Archivio per la categoria ‘Costume’

CATTIVISSIMO ME

Pubblicato il 17 aprile, 2011 in Costume, Politica | No Comments »

Mentre gli odiatori del Cav. sfogano la fantasia politico-anatomica, lui cerca il lieto fine anche con loro

Mentre gli odiatori di Silvio Berlusconi danno sfogo alla fantasia più feroce e a categorie di disumanità per far meglio coincidere il premier con il male assoluto da operetta (“incantatore da fiera”, “stregone”, “l’Imbroglione”, “delirio narcisistico”, “autocompianto posticcio”, “logorrea farfallina”, “Caimano”, “il malaccorto”, “sentimento narcisistico d’onnipotenza”, sono alcune delle definizioni rinvenibili nelle cronache di Repubblica su Berlusconi in aula a Milano), Silvio Berlusconi manifesta un’adesione elementare alla realtà. Se vede un giornalista baffuto e non proprio innamorato, lo chiama “signor Stalin”; davanti al pubblico ministero che lo accusa dice: “Allora è lei il cattivo” (se ci fosse un po’ meno guerra e un po’ più di sense of humour, si potrebbe ridere molto, di lui e degli altri, ma di nascosto dai giornali che hanno precisi ordini di luttuosità e rancore).

Silvio Berlusconi divide il mondo in buoni e cattivi (lui si sente il re dei buoni, e infatti dice: “Grazie a voi della fiducia che, vi assicuro, mi merito totalmente”), in streghe e fate, ed è convinto di meritarsi, oltre alla fiducia, il lieto fine. Come nelle favole (con molte molte Biancanevi), in cui il cattivo viene sempre sconfitto oppure diventa buono. Berlusconi credeva forse di fare sorridere il pubblico ministero, apostrofandolo come nei film, offrendogli la grandezza della cattiveria, immaginava di finire il processo con strette di mano, brindisi e canzoni francesi. Da sempre chi lo detesta si avventura in definizioni romanzesche, complesse, freudiane, junghiane, giudiziarie, perfino anatomiche (ieri Giuseppe D’Avanzo spiegava seriamente che Berlusconi si serve di un particolare muscolo della faccia, il massetere, situato vicino alla mandibola, per manovrare quel “sorriso inalterabile”: ma si è fatto infilare quel coso apposta nella faccia dai chirurghi plastici o si tratta di un muscolo democratico posseduto anche dalle mandibole dell’opposizione?), e intanto si creano libri, documentari, film, poemi, appelli, trasmissioni televisive, opere teatrali (più o meno tutto, tranne un’alternativa) per tentare di spiegare e abbattere il demoniaco fenomeno Berlusconi.

Berlusconi invece si ferma a “cattivo”. E’ la parola forse più impolitica e meno strategica che esista (impiegata anche dal Berlusconi privato e démodé, come si è visto dalle telefonate spiate e pubblicate, “cattivona tu”), utilizzata nelle favole per le matrigne, le streghe, le sorellastre e i lupi, amata dai bambini perché è sufficiente per denunciare un mondo di ingiustizie vere o immaginarie (la mamma che mette in punizione, l’amichetto che ruba la palla, il mostro che potrebbe entrare dalla finestra se non si dorme con la luce accesa). La visione del mondo di Berlusconi non è diversa da quella di chi lo detesta (Berlusconi è il cattivo supremo): la differenza sta nel grandioso dispendio di aggettivi e minuziose descrizioni di parti del corpo. Annalena Benini, FOGLIO QUOTIDIANO, 17 APRILE 2011

.…….Annalena Benini è una giovane e  simpatica giornalista. Ogni settimana scrive non più di tranta riga nell’ultima pagina di Panorama. Scrive di costumi, sempre sul filo dell’ironia, leggera ma pungente, come deve essere l’ironia. Come  nelle riga, poco più di trenta, che oggi scrive sul Foglio di Ferrara, per ironizzare sul “dispendioso uso di aggettvi” da parte dei detrattori di Berlusconi per demonizzarlo e, al contrario, sui due semplici aggettivi di cui fa uso  Berlusconi per distingere gli uomini: buoni o cattivi.  Diceva Montanelli che bisogna dubitare di chi usa trenta pagine per dire cose che si possono dire in trenta riga. Appunto. Brava Annalena. g.

COSA FA PAURA AI GIUDICI? LAVORARE. LA PROVOCAZIONE DI FILIPPO FACCI

Pubblicato il 15 aprile, 2011 in Costume, Giustizia | No Comments »

Sette anni per il primo grado Parmalat. Viareggio? Non c’è nemmeno la prima udienza. Colpa del processo breve?

