farsi credere unica voce sana in un mondo privo di libertà e colmo d’asserviti al potere. Ci vuole la fantasia allucinata dei gruppettari d’un tempo, per abboccare ad una simile fandonia. In realtà è la Rai a portare audience a trasmissioni come Annozero, le quali non portano, nella dovuta proporzione, quattrini alla Rai. È stata la Rai a donare il sangue a Santoro, non certo quest’ultimo a rivitalizzare le esangui casse della televisione statale. Il perché di ciò non è difficile da capirsi: è la Rai, con il suo ruolo di concessionaria pubblica, a dare valore alle trasmissioni d’informazione, ed è la Rai, con il suo scarso affollamento pubblicitario, essendo finanziata per la metà con una tassa (odiosa e ingiusta), a non costringere questo genere di conduttori a dovere accettare le regole del mercato. È vero quel che dice Santoro, circa gli alti indici d’ascolto. Ma quel tipo di numeri ha un senso se si porta dietro gettito pubblicitario, altrimenti sono mera muscolarità dell’etere. Adunate da Piazza Venezia al plasma. Il primo a sapere bene queste cose è proprio Santoro e per questo aveva accettato, appena un anno fa, di far le valigie. Dopo averle riempite di soldi. Quando lui stesso si misurò con le regole e i tempi della televisione commerciale, ideando trasmissioni come Moby Dick, in Mediaset, ha rimediato sonore sconfitte. Non era cambiato Santoro, che resta un maestro d’egocentrismo e istrionismo televisivo, era cambiato il rapporto: Mediaset non gli portava audience, ma si aspettava che fosse lui a farlo. Stanno ancora aspettando. La lezione fu importante e lui seppe capirla. Sono gli altri che non capiscono, ostinandosi a combattere in una trincea arretrata. Fu allora che l’uomo proveniente dalla sinistra maoista, reso famoso dalla pessima stagione del giustizialismo forcaiolo e del qualunquismo antipartitico, decise d’abbracciare l’ulivismo prodiano e farsi eleggere al Parlamento Europeo. Mossa furbissima, perché gli permise di dare in fretta le dimissioni da quel seggio (del resto poco frequentato) e di farlo in polemica con le regole relative all’apparizione televisiva di coloro che fanno politica. Se ne sono dimenticati quasi tutti, ma ne conserva buona memoria l’interessato. Si riverginò nella polemica con quelle regole e rompendo a sinistra, il tutto grazie a un signore che spadroneggiava con monologhi lunghissimi, in una trasmissione che parlava seriamente di Rockpolitik: Adriano Celentano. Quando si dice la gratitudine: Santoro chiude la sua stagione in Rai tornando a dare la parola a Celentano, che fa liberamente campagna referendaria senza rispondere a nessuna regola. Del resto, non era proprio contro le regole dell’equilibrio che si erano, assieme, battuti? Inevitabile parlare di Santoro, ma la vera protagonista della decisione è la direttrice generale. Mi sbaglierò, ma credo che ella abbia trovato un’interessante chiave per ridare fiato ai conti della Rai: disarmando le trasmissioni politicizzate, i cui costi sono alti, e riuscendo a farlo (a quel che sembra) senza pagare i dobloni che il suo predecessore era pronto a scucire, la Lei toglie attenzione e significato politico alla determinazione dei palinsesti. Certo, resta tutto il vasto capitolo delle spese allegre e delle produzioni agli amici degli amici, ma voglio vederti a difendere questo genere d’affari se viene meno la motivazione ideale della resistenza contro il tiranno. Ho l’impressione che se potesse chiudere anche i telegiornali, sostituendoli con le informazioni su quel che avviene, non esiterebbe. La Lei può imboccare la strada del disarmo (politico) unilaterale perché il principale concorrente, Mediaset, non ha nulla di lontanamente paragonabile alle trasmissioni tipo Annozero o Ballarò. Semmai qualche pallida imitazione, qualche contenitore che gareggia in faziosità senza competere in ascolti. Il che è inevitabile, come la passata esperienza di Santoro a Italia 1 dimostra. Solo che la Lei ne approfitta, liberandosi di pesi e costi. Forse farebbe bene ad approfittarne anche Mediaset. I telecombattenti andranno a La7? Può darsi, perché quando si è bravi si trova sempre un illuso disposto a darti soldi (non propri, perché in quel caso si trovano interlocutori piuttosto attenti). Ma in nessun luogo televisivo potrà mai ricrearsi quel rapporto possibile solo in Rai. Il che, non mi si fraintenda, non significa che creda indispensabile la sua presenza nel mercato, ma, al contrario, che la sua sola esistenza distorce totalmente il mercato. Prima o dopo si tornerà a parlare di cose serie, accorgendosi che non serve una roba denominata «servizio pubblico». Senza neanche esserlo. Davide Giacalone, Il Tempo, 7 giugno 2011

FACCETTA NERA A SCUOLA, INTONATA A LECCE AL SAGGIO DI FINE ANNO

Pubblicato il 5 giugno, 2011 in Costume, Cronaca, Politica | No Comments »

Un momento del saggio di fine anno che ha suscitato polemiche Un momento del saggio di fine anno che ha suscitato polemiche

LECCE – Nel saggio di fine anno degli alunni dell’istituto di Lecce delle suore Marcelline, dedicato ai 150 anni dell’Unità d’Italia, c’é stato spazio anche per cantare ‘Faccetta nera’.