Libero-news.it

L

a paura è che gli tocchi di lavorare, anzi neanche, perché se i magistrati in futuro non riusciranno a chiudere un primo grado in qualcosa come tre anni (tre anni, non tre giorni) potranno sempre dire che è colpa di Berlusconi: eppure lo sanno tutti che i magistrati lavorano mediamente poco, che non di rado tizio «oggi non c’è», che caio «oggi lavora a casa», che sempronio «oggi non è venuto», che pochi si sobbarcano il lavoro di molti, che molti sono imboscati o fuori stanza: perché sono uomini e funzionari e dipendenti statali come gli altri, la differenza è che non timbrano il cartellino (e dici poco) e che in qualche caso si sentono eticamente superiori agli altri salariati pubblici. Cosicché i problemi sono sempre altrove: è colpa della «mancanza di risorse» se al pomeriggio in tribunale c’è il deserto dei tartari, è colpa della «cattiva organizzazione» se molti magistrati appongono fuori dalla porta gli orari di ricevimento come se fossero insegnanti delle medie, e se un avvocato cerca un fascicolo e però il pm l’ha portato a casa. Uno sgobbone come Francesco Ingargiola, presidente della Corte d’Appello di Caltanissetta, lo disse chiaramente in un libro di Massimo Martinelli: «Nei tribunali il problema principale è proprio questo, far lavorare e motivare i giudici; perché se la giustizia è al capolinea non è colpa solo di leggi farraginose, ma anche di molti colleghi che non lavorano a sufficienza».

Ecco perché i parenti delle vittime di Viareggio dovrebbero farsi spiegare, dai magistrati, come abbiano fatto a non fissare neppure la prima udienza dopo due anni e mezzo; i terremotati dell’Aquila dovrebbero farsi spiegare se undici anni e otto mesi non siano più che sufficienti per definire un giudizio ed evitare la prescrizione; mentre i risparmiatori truffati dalla Parmalat dovrebbero farsi spiegare, pure, perché siano serviti sette anni per un primo grado sulla bancarotta, mentre il processo bis – quello contro le banche – attende ancora la prima sentenza. Già oggi vanno in prescrizione 450 processi al giorno: i magistrati non hanno nessuna responsabilità in tutto questo? E neppure i 51 giorni di ferie l’anno – record italiano – significano niente? Si saranno mai chiesti, i magistrati, perché la vecchia uscita del ministro Renato Brunetta sui tornelli a palazzo di Giustizia, in un sondaggio pubblicato dal Corriere nell’ottobre 2008, vide favorevole l’80 per cento dei votanti? Anche Giuliano Pisapia, candidato sindaco a Milano, lo disse chiaramente: «Lavorano poco». Suggerì che si facesse come quel procuratore capo che ogni mattina bussava dai vari magistrati per dargli il buongiorno. Eppure, per qualche ragione che sa di sacralità, le toghe sono sottratte al computo dei fannulloni della pubblica amministrazione: forse perché affianco ai lavativi ci sono gli stakanovisti.

A Napoli, dall’iscrizione alla richiesta di rinvio a giudizio per Berlusconi, il procedimento per il caso Saccà impiegò 32 giorni: feste comprese. L’Appello del caso Mills l’hanno sbrigato in un mese e mezzo e le motivazioni erano state depositate in 15 giorni anziché in 90: così il ricorso in Cassazione è stato velocizzato. Il primo grado oltretutto aveva fatto sfilare 47 udienze in meno di due anni, lavorando – sacrilegio – anche sino al tardo pomeriggio, talvolta – pazzesco – anche nei weekend. Nelle scorse settimane, in compenso, un’intera procura che doveva mandare alla sbarra Berlusconi – caso Ruby – si è fatta prestare gente da altri uffici, così da macinare tutte le fotocopie necessarie: del resto la prostituzione minorile è il problema cardine del Paese. Già che ci siamo: Antonio Di Pietro ha perfettamente ragione a dire che la giustizia italiana funziona benissimo e che il processo breve in sostanza c’è già: nel febbraio 2009 fu inquisito per offesa al Capo dello Stato e prosciolto in dieci giorni, tempo necessario affinché il pm compisse «una lettura attenta» e archiviasse con un fiume di motivazioni; Di Pietro dimostrò che la Giustizia è celerrima già dai tempi di Mani pulite, quando alcuni personaggi (solo alcuni, peccato) giunsero ai terzo grado in soli tre anni; lo dimostrò anche quando cominciò a querelare: un’intervista contro di lui, uscita su Repubblica nel febbraio 1997, andò a giudizio in meno di due mesi, il 3 aprile successivo; e che la giustizia non perda tempo lo dimostrò anche a Brescia, quando evitò ogni processo a suo danno (prestiti, Mercedes, case eccetera) incassando una serie di «non luoghi a procedere» che per qualsiasi altro cittadino, statistiche alla mano, si sarebbero tradotti in automatici rinvii a giudizio. Lui se la cavò in sei ore.

Tutto il resto, meno rilevante, va come  sappiamo: sette anni per mandare in primo grado un processo per usura (a Milano) e un minimo di cinque anni (nel resto d’Italia) per un qualsiasi penale in primo grado. È per questi processi che manca la carta per le fotocopie, che Tizio è in malattia, che la segretaria è in maternità: le solite cose che secondo l’Associazione nazionale magistrati costituiscono i soli problemi «strutturali» che ci vedono in coda alle classifiche mondiali sulla giustizia. I nostri processi durano dieci volte più della Francia e cinquanta volte più della Gran Bretagna: forse è perché li facciamo meglio. di Filippo Facci, Libero, 15 aprile 2011

LA STORIA DEL 900 RACCONTATA DALLA SINISTRA: LE FOIBE SONO DELLE FOSSE E BERLUSCONI E’ UN FARABUTTO

Pubblicato il 14 aprile, 2011 in Costume, Cultura, Storia | No Comments »

In questi giorni divampa nel già rovente  clima della politica italiana un altro tema: quello della rivisitazione dei libri di storia nelle scuole italiane perchè siano raddrizzate eclatanti storture e ignominiose baggianate  che in questi testi, sui cui studiano i nostri ragazzi,  compaiono con grande compiacimento della sinsitra. La proposta,  avanzata da alcuni deputati del PDL, tra cui l’on. Carlucci e il ministro  per la Gioventù, Meloni, è destinata ad arroventare ancor di più lo scontro, perchè è evidente che una equilibrata narrrazione della storia apre la strada ad una diversa epiù oggettiva valutazione dei fatti. Sull’argomento  e sulle storture storiografiche operate dagli autori dei testi di storia attualmente inuso nelle scuole italiane,   ecco uno piccolo ma eloquente saggio di Francesco Maria Del Vigo.

I gulag? “In linea di principio il comunismo esprimeva l’esigenza di uguaglianza come premessa di libertà e l’ignominia dei gulag non è dipesa da questo sacrosanto ideale, ma dal tentativo utopico di tradurlo immediatamente (…)”. Il Manifesto? Un comizio di Toni Negri della metà degli anni Settanta? No, un libro di testo, uno di quelli che potrebbe finire sui banchi dei nostri figli: esattamente pagina 1575, quarta edizione (del 1998) di Elementi di storia del XX secolo di Augusto Camera e Renato Fabietti.

I libri di storia faziosi? L’argomento è tornato alla ribalta in questi giorni in seguito alla proposta di una pattuglia di parlamentari del Pdl, capitanati da Gabriella Carlucci, di istituire una commissione d’inchiesta sulla faziosità dei libri di storia. Un tema che viene da lontano, sul finire degli anni Novanta avanzò una proposta simile Giorgia Meloni, allora segretario nazionale di Azione Giovani, il movimento studentesco di Alleanza Nazionale. Un’iniziativa gloriosamente inascoltata: nessuno raccolse l’invito del futuro ministro della Gioventù. Ed è proprio dai dossier di allora che emergono le aberrazioni storiche contenuti in alcuni testi poco scolastici e molto politici.

Torniamo al testo. Una decina di pagine dopo le foibe vengono licenziate come: “uno sfogo dell’ira popolare”. Il terrorismo degli anni di piombo? A quello “nero si salda presto il terrorismo che si dichiara rosso e proletario, ma che in realtà matura in ambienti universitari e piccolo borghesi e consegue, oggettivamente, gli stessi risultati del terrorismo nero, cioè genera tensione e disordini, dai quali può nascere solo un’involuzione reazionaria e fascistoide”.

Cambiamo libro e passiamo al Manuale di storia 3 L’età contemporanea di Giardina, Sabbatucci e Vidotto: “La politica staliniana in tema di nazionbalità non fu solo di carattere repressivo. Bisogan tener conto che, nella lista dei popoli perseguitati dal regime compaiono solo etnie nettamente minoritarie, spesso isolate nella loro zona di insediamento”. Beh, se sono minoritarie…

Nel Vocabolario della lingua parlata in Italia Di Carlo Salinari le foibe sono spiegate così: “Fosse (…) in cui durante la guerra 40-45 furono gettati i corpi delle vittime della rappresaglia nazista”. E qui siamo al paradosso: la frittata è totalmente ribaltata. Viee da chiedersi da chi sia parlata questa fantomatica lingua…

E poi non può mancare Silvio Berlusconi, ancora in vita e saldamente al governo ma già storicizzato dagli intellettuali engagé e, ovviamente, descritto con le fattezze del cattivo. Sull’esposto del governo in cui si denuncia l’attacco della procura di Milano: “Qui va rilevata, oltre alla grossolanità degli uomini, la sfacciata ribellione alla legge da parte delle forze di governo e l’ostilità verso una sia pur piccola pattuglia di magistrati indipendenti. In un crescendo di vendetta macbethiana si colloca la vicenda di Antonio Di Pietro, inquisito, oggetto di una lunga e implacabile persecuzione da parte della forza legale”. Questo è un testo per addetti ai lavori: Dizionario giuridico italiano-inglese di Francesco de Franchis.

La lista dei soggetti bersagliati dalla censura storiografica è infinita: dal fiumanesimo a Marinetti, da D’Annunzio a Nietzsche passando per poeti, pittori e personaggi pubblici. Omissioni, menzogne, morti che valgono meno di altri morti, solo perché sono caduti dalla parte sbagliata.  Francesco Maria Del Vigo

LO SGUARDO MITE DI TOTO’ “VASA VASA”

Pubblicato il 10 aprile, 2011 in Costume | No Comments »