E’ accaduto ieri mattina, dopo vivaci polemiche che avevano accompagnato nei giorni scorsi la scelta fatta dalla direzione scolastica dell’istituto. La protesta era partita dal padre adottivo di una bimba di colore, il quale riteneva offensivo che nel saggio dedicato all’Unità dell’Italia si cantasse un brano anni ‘30, del periodo fascista, che inneggiava alla conquista dell’Etiopia.

Altri genitori avevano condiviso la protesta e la direzione dell’Istituto aveva dovuto convocare i genitori dei piccoli alunni delle elementari per motivare la loro scelta. Nessuna adesione agli ideali di quel periodo, avevano spiegato le suore, ma il programma ministeriale prevede la conoscenza dei periodi storici antecedenti e successivi all’Unità d’Italia, quindi anche il fascismo. Così ‘Faccetta nera’ non solo non è scomparsa dal programma delle prove degli alunni, ma è stata intonata anche stamani nel saggio di fine anno.

………Ecco una prova di vera unità nazionale che supera le barriere della guerra civile e racconta la storia senza farsi coinvolgere dalla pasisone politica. Oniore dunque al coragigo delle suore di Lecce che hanno dato una bella lezione di civiltà e di maturità ai tanti tromboni che vorrebbero celebrare i 150 anni dell’unità nazionale con la riserva mentale per un periodo  non breve nè privo di  significato della storia nazinale che si vorrebbe cancellare come se non fosse mai esistito. Così non è e ricordarlo nell’ambito dei programmi scolastici, come hanno sottolineato le suorine di Lecce, non significa aderirvi. Ma vallo a spiegare ai faziosi, agli ottusi e agli sciocchi. Impresa impossibile,  come mettere a morte tutti gli imbecilli. g.

RICORDANDO GIOVANNI FALCONE

Pubblicato il 23 maggio, 2011 in Costume, Giustizia | No Comments »

Ieri sera RAIUNO ha trasmesso una fiction per ricordare Giovanni Falcone, il giudice antimafia di Palermo, nel 19° anniversario della strage di Capaci nella quale trovarono la morte lo stesso giudice, la moglie, e tre agenti della scorta, tra cui il pugliese Vito Schifani. La fiction ha narrato con encomiable sforzo di verità la battaglia intrapresa da Falcone, da Borsellino (che fu ucciso due mesi dopo in un altro attentato di mafia) e dagli altri straordianri protagionisti di quella memorabile stagione di guerra tra lo Stato e la mafia, ma ha ingorato i tanti retroscena di quella stagione politico-giudiziaria, primo fra tutti la guerra ad oltranza che Falcone dovè subire da chi ne impedì la nomina a procuratore di Palermo e successivamente osteggiò  la sua  nomina a capo della  procura nazionale antimafia ipotizzata da Falcone per accentrare ijn un unico organismo investigativo tutte le inchieste di mafia. Questa matitna, quasi a commento della fiction,   il Corriere della Sera pubblica una accorata intervista alla vedova  di Vito Schifani, poliziotto pugliese morto nell’attentato di Capaci, la stessa che durante i funerali nella cattedrale di Palermo lanciò un  accorato messaggio “agli uomini della mafia che ci sono qua dentro”. La lettura dell’intervista, ad iniziare dal titolo, è assai istruttivo.

«Incontrai Ciancimino, l’ultima delusione»

Rosaria Schifani, vedova di uno degli agenti del giudice: «Ho perso la speranza di sapere la verità»

GENOVA – È un anniversario vissuto con rabbia da Rosaria Schifani, diciannove anni dopo quel suo struggente «vi perdono, ma inginocchiatevi». Dopo il monito lanciato «a mafiosi e uomini collusi dello Stato» davanti alle bare di Vito, il marito, di due agenti, di Giovanni e Francesca Falcone. No, non torna nemmeno quest’anno a Palermo per le celebrazioni, stordita da quanto succede dentro e fuori i tribunali: «Ho perso ogni speranza di conoscere la verità. Diciannove anni di delusioni…».