Com’era serafico lo sguardo di Totò Cuffaro intervistato in carcere dopo lungo silenzio. E come erano teneri i suoi rimpianti politici. Fu salutato da un coro di ammirazione quando si conse­gnò docile ai giudici e accettò senza di­scutere la condanna e il carcere, dicen­dosi uomo delle istituzioni. Ma vi siete chiesti perché Cuffaro scelse di non ri­bellarsi ai giudici? Se lo fece perché rico­nobbe giusta la condanna per associa­zione mafiosa, come a dire «ho sbagliato ed è giusto che paghi», allora sì, ha fatto bene, ma la gravità del fatto commesso oscura la mite e rispettosa reazione alla condanna. Ma se non si sente colpevole di reati così pesanti, come ha detto, per­ché offrì i polsi alle manette senza batter ciglio? Forse perché i giudici, avrà pensa­to Totò, è meglio non prenderli di punta o per le corna. Anche per lui la magistra­tura è mossa da impulsi e furori ed è me­glio assecondarli, mostrandosi mansue­ti, remissivi, sottomessi al suo potere… Così magari al prossimo giudizio non in­­fieriscono: avete vinto, ora siate indul­genti. In quel caso, si è fatto agnello e colomba per un calcolo, furbo e com­prensibile, da democristiano di vossìa. Ve lo ricordate in tv con la coppola o quando scriveva sui manifesti: la mafia mi fa schifo? Comunque ho sentito in gi­ro tanti siciliani che lo rimpiangono; i suoi successori hanno i suoi stessi difetti senza averne i pregi e l’umanità. Mi han­no chiesto di dedicargli una copia del mio libro che gli avrebbero portato all’in­domani in carcere; l’ho fatto volentieri anche perché, confesso, una volta Totò baciò pure me.

Di quel suo congedo prima di finire in carcere, a me è restato il lato umano, e anche puerile; la sua faccia disarmata, il tono dimesso della voce e quell’invoca­zione tenera alla Madonna. Le parole for­se furono pronunciate per nascondere il pensiero o perché tornano utili alla cau­sa; ma quei gesti, quel tono, quell’invoca­zione, erano veri, umani, venuti dal cuo­re, anche se magari servono pure a ingra­ziarsi la gente, i giudici e i media. Ma in quel momento sospendi ogni giudizio e ti lasci prendere dalla pietas. Per una volta avrei voluto baciarlo io, a Totò vasa vasa .

Il Giornale, 10 aprile 2011

CASO RUBY: E ARRIVO’ IL GIORNO DELLA NMACELLERIA

Pubblicato il 5 aprile, 2011 in Costume, Giustizia, Politica | No Comments »

Ci siamo. Ancora 24 ore e lo show può co­minciare. Anche se sarà una partenza falsa, senza star e comparse e con una seconda puntata tra qualche mese. Dopo tan­to parlarne, l’affare Ruby ap­proda domani in tribunale ma non ci saranno né l’im­putato Silvio Berlusconi né le ragazze già bollate, pro­cessate e condannate da una campagna stampa sen­za precedenti. La procura di Milano ha chiesto e otte­nuto il rito immediato, so­stenendo che le prove era­no schiaccianti. E qui c’è la prima bugia, altrimenti non si spiegherebbe la ne­cessità di convocare 132 te­stimoni, un numero che non trova pari neppure nei grandi processi di terrori­smo o mafia. Per puntellare il farneticante teorema, i pm hanno smosso mari e monti, usato sofisticate tec­nologie, messo sottosopra le case e la vita privata di de­cine di ragazze, spiato tutti gli ospiti della residenza di Arcore.

Eppure il dibatti­mento si apre senza accusa­to, accusatore e vittime. Non c’è una parte lesa,qual­cuno o qualcuna che accusi Berlusconi di violenza, mo­l­estia, abuso, né per il reato di prostituzione né per quel­lo di concussione. In realtà di vittime questa farsa giudiziaria ne ha già fatte. Sono le persone coin­volte in uno scenario costru­ito ad arte per infangare. Senza nessuno scrupolo, i pm milanesi hanno messo agli atti testimonianze di mi­tomani che sostengono di aver incontrato nelle cene gli attori George Clooney e Belen Rodriguez,la condut­trice Barbara D’Urso, le poli­tiche Mariastella Gelmini, Mara Carfagna e Daniela Santanchè. Sarebbero do­vute bastare queste dichia­razioni, e due veloci verifi­che, per archiviare il caso co­me una grande bufala. Alcu­ni di questi signori non han­no mai messo piede ad Ar­core, altri non lo mettono da anni, altri ancora ci sono ovviamente stati per incon­tri politici ben documenta­bili. Ruby ha addirittura rac­contato di essersi prostitui­ta a Milano con il calciatore Cristiano Ronaldo quando questi stava giocando dal­l’altra parte del mondo.

Più che un processo, quel­lo che si sta aprendo è un ca­so di macelleria mediatica. Foto private, sequestrate nei telefonini di alcune ra­gazze, spacciate come pro­va d­i festini ad Arcore quan­do si trattava invece di scatti fatti da tutt’altra parte. Frasi rubate da decine di migliaia di intercettazioni telefoni­che che senza alcun riscon­tro sono state spacciate per verità giudiziarie.
La storia è assai più sem­plice. Una ragazza scaltra e irrequieta, Ruby, minoren­ne per l’anagrafe ma non nel corpo e nella testa, soste­nendo di essere la nipote di Mubarak e mentendo sulla sua età, riesce ad avvicinare Berlusconi e frequenta alcu­ne cene ad Arcor­e in compa­gnia di altre ragazze maggio­renni.
Dal presidente riceve aiuto per mettere in piedi una attività imprenditoria­le (un centro estetico). Quando una notte viene ar­­restata per una lite con una coinquilina, Berlusconi chiama il funzionario per se­gnalare che c’è la possibili­tà, in assenza dei suoi geni­tori, di affidarla a una perso­na maggiorenne ( Nicole Mi­netti). Una prassi consenti­ta dalla legge tanto che in quell’anno,2009,la Questu­ra di Milano l’aveva adotta­ta ben 57 volte. Un’inchie­sta del ministero dell’Inte­r­no ha poi accertato che non fu compiuta alcuna irregola­rità. Tutto il resto è semplice intrusione, per di più violen­ta, nella vita privata di perso­ne maggiorenni, libere e consenzienti, qualsiasi co­sa sia successa nelle cene e nei dopocena. Si può discu­t­ere su questioni di opportu­nità e stile, non di reati. La vera porcata non è quello che abbiamo letto fino ad ora, ma quella fatta da chi ha voluto tutto questo solo per fare cadere il governo. Il Giornale, 5 aprile 2011

LA TRAGEDIA DI YARA: LA FAMIGLIA CHIEDE CHE SI SPENGANO I RIFLETTORI

Pubblicato il 2 aprile, 2011 in Costume, Cronaca | No Comments »

Lettera dei genitori: amarezza e sdegno per chi invade il nostro dolore

BREMBATE SOPRA (BERGAMO) – “Vorremmo esprimere pubblicamente il nostro sentimento di amarezza e di sdegno nei confronti di chi, in maniera spasmodica e pressante, continua ad invadere il nostro dolore di famiglia angosciata da un dramma indescrivibile”. Comincia così la lettera affidata all’ANSA in cui la famiglia Gambirasio esprime il suo disappunto per la messa in onda di alcuni video e immagini di Yara, la tredicenne di Brembate Sopra (Bergamo) scomparsa il 26 novembre scorso e trovata uccisa dopo tre mesi in un campo. “Non capiamo e non giustifichiamo questo continuo accanimento giornalistico nella ricerca di fotografie o di video raffiguranti Yara” hanno aggiunto con fermezza papà e mamma Gambirasio, che prima della pubblicazione delle immagini avevano già espresso la loro contrarietà.

“Stiamo cercando di ricostruire un nuovo equilibrio familiare ed il clima che state creando non ci sta aiutando”. E’ questa l’accusa lanciata oggi ai media dalla famiglia di Yara Gambirasio, che sottolinea all’ANSA l’enorme difficoltà che vive dopo il lutto che l’ha colpita, aggravato anche dalla mancanza di un colpevole a quattro mesi dall’omicidio. Questo il testo integrale della lettera: “Vorremmo esprimere pubblicamente il nostro sentimento di amarezza e di sdegno nei confronti di chi, in maniera spasmodica e pressante, continua ad invadere il nostro dolore di famiglia angosciata da un dramma indescrivibile. Non capiamo e non giustifichiamo questo continuo accanimento giornalistico nella ricerca di fotografie o di video raffiguranti nostra figlia Yara. Rimarchiamo la nostra volontà di non autorizzare l’emissione di queste immagini, che ai fini investigativi non sono di alcuna utilità. Vi preghiamo di non nascondervi dietro il paravento del diritto di cronaca, abbiate semplicemente rispetto ed umiltà per la nostra situazione. Stiamo cercando di ricostruire un nuovo equilibrio familiare ed il clima che state creando non ci sta aiutando. Infinitamente grati, Famiglia Gambirasio”. Fonte ANSA, 2 APRILE 2011

GIULIANO AMATO, IL PENSIONATO D’ORO

Pubblicato il 1 aprile, 2011 in Costume | No Comments »

Giuliano Amato? Ha tagliato le pensioni di tutti gli italiani. Ma per lui s’è riservato una pensione d’oro. Alla fine di ogni mese, infatti, incassa la bella cifra di 31.411 euro. Proprio così: 31.411 euro, esattamente 1.047 euro per giorno che il buon Dio manda sulla Terra. Non male per l’uomo per primo ha impugnato le forbici per ridurre le aspirazioni nazionali di serena vecchiaia. Ricordate? Era il 1992. «Così non si può andare avanti, serve una riforma delle pensioni», tuonò l’allora presidente del Consiglio. E la riforma delle pensioni, in effetti, si fece. Amato mandò di traverso il caffellatte ai nonnetti di provincia, spaventò milioni di onesti padri di famiglia. E diede il via all’era della previdenza lacrime&sangue …

…..Sin qui quanto scrive oggi Mario Giordano a propostio di Giuliano Amato. Certo che questo signore, si fa per dire, non prova nè vergogna nè arrossisce quando incassa al giorno ciò che mediamente prende un pensionato italiano al mese. Questo sigbnore, peraltro, non contento di essersi cucito una pensione di 31 mila euro al mese, continua imperterrito  ad arraffare cariche, gettoni, prebende, agevolazioni, facedno finta di servire lo Stato, ma in effetti servendosi dello Stato, spacciandosi per grande statista. Fu siolo la spalla di Craxi che tradì, lasciandolo al suo destino. g.

IL LANCIO DELLE MONETINE: LA CATTIVA ABITUDINE DEI COMUNISTI, DA SEMPRE

Pubblicato il 1 aprile, 2011 in Costume, Politica | No Comments »

Il lancio di monetine è la nuvola nera della politica italiana che annuncia i tempi dell’odio a conferma che la sinistra ricorre sempre all’arma totale dell’odio.