Rosaria Schifani, vedova di Vito, uno degli agenti di scorta del giudice Giovanni Falcone, ucciso il 23 maggio '92 nella strage di Capaci ai funerali del marito
Rosaria Schifani, vedova di Vito, uno degli agenti di scorta del giudice Giovanni Falcone, ucciso il 23 maggio ‘92 nella strage di Capaci ai funerali del marito

Un’amarezza profonda emerge con sofferenza, come se non volesse spiegarne la causa dirompente, limitandosi a frecciate fulminanti, lanciate durante una agitata passeggiata su un lungomare ligure, da tempo approdo e rifugio per lei e Emanuele, il ragazzo che ha gli stessi anni della strage di Capaci: «La mafia non è morta. Si è infiltrata dovunque, qui al Nord. E giù, a Palermo, il pool antimafia c’è ancora? Non lo vedo più. Vedo solo magistrati che litigano. Soprattutto su quel Massimo Ciancimino che mi ha fatto piangere…».
Si blocca, riprende nervosa, si pente d’aver pronunciato le ultime parole, poi si sfoga e spiega d’essere infuriata con se stessa: «Ma lo capisci che io ho implorato aiuto a questo impostore, che ho chiesto di fare giustizia al figlio del vecchio Ciancimino?».
È una rivelazione che la fa star male. C’è una panchina. E c’è un bicchiere d’acqua. Sorseggiato fra interrogativi posti a se stessa: «Perché l’ho fatto? Perché è accaduto? Chi me l’ha fatto fare?».
Ed ecco venir fuori il racconto di un incontro casuale fra la giovane vedova che nel ‘92 s’aggrappò al cardinale Pappalardo e il rampollo di «don» Vito Ciancimino, il figlio del sindaco da lei sempre considerato simbolo del male: «È accaduto l’otto dicembre, a Fiumicino. L’ho fermato io. L’ho supplicato piangendo di dire la verità. E mi sono quasi affidata a lui, invece di ignorarlo e di maledirlo come bisogna fare con quanti hanno fatto affari e coperto gli assassini di Cosa Nostra. Perché l’ho fatto? Io ce l’ho con me stessa, sciocca, caduta nella trappola. Ma ce l’ho soprattutto con chi mi aveva fatto credere che quel furfante fosse davvero affidabile. Lo vedevo protetto dalla polizia, coccolato dai magistrati, all’università accanto a Salvatore Borsellino, osannato nelle trasmissioni televisive, sui plachi della politica, perfino a Verona con gli uomini di Di Pietro e, fino a qualche settimana fa, in comunella con i giornalisti antimafia al convegno di Perugia…».
È uno sfogo accorato. Scandito dalle riflessioni sui litigi fra i magistrati di Palermo e Caltanissetta per la gestione di Ciancimino junior: «Come possiamo celebrare l’anniversario mentre questo caso divide chi ancora indaga? Al punto che devono intervenire il procuratore nazionale Piero Grasso e il Consiglio superiore della magistratura, costretti ad assistere pure agli scontri fra i pm di Palermo e il presidente dell’Associazione magistrati. Tutto questo perché Ciancimino l’avevano fatto diventare con le sue parole il fulcro della verità. Ma non si dovrebbe cercare di andare oltre le parole, facendo indagini vere?».

Pone il quesito con rabbia Rosaria perché si danna ancora di quella invocazione rivolta fra le lacrime a Fiumicino, ricostruendo l’incontro: «Io ero in partenza per Palermo con Manù, il mio Emanuele. Mi accorgo che seduto a un tavolo dell’angolo Mc Donald c’è una bella famigliola. Lei alta e bella, un bimbo vispo e lui, il mezzo pentito, osservato a breve distanza da due agenti. Il cuore sussulta. Io e Ciancimino a un passo. Lo scruto. Non ha uno sguardo rassicurante. Ma un’idea si insinua. Tutti lo decantano. Forse debbo anch’io spingerlo a dire la verità. Trovo un post-it e scrivo in fretta poche parole: “La vita è strana, ci riserva delle sorprese, io moglie di un poliziotto ammazzato a Capaci, lei figlio di un mafioso…”. E lo lascio scivolare sul suo tavolo allontanandomi a passo veloce, rimproverata da Manù che non era riuscito a dissuadermi e inseguita da uno dei due poliziotti. “Ciancimino le vuole parlare”. Mi fermo. Si, volevo parlargli anch’io. Eccolo davanti a me. E io scoppio in lacrime davanti al figlio di “don Vito” chiedendogli di fare giustizia, come fosse un magistrato, un vero simbolo operativo dell’antimafia… E andiamo avanti così per qualche minuto. Parlando come se fossimo sullo stesso piano. Ascoltando le sue parole contro i potenti, pure contro De Gennaro. “Ho il nome del signor Franco, non me lo fanno fare”. Io stordita. “Parlerò, anche se mi ammazzeranno”. E io a ringraziarlo, gli occhi su Manù: “Lo faccia per questo ragazzo che cresce senza il padre”. Io commossa a sentirlo: “Custodirò questo suo biglietto per il prossimo libro”. E io a credere, fra le lacrime, a un impostore che teneva in casa i candelotti di dinamite…».Non sa cosa dire su De Gennaro ed è turbata Rosaria dalle contestate rivelazioni sull’allora ministro dell’interno Mancino: «Non sono più sicura di niente. Ma è assurdo che tanti magistrati fossero invece sicuri di Ciancimino. Ci servono eroi vivi in questo Paese. Ma eroi alla Ninni Cassarà. Inquirenti come lui che facevano indagini serie. Anche con gli infiltrati per scavare e scoprire. Non solo affidandosi a pentiti infidi, alle parole, a mafiosi pagati con stipendi certo superiori al mio. Ci pensino i magistrati che vanno ai convegni, in tv, a presentare libri. La mia diffidenza di sempre mi porta a pensare che tanti cercano un po’ di visibilità per se stessi. Anche a costo di usare un personaggio dubbio e ambiguo. E ci sono caduta anch’io. Ma lo Stato non dovrebbe metterci in condizioni di diventare creduloni, con le cicatrici che ci portiamo addosso». Felice Cavallaro, Il Coriere della Sera, 23 maggio 2011