La tradizione inizia nel 1971, subito dopo l’elezione di Leone alla presidenza della Repubblica con il voto determinante dell’Msi almirantiano. A farne le spese fu Ugo La Malfa, bersagliato in Transatlantico con monete da cinquanta e cento lire dai parlamentari dell’allora Partito comunista italiano. La Malfa pagò così la sua libertà di scelta e di indipendenza dal richiamo all’antifascismo militante scandito dai banchi comunisti. Fu un atto che introdusse in Parlamento il segno di una guerra totale contro gli avversari, che diventavano nemici da colpire, da delegittimare e da confinare nel recinto degli indegni, dei corrotti e dei traditori. La Malfa era un uomo di sinistra, un liberaldemocratico, un antifascista vero. Pagava però la rottura con il Pci da lui sempre rispettato come forza di opposizione anche se non riformista.

Quello era il Partito comunista che incassava i soldi di Mosca, che si schierava con le campagne pacifiste dalla parte degli interessi geopolitici dell’Urss e che nelle piazze forniva una copertura istituzionale ai movimenti studenteschi e ai loro servizi d’ordine. La violenza doveva essere sempre fascista, anche quando il primo morto della guerra civile era un operaio genovese, Ugo Venturini, un militante missino, un operaio, ammazzato a Genova mentre ascoltava Giorgio Almirante. Quelle monetine segnalano la delegittimazione dell’avversario, la feroce campagna contro Leone, contro il «panfascismo» della Dc, contro il Msi che il magistrato Bianchi d’Espinosa voleva mettere fuori legge.

Furono gli anni di una guerra civile che costò all’Italia il terrorismo rosso, le stragi di cui non si saprà mai la vera responsabilità e la criminalizzazione degli avversarti politici. In quel clima si arrivò al sequestro e all’assassinio di Moro. Ma il Pci perse la partita. Bettino Craxi e i socialisti riformisti lo bloccarono, misero in crisi il compromesso storico, fecero emergere le contraddizioni tra una sinistra extraparlamentare che con l’autonomia operaia si liberava della tutela comunista e un Pci che doveva fare i conti con i demoni della guerra civile che aveva scatenato.

Vent’anni dopo con lo tsunami del giustizialismo attivato dalla Procura di Milano, il Pci regolò i conti con Craxi. Ci fu il lancio di monetine contro il leader socialista davanti al Raphael. E in quei giorni Occhetto assaporava il gusto di una vittoria politica che sembrava imminente. Il Paese reale si mobilitò e Berlusconi, come Craxi, nella primavera del ’94, sconfisse i postcomunisti. Da allora in Italia si è aperto il capitolo della Seconda Repubblica, di una guerra civile fredda che negli ultimi due anni ha raggiunto livelli di vera e propria, forse insanabile, frattura tra due Italie. Quella egemonizzata dai postcomunisti e dai giustizialisti e quella liberale e popolare che si oppone alla repubblica giudiziaria e all’ideologia giacobina del processo come strumento della lotta politica, risorsa delle minoranze faziose e violente.

Il lancio delle monetine contro La Russa e il Parlamenti segna una svolta, che purtroppo nel suo vero significato è sfuggita a molti. È un atto, quello di mercoledì 30 marzo, che annuncia un nuovo inizio dello scontro e costituisce la fase ultima della delegittimazione dell’avversario e del tentativo violento di imporre un cambiamento radicale della guida politica del Paese. Berlusconi è ritenuto dai postcomunisti definitivamente demonizzato e delegittimato. Contro di lui la campagna mediatica, movimentista, indignata, entra nella fase conclusiva. E già in Parlamento si assiste all’union sacrée dell’antiberlusconismo, che imbraccia ancora una volta l’arma della moralizzazione.

  • Leone fu costretto nel ’76 alle dimissioni da una campagna che accusava, lui innocente, di aver incassato le tangenti dello scandalo Lockheed.
  • Craxi, la destra Dc e i partiti laici furono spazzati via da accuse altrettanto infamanti.
  • Berlusconi dovrebbe abbandonare Palazzo Chigi inseguito da processi che ne sancirebbero l’indegnità morale e politica.

Il centrodestra non può certo resistere a questa offensiva in ordine sparso e senza aver chiaro che le prossime settimane saranno decisive. Le Amministrative di maggio si annunciano difficili da superare. Sarkozy in Francia viene travolto nelle Cantonali, così la Merkel in Germania, ma l’opposizione non li ritiene delegittimati e non chiede loro di abbandonare la politica.

In Italia un successo della sinistra provocherebbe una telluricità politica, sociale e civile durissima da affrontare e controllare. La mobilitazione che seguirà per il referendum sul nucleare sarà non molto diversa da quella che annunciò la vittoria dei divorzisti nel referendum del ’75.

Il divorzio allora e il no nucleare dopo Fukushima oggi sono delle ragioni condivise anche dall’elettorato moderato, che crederà di votare contro l’atomo come allora si illuse di votare a favore del divorzio. Ma quel voto sarà utilizzato per tentare la spallata finale contro il centrodestra. Meglio prevedere, meglio attrezzarsi, meglio individuare le linee di resistenza per reggere l’onda d’urto.