I PATACCARI:INGROIA, TRAVAGLIO E LE RUGGENTI ESTATI DEL GIUSTIZIALISMO DA SPIAGIA

Pubblicato il 20 maggio, 2011 in Costume, Politica | No Comments »

Marco Travaglio, nato a Torino il 13 ottobre 1964. Sposato con Isabella, ha due figli. Prima di occuparsi, con grande profitto, di cronaca giudiziaria ha scritto di esteri, al diocesano Nostro Tempo, di calcio e di economia, al Giornale di Montanelli. Il primo incontro con “il Vecchio” del giornalismo italiano lo organizza lo scrittore torinese Giovanni Arpino, che si porta il giovane Travaglio a Milano, nell’ottobre ’87. Montanelli non può saperlo, ma quel Travaglio a cui dà del “mammòzio” avrebbe assimilato il suo verbo al punto di arrogarsi, quindici anni dopo, la sua intera eredità. Al Giornale si stupiscono per lo straordinario senso catalogatore del giovane cronista, ma per vederlo in azione tra le carte delle procure bisogna aspettare Tangentopoli e l’incontro con il procuratore generale Marcello Maddalena. Nel romanzo di formazione di Marco Travaglio, questo è il momento della maturità: l’efficientissimo cronista tuttofare diventa un “grande inquisitore da far impallidire Vishinsky”, come ebbe a vezzeggiarlo lo stesso Montanelli. Per il suo nome, che allora firmava giusto tre libri, non basteranno interi scaffali di libreria.

L’ossessione per il Cav., ereditata dal grande “Vecchio”, si rivela prodigiosa: mette d’accordo cuore e portafoglio, alza le vendite e garantisce un’indiscutibile superiorità morale. Travaglio è tra i primi a combinarla con le potenzialità del contatto “diretto” con i lettori, via Internet: il blog Voglio scendere e la videorubrica settimanale Passaparola, ospitata dal blog di Beppe Grillo, gli garantiranno un sostegno contagioso. Il suo timbro gentile, a cadenza salmodiante, educe e seduce l’ascoltatore, che assiste allo sminuzzamento dei fatti della settimana. Dal 2006 l’offerta si arricchisce: agli spazi abituali per coltivare la militanza si aggiunge un editoriale a ogni puntata di “Annozero”, in cui Travaglio parla al grande pubblico, col piglio del catechista navigato. Il successo è travolgente e nel giro di tre anni Travaglio, con Antonio Padellaro, dimostra che ce n’è abbastanza per farci un giornale – il Fatto quotidiano, di cui è vicedirettore. L’apostolato legalitario lo spinge a trattare del Cav. anche a teatro (prima con “Promemoria” e ora con “Anestesia totale”). Nemmeno Berlusconi, limitatosi all’intrattenimento sulle navi da crociera, aveva osato tanto.