I tempi ormai sono stretti e non ammettono indulgenze, diserzioni e moderatismi ispirati dallo spirito di resa.

LIBIA: ECCO L’ERRORE DI SARKO’, di Giorgio Mulè

Pubblicato il 30 marzo, 2011 in Costume, Politica | No Comments »

Era il 4 marzo. Poche ore dopo l’elezione dell’italianissimo Vittorio Grilli, direttore generale del Tesoro, a presidente del Comitato economico e finanziario dell’Unione Europea (un organismo strategico fondamentale perché istruisce, concretamente, i lavori dell’Ecofin, cioè del consiglio che «governa» l’economia europea), Giulio Tremonti chiamò il suo omologo francese. Gli spifferi raccontano che il nostro ministro commentò con spirito cavalleresco l’elezione di Grilli che aveva avuto la meglio sul candidato d’Oltralpe Ramon Fernandez. Prima di congedarsi, Tremonti tuttavia non resistette a una delle sue battute, eleganti quanto perfide e sagaci: «Insomma, vi abbiamo battuto nel vostro sport preferito: occupare posti».Nella battuta attribuita a Tremonti c’è molta verità. Non scopriamo oggi la cosiddetta grandeur francese, la storia è lastricata di fughe in avanti, ancorché molto avventurose, dei «cugini» in ogni segmento della vita politica ed economica. Per una sorta di autoproclamazione i francesi hanno sempre pensato e creduto di essere una spanna sopra chiunque e in tutti i campi: da quello commerciale a quello militare. Il caso ha voluto che, nel 2011, siano venuti a galla nello stesso momento questi due aspetti della loro baldanza. Nella questione libica tutto è da ricondurre a una frettolosa iniziativa militare. Si tratta di una forma di interventismo che affonda le radici, ancora una volta, in una presunta superiorità che non ha alcun riscontro.

Questo sfrenato e irresistibile bisogno di mostrare i muscoli, di cui Nicolas Sarkozy rappresenta l’icona tangibile, ha portato la Francia a incassare nel breve volgere di qualche giorno un ridimensionamento che ovviamente non sarà mai ammesso dall’Eliseo. Esasperare con i missili e i raid aerei la polveriera libica ha infatti prodotto un velocissimo ricompattamento intorno alla Nato. La decisione unilaterale francese di attaccare (con il determinante appoggio della Gran Bretagna e degli Stati Uniti) ha ancora una volta svuotato di ruolo le Nazioni Unite di cui la Francia si è fatta scudo con un’interpretazione «estensiva» e pericolosa della risoluzione 1973, approvata a maggioranza dal Consiglio di sicurezza e nella quale non si autorizza in alcun modo l’intervento dei caccia ma si parla unicamente di protezione dei civili e delle aree popolate da civili.      L’esperienza dell’Iraq, con la moltitudine di ispettori che accertò le violazioni commesse dal regime di Saddam Hussein e precedette la decisione di intervenire militarmente, non è servita: in Libia sono bastati i commenti di Al Jazeera per stabilire che bisognava attaccare senza indugio. Solo un’iniziativa congiunta e condivisa dell’Alleanza atlantica, con la forza che ne deriva, può invece produrre effetti reali: senza strappi, senza un’inutile esposizione di muscoli utile alla tradizionale arrogance francese ma deleteria per gli equilibri internazionali. C’è poi l’altra guerra, quella commerciale deflagrata con il tentativo della Lactalis di rilevare la Parmalat. Bene ha fatto il governo a varare il decreto legge antiscalate su alcuni settori strategici, compreso quello agroalimentare. Non si tratta qui di una difesa antistorica dell’italianità, ma di un argine necessario che rende giustizia a un mal interpretato concetto di liberalismo. Con la Francia, infatti, il liberalismo è sempre stato a senso unico con buona pace della reciprocità: le nostre imprese sono state sempre respinte con perdite ogni volta che hanno tentato di acquisire aziende transalpine (basta ricordare i casi dell’energia, delle autostrade, delle ferrovie) grazie a una barriera nazionalistica e protezionista creata ad hoc dalla Repubblica Francese per frantumare d’imperio ogni velleità italiana. Al contrario, invece, i francesi hanno sempre potuto fare shopping in casa nostra e in tutti i settori, compresi quelli fondamentali e nevralgici per il sistema Paese. Per questo il decreto varato mercoledì 23 marzo dal governo era necessario e non più rinviabile. Per una volta tanto la grandeur va in soffitta. Al di là delle Alpi devono ogni tanto ricordare che nella loro storia non c’è solo il generale Napoleone. C’è anche il generale Cambronne…

BERLUSCONI? E’ UN DILETTANTE CHE PARLA CHIARO

Pubblicato il 27 marzo, 2011 in Costume, Politica | No Comments »