Marco Travaglio manovra il suo archivio con estrema precisione. Gli errori – una volta incolpò Pier Ferdinando Casini al posto del quasi omonimo Carlo – si contano sulle dita di una mano. Non è poco per uno capace di rovesciare carrettate di carte giudiziarie su ogni inezia. E, checché ne pensi il 41 per cento delle italiane – che l’ha votato amante ideale –, Travaglio è uno fedele. Sta cercando di dimostrarlo, soprattutto nell’ultimo mese, anche a un vecchio compagno di vacanze, il pm di Palermo Antonio Ingroia. Certo, nel 2003, senza saperlo, Ingroia gli aveva portato in ferie un mafioso, Giuseppe Ciuro. Ma non c’è motivo di rancore: le sue indagini hanno permesso a Travaglio, per un paio d’anni, di caricare con i “pizzini” dei Ciancimino i propri cannoni anti Cav. Dopo l’arresto di “Massimuccio”, Travaglio gli ha dedicato una manciata di editoriali, giocandosi le poche carte possibili: il documento contestato a “Massimuccio” è soltanto uno, Ciancimino Jr. è “un enigma”, forse è manovrato e comunque “è il classico testimone imputato per reati connessi e, come tale, non ha l’obbligo di dire la verità”. Il 6 maggio, mentre divaga con una splendida intervista a Renato Zero, Travaglio prova l’impossibile: fare le pulci al capo della Dda, Ilda Boccassini, scettica sull’affidabilità di Ciancimino Jr., rinfacciandole l’uso della teste Stefania Ariosto, nel 1995. Ma all’alta fantasia qui mancò possa, e i periodi asettici del miglior Travaglio hanno trascurato il caso Ciancimino, lasciandolo a un collaboratore del Fatto, Giuseppe Lo Bianco. C’è il rischio che Ingroia, per le vacanze di quest’anno, si scelga qualcun altro. Fonte: Foglio Quotidiano, 19 maggio 2011

NELLA POLVERE UN FIGLIO DELLA SINISTRA SNOB

Pubblicato il 16 maggio, 2011 in Costume, Politica estera | No Comments »

Accusato di stupro e  violenza sessuale ai danni di una cameriere di lussuoso albergo di New York, è stato arrestato il capo del Fondo Monetario Internazionale Dominique Strauss-Kahn. La notizia ovviamente è di quelle chescuotono l’opnione pubblica, ancor di più quella francese visto che Strauss era cinsiderato il candidato (socialista)più accreditato a succedere a Sarkozy all’Eliseo. Ecco il commento di Raffaele Iannuzzi sul Tempo di oggi.

Dominique Strauss-Kahn L’uscita di scena di Dominique Strauss-Kahn, dopo l’arresto clamoroso, è pacifica, secondo, Jacques Attali, vecchia eminenza grigia del «Re» Mitterrand. DSK non sarà candidato alle primarie dei socialisti per le presidenziali: così Attali durante un’intervista televisiva. Secondo il settimanale “Marianne”, antisocialista da sempre, qualcosa è oggettivamente mutato non soltanto nella cronaca politica francese, ma nella storia della sinistra tout court. Perché DSK non era un socialista qualunque. Nato in una ricca famiglia ebraica, di origini sia ashkenazite che sefardite, e vissuto in Marocco, dunque con un taglio di eclettismo culturale notevole, l’economista, ministro e grande capo del FMI, faceva parte di quella schiera di eletti abituata a non farsi mancare niente. Economista a vocazione macro-economica, DSK ha fatto tutto nella vita: il professore, il ministro e il tecnocrate. Sempre avendo a cuore la politica e quel certo non so che cosmospolita e globalizzatore proprio dei socialisti cresciuti o all’Ena, come Rocard, o alla scuola di Jospin, come l’intemperante direttore del FMI. Di questa grande famiglia snob, il socialismo borghese, DSK si è sempre sentito figlio legittimo. Del resto, la sua azione politica come ministro è stata apprezzata trasversalmente e la sua eleganza istituzionale, idem. Vantava buoni rapporti con Chirac e pessimi con i comunisti. Un vincente.

Ma un vincente in un’età dolorosamente segnata dalla presenza di due malattie spirituali: il moralismo e il nichilismo. Un’accoppiata apparentemente bizzarra, eppure così scandalosamente incarnata nei gesti e nei comportamenti di questi «vincenti» di sinistra, in Italia e Oltralpe. La fine di questa sinistra rappresenta un turning point storico. DSK è venuto in Italia, a far da sponsor, con il suo perfetto italiano, all’Ulivo, seguendo il codice rosso della nostra sinistra bacchettona: alla gogna Berlusconi. Un ebreo contemporaneamente mediterraneo e renano come DSK non è riuscito ad intercettare il meglio della tradizione etico-religiosa dell’ebraismo, mentre non ha avuto problemi a sposare in terze nozze e in sinagoga l’attuale moglie. In quest’Europa corrotta e moralista, il fariseismo è d’obbligo. La fine di questi personaggi segna anche la crisi di questa Europa. L’Europa di Jospin, altro grande fustigatore dei costumi altrui e mentore del futuro capo del FMI.

Tutto si tiene in questa cornice. Non si può dire, ma è vero: era solo questione di tempo. Moralismo e nichilismo, nel deserto di fede, valori ed etica. La fine del socialismo nazionale e cristiano di Péguy e l’ascesa dei tecnocrati moralisti e nichilisti. Era tutto scritto nel copione. In quella suite da 3000 dollari di New York si è consumato il percorso storico dell’ultima generazione di «vincenti» senza vittoria. Denaro, lussuria e potere, scriveva Eliot. Si è ricchi se si rinuncia a molto, non pretendendo tutto. La fine di un tecnocrate inquilino dei piani alti, ma non delle stelle. Raffaele Iannuzzi, Il Tempo, 16/05/2011

BERLUSCONI: NON PAGO IL CANONE TV

Pubblicato il 14 maggio, 2011 in Costume, Politica | No Comments »

Lì, accanto al candidato sindaco Gianni Lettieri, aveva invitato i cittadini a non credere alle «menzogne» diffuse dalla stampa, dalle radio e dalle televisioni «della sinistra». «Ho visto in questi giorni “Ballarò″ e “Annozero” ed è davvero uno scandalo: in nessun Paese al mondo è ammissibile che la televisione pubblica, pagata con i soldi dei cittadini, possa arrivare a tale grado di faziosità». Ma a Latina il Cavaliere ha lasciato spazio anche a una precisazione «per la stampa avversaria: io il canone non l’ho mai pagato perché ho fior fior di ragionieri che pensano alla bisogna visto che sono il primo contribuente italiano». Il clima è incandescente. Al teatro D’Annunzio non sono mancate le tensioni tra i sostenitori del candidato del Pdl Giovanni Di Giorgi e quelli del centrosinistra. Il premier ha dribblato lo scontro, entrando da un ingresso secondario. Poi se l’è presa con Fini che nel pomeriggio ha chiuso la campagna elettorale a Bologna con Pierferdinando Casini. Il premier è critico soprattutto con la formazione sponsorizzata da Antonio Pennacchi. «Il “listone fasciocomunista” che va dall’estrema sinistra a quell’esponente di destra è ciò che Fli e la sinistra stanno tentando di fare a livello nazionale per far fuori quell’ostacolo insormontabile che è Silvio Berlusconi: qui dobbiamo dargli la prima lezione, non ce la farete mai». Dalla platea è arrivata una pioggia di fischi sul presidente della Camera e allora Berlusconi ha precisato, sorridendo: «Non si fischia la terza istituzione dello Stato, siete degli screanzati». Il premier ha fatto anche un passaggio sugli immigrati: l’Italia è «tenuta ad accogliere con dignità e generosità gli immigrati senza fare tragedie: se il Consiglio europeo ci darà una mano bene, altrimenti non facciamo tragedie su una cosa che possiamo tranquillamente risolvere da soli». Berlusconi ha ribadito che «l’accoglienza fa parte della nostra storia perché siamo un popolo di emigranti e ci sono milioni di italiani in giro per il mondo» e dunque «dobbiamo accoglierli con dignità e non dobbiamo chiedere l’elemosina a nessun Paese europeo». Poi è tornato sulla sfida delle Amministrative: «La sinistra sta aspettando i risultati di queste elezioni e, con la solita doppia faccia, se dovesse vincere dirà che erano elezioni nazionali e che il governo deve andare a casa, mentre se dovesse perdere dirà che erano semplici elezioni locali». Invece, ha ribadito il presidente del Consiglio, «il voto serve anche per sostenere il governo: sono convinto che vinceremo perché abbiamo vinto tutte le elezioni». Non dimentica la giustizia (e ancora una volta il presidente di Montecitorio): «C’è stato un accordo preciso tra Fini e l’Anm per evitare la riforma». E l’affondo verso il candidato del centrosinistra a Milano, Pisapia: «I personaggi della sinistra sono sempre gli stessi dall’86, è caduto il muro ma non se ne sono accorti e professano l’ideologia più criminale della storia: alcuni di loro, come il candidato di Milano Pisapia, pensano che questa ideologia si debba rifondare». Insomma, «più li conosciamo più ci fanno paura». Infine Berlusconi ironizza sui passaggi che hanno portato dal Pci al Partito democratico: «Noi ci richiamiamo sempre alla libertà – ha detto – loro si chiamano sempre con nomi di animali o di piante, evidentemente amano la natura…». Alberto di Majo, Il Tempo, 14 maggio 2011

……Non lo paghi più nessuno e non solo per la spazzatura che ogni settimana propinano ai telespettatori i vari Santoro e Floris, ma anche per i troppi soldi che vengono dati per spettacoli da baraccone a conduttori televisivi di mezza tacca. g.

PDL CONTRO PROFESSORI POLITICIZZATI: SOSPESI PER 3 MESI

Pubblicato il 12 maggio, 2011 in Costume, Cultura | No Comments »

Roma - Tre mesi di sospensione ai prof politicizzati che scambiano le aule per palchi da comizio. I professori che faranno propaganda politica o ideologica nelle scuole potranno essere puniti con la sospensione dall’insegnamento “per almeno 1-3 mesi”. Lo prevede la proposta di legge presentata alla commissione Cultura della Camera dal deputato del Pdl Fabio Garagnani. “L’importante – sottolinea il parlamentare – era inserire nel Testo unico sulla scuola il divieto di fare propaganda politica o ideologica per i professori. Le sanzioni dovranno essere contenute poi in dettaglio in un provvedimento attuativo. La propaganda politica non può trovare tutela nel principio della libertà dell’insegnamento enunciato dall’articolo 33 della Costituzione. Un conto infatti è tutelare la libertà di espressione del docente, un’altra è quella di consentire che nella scuola si continui a fare impunemente propaganda politica”.