Che Berlusconi sia intelligente è difficile contestarlo. È anche un bizzarro incidente della storia, un’anomalia, e insieme l’auto­biografia della nazione in molti aspetti non propriamente commendevoli, ma le sue doti di penetrazione intellettuale nella realtà, la sua esperienza in umani­tà e il talento di governare i rapporti di forza, sono doti personali e politiche da nessuno negate (sorvolo sui cretini che lo odiano, sulla gentuccia malata di pre­giudizio da frustrazione, e sono molti). Se questo è vero, siamo in presenza di un apparente mistero. Perché ha detto che non voleva di­sturbare il colonnello Gheddafi, men­tre divampava la crisi libica? Perché ha detto di essere addolorato per lui, a mis­sione no-fly zone in pieno corso, con i bombardamenti del suo quartier gene­rale ingaggiati da una coalizione di cui un’Italia riluttante fa parte? Su un altro piano: perché ha detto che la nomina di Saverio Romano a ministro dell’Agri­coltura è stata necessaria per scansare il rischio di una crisi di governo, avallan­do i sospetti su un baratto? Un politico professionale, un D’Ale­ma, un Prodi, un Fini, un Casini, e perfi­no il Bossi che condivide con il Cav il «talento dell’amicizia» e dell’inimici­zia, e il «parlar chiaro», non lo avrebbe­ro mai fatto. Si usano circonlocuzioni, in questi casi. Si mente con sottigliezza e ipocrisia. Si dice che «con il Colonnel­lo il governo stabilirà eventuali contatti al momento opportuno». Si dice che «nessuno può essere lieto di un bom­bardamento, malgrado sia urgente la difesa umanitaria dei civili in Libia». E sulla nomina che ha impensierito il Qui­rinale, un politico professionale direb­be che «il piccolo rimpasto ha intanto arricchito di nuove forze e competenze la maggioranza, è un atto di stabilità e di gestione politica responsabile di poteri propri della presidenza del Consiglio». Le parole per dirlo non mancano, in po­litica. Ma Berlusconi non le trova, e or­mai, dopo tanti anni in cui sono stato del parere che avrebbe dovuto trovarle dentro di sé e dentro la sua esperienza politica, sono certo del fatto che nem­meno le cerca. La debolezza del professionista è la forza del dilettante. Amateur , nella lin­gua dei nostri carissimi cugini francesi, amici-nemici come sempre: il dilettan­te è energia pura, philìa , amore o desi­derio, volontà e piacere. Berlusconi sa che non avrebbe dovuto dire quelle co­se, stando ai codici di comportamento della classe dirigente di cui è parte in­fluente, ma la sua volontà, il suo deside­rio di dirla come gli viene, di essere uma­namente diretto anche quando tesse la trama obliqua dell’arabesco politico,fa premio sul professionismo, evoluzione dal latino profitèri : dichiarare pubblica­mente, insegnare. Con Berlusconi è sempre il privato che parla,la narrazio­ne decisiva è quella dell’esempio perso­nale, del mito vivente o dell’autoironia domestica, del piacere di comunicare senza insegnare, senza mai salire in cat­tedra. La libertà che si prende e che dà a tutti e a ciascuno, nel suo metodo di bu­siness prima e di governo poi, è tutta qui. L’outsider è tutto qui. Il fenomeno sarà studiato per anni. Si conoscono casi di persone private dive­nute persona pubblica, maschera pro­fessionale, e anche con successo. Ma di persona privata che diciassette anni do­po l’irruzione sulla scena pubblica di una delle nazioni più industrializzate del pianeta, privata resta, e applica coc­ciutamente il suo metodo non profes­sionale, antiprofessionale, anche alla politica estera in tempo di guerra, an­che alla dialettica amico- nemico, e con efficacia malgrado gli ovvii elementi di fragilità che ogni storia amatoriale rive­ste, non si era mai sentito parlare. È un caso unico e misterioso, appunto, e lo studiarlo, l’osservarlo implica un sotti­le piacere, una delectatio filosofica che oggi l’Italia tutta condivide, lo sappia o no, se lo confessi o no.
Non è un caso qualsiasi di cronaca giudiziaria il fatto che l’ultimo assalto in­qui­sitoriale contro Berlusconi abbia tra­valicato ogni rapporto con le sue pro­prietà quotate e il suo comportamento pubblico, e che il tentativo di colpirlo si sia incuneato senza pudore tra le sue ce­ne, le sue frequentazioni, le sue feste e fin sotto le sue lenzuola. Ilda Boccassini è stregata, soggiogata da Berlusconi quanto il pubblico che va in tribunale a fargli la claque; i suoi nemici sono ipno­­tizzati dal suo metodo, che dannano, quanto noi, suoi amici e difensori del­l’aria di libertà che quel linguaggio del corpo e della psiche personale ha porta­to n­el sistema italiano ammalato di bu­rocratite e professionite.
Fino al crollo della Repubblica costi­tuzionale nata nel 1946, le ideologie di ferro del Novecento e il cattolicesimo nutrivano di significato la politica. Do­po, nel vecchio ceto dirigente è rimasto un insignificante mestiere, un guscio vuoto, una prassi senz’arte né parte, senza anima, senza riscontri vitali. Il mi­stero del privato che si fece statista è in­fatti controbilanciato dal mistero del­l’impotenza dei suoi avversari profes­sionisti, idonei all’insegnamento, do­centi di metodo politico, ma incapaci di sottrarsi all’ipnosi dell’uomo della folla che dice quello che non si dovrebbe mai dire, e per questo si fa stranamente, ellitticamente, fatalmente capire. Il Giornale, 27 marzo 2011