A vigilare che questo non avvenga, spiega ancora il deputato del Pdl nella sua proposta, dovrà essere “il responsabile della scuola”, cioè il dirigente scolastico. Garagnani, modificando il Testo unico sulla scuola, propone anche una norma che specifichi come l’insegnamento della religione non possa essere considerato semplicemente “lo studio della storia delle religioni”.

.…In astratto la proposta ci vede d’accordo. Il problema è la sua pratica attuazione. Purtroppo, a meno che tutte le lezioni non siano videoregistrate, sarà molto difficile dimostrare che il tal professore ha fatto propaganda in aula a sostegno delle sue idee politiche che è giusto che abbia ma che è bene che le tenga per sè. D’altra parte non è poi tanto necessario per propagandare le proprie idee che il tal professore le espliciti espressamente, gli basta dare un certo taglio piuttosto che un altro ad un fatto o ad una tesi perchè indirettamente trasmetti agli alunni il suo punto di vista piuttosto che un altro. Ci pare che siamo in un vicolo cieco e che non è tanto a valle che si deve intervenire quanto a monter, nel senso che il Valore dell’insegnamento deve tornare  ad essere precipuamente quello di trasmettere agli alunni  la capacità di autonoma valutazione e di personale critica dei fatti. A dirlo ci vuol niente, è a farlo che appare ed è una difficile scalata del Monte Bianco non avendo gli arnesi adatti. g.

LETTERA DI MINACCE AL VICEDIRETTORE PORRO: FARAI UNA BRUTTA FINE

Pubblicato il 11 maggio, 2011 in Costume | No Comments »

Una lettera di minacce è giunta ieri alla redazione milanese de “Il Giornale” indirizzata al vicedirettore Nicola Porro. Nella missiva oltre ad una serie di insulti c’è scritto: “Farai una brutta fine fra mille dolori una pallottola in testa”. La lettera riporta il timbro postale del 7 aprile scorso ed è stata spedita da Venezia. Il testo è stato scritto al computer su un foglio bianco. La lettera è stata ora acquisita dalla Digos di Milano.
……Porro è il vicedirettore de Il Giornale, è l’esperto economico del quotidiano milanese di proprietà del fratello di Berlusconi, è spesso presente in TV dove non le manda a dire: le dice e le canta  con durezza e competenza, anche con chiarezza, agli avversari del Cavaliere. Perciò potrebbe apparire spiegabile la lettera di minacce che gli è stata mandata da Venezia (chissà poi perchè da Venezia e non da altrove…), nella quale  però manca materialmente la pallottola, o proiettile che dir si  voglia, ma viene evocata per spiegare che tipo di morte  sarebbe stata riservata al destinatario della minaccia. Che volete, ci viene da ridere, sebbene comprenderemmo la giusta preoccupazione di Porro  (se ne avesse!) che però non ha rilasciato terrorizzate dichiarazioni alla stampa per condividere la sua  (eventuale) paura con i suoi lettori, nè ci risulta si sia precipitato a dimettersi dall’incarico e dal lavoro.  Ci viene da ridere perchè  chi minaccia (per lettera! per giunta anonima) è come il cane che abbaia: non morde. Quindi da non temere.  Non sappiamo se  anche Porro è cacciatore per cui non azzardiamo l’ipotesi che anche  nel suo caso (come in altro del quale ci siamo occupati) ci sia qualche “cacciato”  che si sia presa la briga di  ritorcersi contro il “cacciatore”, ma nel suo caso siamo certi che  nulla ha di preoccuparsi  Porro  che per quanto ne sappiamo è un autentico galantuomo, cioè una persona di retti principi e di onesti comportamenti (secondo la nuovissima Trccani), diversamente da altri  che si piccano di esserlo e magari se lo fanno dire  e al più sono dei cialtroni. g.

FIN LADEN NON RISPONDE PIU’ AL CITOFONO

Pubblicato il 6 maggio, 2011 in Costume, Gossip | No Comments »

Gianfranco Fini si è separato. È alla sua quarta separazione, quasi come Liz Taylor buonanima. Prima chiuse con l’Msi, poi lasciò An, quindi divorziò dal Pdl, ora si separa dal Fli.

Infatti il suo co­gnome non figura più sul citofono accan­to al suo partito consorte alle ammini­s­trative. Fin Laden si è ritirato, non sappiamo se è in allattamento o se ha beneficiato dello scivolo per la pensione anticipata, essendogli universalmente riconosciuta l’invalidità al lavoro. La sinistra non se lo fila più da quando non serve a far cadere Berlusconi e lui non regge il suo partito per la stessa ragione; anche le meteore finiane sono sparite dalla circolazione. Non è più di destra né sinistra, non risul­ta di centro e nemmeno di periferia. Si è rifugiato in Parlistan, l’isola del Parla­mento. Si direbbe apolitico, asettico e for­se atermico.

È rimasto solo antiberlusco­niano viscerale. Per il resto Fini si è ritira­to dalla politica, prosegue gli studi da pri­vatista. Si è messo in proprio, con ditta individuale. Ha aperto uno studio di con­sulenza istituzionale in-Palazzo Monteci­torio e lì svolge la sua attività di libero pro­fessionista, ma aspira a un posto fisso nel­lo Stato. Sbriga il traffico parlamentare e gli ingorghi di 630 deputati, prende il nu­mero di targa degli indisciplinati, rallen­ta qualche disegno di legge, evade la po­sta, forse lavora all’uncinetto e guida le scolaresche in visita a Montecitorio. Pre­senta libri che non ha letto per restare co­erente con i libri che non ha scritto. Il fine settimana fa corsi di abbronzatura inten­siva ed escursioni subacquee; ma non sa che pesci pigliare.

In tv potrebbe dire qualcosa solo sulle previsioni meteo. Non ha una proposta o un’esperienza da far valere, non ha un messaggio da comu­­nicare, al massimo che c’è da spostare una macchina. Se gli nomini il fascismo va in bestia, se gli nomini Berlusconi va in trance satanica. Ma detesta di nasco­sto pure Casini e ne è ricambiato. Lui non sopporta nemmeno i suoi seguaci e vorrebbe sbarazzarsi di loro, dopo averli portati allo sbaraglio. Perciò cova un de­siderio: che Bocchino lo espella dal suo partito. E lo supplica ogni giorno: che fai, mi cacci?

LA SINISTRA’ PRIMA LA LEGGI E POI….NON LA ELEGGI, di Marcello Veneziani

Pubblicato il 6 maggio, 2011 in Costume, Politica | No Comments »

La sinistra? Prima la leggi e poi non la eleggi

Ma perché la sinistra in Italia non è in grado di costruire un’alternativa politica credibile, come dice autorevol­mente il presidente della Repubblica Na­politano? Perché non è un partito politi­co, ma un cenacolo di letterati, poeti, ro­manzieri. È impressionante la mole di romanzi, poesie, diari e saggi firmati dai leader di sinistra. Il poeta Nichi Vendola sforna geremiadi librarie con ritmo me­struale; Franceschini,scappato dall’ora­torio, scrive romanzi sulle prostitute; il romanziere e dissidente sovietico Vel­troni an­nuncia commosso un suo enne­simo polpettone sulla tragedia di Alfredi­no a Vermicino in cui dice di essersi iden­tificato nel bambino caduto nel pozzo; il truce Violante addirittura scrive tenere poesie con versi languidi e liriche ispira­te. MarcelloVeneziani

E Renzi e Cofferati, E.Letta e la Bindi, Bersani e Fassino, e D’Alema e Bertinot­ti, sono tutti talenti letterari prestati alla politica. E giù giù, sindaci, presidenti, sindacalisti. Non puntano più al gover­no, ma allo Strega… Fanno politica per ripiego, sono scrittori repressi e frustra­ti. Hanno frainteso il senso dell’egemo­n­ia culturale teorizzata da Gramsci e pra­ticata da Togliatti e si sono messi a pro­durre opere, e non attraverso l’Intellet­tuale Collettivo ma singolarmente, da ro­manzieri tristi, narratori morbosi, poeti crepuscolari, letterati scapigliati. L’uli­vo o la quercia, per loro, non è il simbolo del partito ma è l’albero a cui tendevi la pargoletta mano. Il Pd non va più giudi­cato come un partito ma come una cor­rente letteraria.

I loro modelli di riferi­mento non sono Kennedy e Berlinguer ma Balzac ed Hemingway. Se il popolo non li capisce è perché sono passati dal verismo all’ermetismo. Anche dalla parte opposta non sono pochi con la fregola del libro; e, nel mez­zo, Fini scrive all’anno più libri di quanti ne legga, perfino Bocchino racconta le sue memorie… Ma se altrove piovono li­bri, a sinistra è un’alluvione. Si è genera­t­a una forma inedita di clientelismo lette­rario col relativo voto di scambio: tu mi dai il voto, io ti do il libro, con dedica. Prima mi eleggi, poi mi leggi. Da qui la loro inadeguatezza a governare: Pascoli non può andare alle Finanze.